La società sparente

Questa che segue è la prefazione di Gianni Vattimo al volume La società sparente, scritto da Emiliano Morrone e Francesco Saverio Alessio, Neftasia Editore, Pesaro, 2007.

Nel gennaio del 2005, Emiliano Morrone mi spedì per e-mail una lettera aperta pubblicata sul suo giornale, «la Voce di Fiore». Con questa, appoggiato da giovani, mi proponeva come candidato sindaco nella città di Gioacchino da Fiore, dove nel 2004 ero stato per un congresso internazionale sull’abate.
Con qualche perplessità, accettai, certo che non avremmo vinto ma che un po’ di movimento avrebbe aperto degli spazi politici.
Soprattutto, mi intrigava il progetto, costruito dal basso e da giovani – non tutti. Mi appassionai sempre di più in campagna elettorale, nonostante un primo scetticismo dovuto all’esperienza.
Mio padre era calabrese, di Cetraro, dove io stesso ho passato gli anni della guerra, restando segnato dal dialetto e dalle amicizie di là. Parlamentare europeo, la politica dei partiti e l’evoluzione del sistema italiano mi avevano fornito un’idea precisa dei contenuti e delle possibilità in gioco, sotto elezioni e dopo.
Avevo avuto modo di confrontarmi con questo gruppo di giovani: li conoscevo, non rappresentavano un partito, si lasciavano guidare dalla passione, dai loro «eroici furori». Finito il mio intervento al congresso gioachimita, c’eravamo incontrati per parlare di «filosofia ed emancipazione». C’era anche un prete missionario, don Battista Cimino. Eravamo in un salone dei padri francescani, i ragazzi reattivi, attivi e decisi. Mi sembrava che ci fosse un terreno buono per seminare qualche speranza concreta.
In Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, avevo parlato a lungo di Gioacchino da Fiore, affascinato dalla «sua idea del carattere essenzialmente storico della salvezza».
I miei sostenitori raccontavano del degrado della sua città, San Giovanni in Fiore. Facevano analisi puntuali e interessanti. Era un gruppo robusto: cognizione, acume, coraggio, chiarezza. Non riuscivano a sopportare le politiche clientelari e le logiche mafiose della zona. Erano coscienti. Mi spiegarono che alcuni «traffici» locali avevano a che fare con importanti decisioni a livello regionale. Definirono San Giovanni in Fiore – oasi di assistiti dallo Stato e «fabbrica di emigranti» – come «riserva di consensi elettorali decisivi».
Tra di loro, Emiliano Morrone e Francesco Saverio Alessio avevano raccolto dati e indizi su numerose anomalie e irregolarità nel posto. Tramite internet, i due avevano iniziato una battaglia per l’emancipazione dei residenti, con una serie di basi teoriche non banali. Si riferivano al «pensiero debole» e, con vari collegamenti all’opera di Gioacchino, mi consideravano una figura idonea a promuovere con loro una trasformazione culturale della società del luogo.
Con don Cimino, avevano sviluppato un discorso, anche teorico, sullo sfruttamento dei paesi poveri in condizioni di minorità, mettendo in mezzo Teologia della Liberazione, Hans Jonas, Robert Young e altri. Su «la Voce di Fiore» avevano approfondito intervistando il collega Alfonso Maurizio Iacono, molto attento al tema dell’«uscita dalla minorità». Insomma, avevano provato a isolare le ragioni del successo della Ndrangheta nel territorio, tentandone una lettura d’insieme.
Oltretutto, avevano concepito l’alternativa, radicale. Suggestionati dall’utopia della giustizia di Gioacchino, da tempo teorizzavano il superamento dell’immobilismo locale con la creatività, la poesia e il culto della bellezza. Morrone e Alessio avevano studiato, in particolare, le cause dell’emigrazione di oggi, rapportandole a quelle del passato. Si erano basati su alcuni scritti di testimoni diretti della diaspora, lo psichiatra Salvatore Inglese e la scrittrice Anna Paletta Zurzolo. Il primo ne aveva descritto gli effetti sulla psiche dei residenti, spezzati i legami affettivi coi parenti emigrati. La Paletta Zurzolo aveva narrato della sua infanzia a San Giovanni in Fiore, vista da adulta canadese.
Morrone e Alessio avevano quindi ripreso la materia, con la tendenza a recuperare – ma non in senso identitaristico – il patrimonio culturale della tradizione. Sgretolato, come i significati storici e politici dell’emigrazione, da una classe politica autoreferenziale e molto spesso cinica.
Con pochi mezzi, grazie alla rete e a un forte senso critico, avevano divulgato le loro ricostruzioni – antropologiche, sociologiche e filosofico-politiche – della situazione locale, del «dominio mafioso delle coscienze». Erano riusciti a creare dei link con il contesto globale, utilizzando internet come veicolo di denuncia e cassa di risonanza.
A San Giovanni in Fiore tutto è sorprendentemente tranquillo. Rispetto alle immagini di sangue della Ndrangheta, c’è in apparenza solo una desolante immobilità. I rapporti professionali sono condizionati dall’amicizia – che non ha affinità con quella di Cicerone nel Laelius De amicitia.
Nell’amministrazione pubblica, i sistemi della diretta conoscenza e della consegna brevi manu costituiscono la regola. C’è sempre un rapporto personale fra Stato e cittadino, Stato e utente. In un ambiente così piccolo e marginale, un osservatore esterno potrebbe concludere che non ci sono fatti di interesse generale.
Nella mia breve esperienza a San Giovanni in Fiore, ho verificato che anche – e proprio – sull’espressione del voto c’è stretta vigilanza, imposizione. Esiste il modo di obbligare l’elettore a votare un particolare candidato. È un fatto di minacce sottili, difficili da dimostrare, di favori, diritti concessi per intercessione.
La mia vicenda politica a San Giovanni in Fiore servì a riprendere gli animi di tanti, stanchi di subire, e non si esaurì nella sconfitta elettorale.
Questo saggio di Emiliano Morrone e Francesco Saverio Alessio, dal curioso titolo La società sparente, evocazione del mio testo La società trasparente, nasce dalla stessa esigenza che li portò a costruire quei link di cui ho scritto sopra.
Assieme, hanno a lungo sperimentato la potenza di internet, di cui si sono largamente serviti allo scopo di creare spazi culturali e politici per l’emancipazione dalla Ndrangheta.
Per entrambi, l’«onorata società», come chiamano l’organizzazione mafiosa calabrese, non è solo una struttura – o uno Stato – che si muove contro la legge, sostituendola con la volontà di una “cupola”. La Ndrangheta è, secondo Morrone e Alessio, un modo di pensare e agire, un atteggiamento proprio del calabrese, che la proietta come una sorta di mito, di ierofania.
Il loro libro è un viaggio all’interno dei complessi meccanismi della politica locale, causa della facile e continua espansione della Ndrangheta. È un racconto di fuga dalla terra d’origine.
Morrone, giornalista, è scappato dalla Calabria con la speranza di riuscire, da fuori, a raffinare l’indagine sui rapporti fra politica e Ndrangheta limitandone la carica oncogena.
Alessio aveva adottato una strana forma di fuga, prima di andarsene definitivamente in Germania. Viveva in rete, pur abitando a San Giovanni in Fiore, isolato da tutti. A riguardo, c’è un suo articolo, molto intenso, in parte inserito nel presente volume. Si intitola Per un’ermeneutica del web. Un’escatologia florense contemporanea. In questo scritto, Alessio rende conto dell’isolamento personale, subìto e voluto a un tempo. E parla della rivoluzione rappresentata da internet, tanto per la propria sopravvivenza, quanto per la battaglia politica intrapresa, finalizzata all’emancipazione collettiva.
Al centro de La società sparente è il fenomeno migratorio, tipico del Mezzogiorno, addebitato dagli autori a un preciso progetto politico, reperibile nella storia di San Giovanni in Fiore e della Calabria. In altri termini, l’emigrazione è qui considerata anche come soluzione per la difesa della (propria) libertà di opinione e della dignità personale. Se la ripartizione delle terre in Sila, l’autonomia dei contadini e l’occupazione delle masse furono la giusta meta dell’azione dei partiti, a un certo punto i loro ideali di sostegno della povertà e delle famiglie si usarono strumentalmente per la scellerata propagazione d’un assistenzialismo devastante. La fuga dalla propria terra, la fuga dalla Calabria, non ha impedito agli autori la prosecuzione della loro impresa, spesso vissuta come missione.
Nel libro, la retorica è accuratamente cassata, a vantaggio d’una coraggiosa esposizione, che, oltre a contenere nomi e vicende legati al malaffare calabrese, ne è una spiegazione causale. Il punto di vista di Emiliano Morrone e Francesco Saverio Alessio non è viziato dal bisogno di dimostrare qualcosa. Non ha, cioè, quelle finalità politiche di certa informazione nazionale.
Il loro lavoro si pone, quindi, come riferimento per una rilettura dell’emigrazione calabrese e meridionale. La Calabria, nonostante il progresso economico e i soldi ricevuti dall’Unione Europea, si sta spopolando paurosamente. Oggi, come ieri, l’emigrazione produce il vuoto politico. Dunque, l’auspicio è che, anche grazie al dibattito e ai collegamenti su internet, sia proprio un rientro generale, dopo la «fuga», a produrre un’azione, effettiva ed efficace, contro la Ndrangheta.

link utili: http://lasocietasparente.blogspot.com
http://www.lavocedifiore.org/SPIP
http://www.emigrati.it

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18 Commenti

  1. Bravo Gianni, divulghiamo queste informazioni!
    sarà anche una società sparente, ma con l’uomo presente!
    :-)

  2. non capisco come si possa “lottare contro la ‘ndrangheta”.
    e non capisco perché si debba.
    meglio andarsene.
    a meno di non amare molto la propria terra: ma come si fa ad amare una terra e una cultura che producono mafia come le api fanno il miele?
    il discorso, mutatis eccetera, vale anche rispetto al Paese tutto.

  3. La mia idea è primo focalizzarsi, poi globalizzarsi. Per la prima, di cui bisognerebbe parlare a lungo per spiegare esattamente di cosa si tratta, occorre fondamentalmente alta specializzazione e differenziazione e maieutica dolciana applicata. Per la seconda, globalizzarsi, internet è certo uno degli strumenti più proficui.

  4. La mafia è prodotta dal silenzio e dalla rassegnazione. Che spesso vengono, a Sud, dall’assistenzialismo a oltranza dello Stato centrale. In Calabria, ci sono illustri specialisti di questa filosofia applicata. Solo qualche nome, per non essere generici e per evitare partigianeria: Mario Oliverio (Ds), Nicola Adamo (Ds), Giovanni Dima (An), Pino Gentile (Forza Italia). Ma la lista è lunga e gli appoggi sono alti. Il resto lo fa la complicità di chi prende; a volte poco, a volte troppo.

  5. la mafia è antica, è nella cultura nazionale praticamente da sempre, non è il prodotto di nulla di recente, men che meno di silenzio e rassegnazione, che sono semmai il prodotto dell’azione mafiosa, dell’intimidazione.
    avere paura sarà legittimo in un paese dove i più potenti nemici della mafia, dotati di mezzi e potere, sono stati tutti regolarmente ammazzati?
    in nome di cosa si può chiedere ad un uomo di farsi eroe?
    in nome dello stato, forse?
    e dov’è lo stato?
    esiste uno stato che sia del tutto fuori dalla mafia?
    esiste un potere, politico e non, che sia del tutto estraneo alla logica mafiosa?
    Nell’amministrazione pubblica, i sistemi della diretta conoscenza e della consegna brevi manu costituiscono la regola. C’è sempre un rapporto personale fra Stato e cittadino, Stato e utente.
    Vattimo scrive:
    “Nell’amministrazione pubblica, i sistemi della diretta conoscenza e della consegna brevi manu costituiscono la regola.”
    Non so voi che esperienza avete, ma affermare che questa è prerogativa solo della cultura calabra francamente è un po’ ridicolo.
    Questa è la cultura dell’INTERO Paese e, se non fosse così, la mafia sarebbe già stata debellata da un pezzo.
    Lo stesso vale per il sistema camorristico: non è altro che la manifestazione acuta di un male endemico diffuso ovunque, o quasi.

  6. Caro Tashtego,

    condivido molto la tua analisi. Ma credo che, per quanto fondata, si concentri più sugli aspetti storici e meno su quelli dinamici del fenomeno. Hai ragione quando affermi che silenzio e rassegnazione sono degli effetti. Ma non credo di allontanarmi dal vero se sostengo che sono anche delle cause. Quanto alla peculiarità del metodo “brevi manu” di cui ha scritto Vattimo, penso, come te, che sia d’applicazione nazionale. Forse, però, ed è quello che intendeva il Nostro, in Calabria il male ha una sorta di “bulky”, che non sembra riscontrabile in altre aree regionali, a eccezione di quelle “classiche”. Giorni fa, ho ascoltato una conferenza di Gratteri. Non mi ha particolarmente impressionato il riferito e affascinante percorso del traffico della coca, dalla Colombia a Gioia Tauro. Il problema che cerchiamo di porci con Vattimo e Alessio, di là da “La società sparente”, è se possono esserci significativi interventi culturali per un’emancipazione dalla ‘ndrangheta, dalla camorra, dalla mafia et coetera. Ci è capitato di ossevare delle sottili forme di condizionamento nelle scuole, per esempio a San Giovanni in Fiore (Cs). Mettiamola così, per semplificare: ‘ndrangheta e analoghi sono una forma di pensiero, lontani da integralismi, che si producono anche nelle cd. “agenzie di formazione”. Io credo che il problema dell’organizzazione criminale del Mezzogiorno vada esaminato e letto in una prospettiva unitaria. Faccio tesoro, quindi, delle tue parole e del contributo essenziale di Roberto Saviano. Auspico, allora, un’azione e una lotta collettiva, consapevole che la cultura può sempre incidere e non essere un’utopia debole.
    Con viva gratitudine.

    Emiliano

  7. caro emiliano, la dimostrazione che partire dal basso sia una lettera morta, seppur lettera, è data dal fatto che voi stessi avete avuto bisogno di due ali protettive (vattimo) e di una idea balzana e discutibile, più trendistica, anche se il trendy non c’era, ma circolava nell’aria (vattimo candidato a sindaco).
    ora, cosa voglio dire, voglio dire che il target è ben individuato. e che non si sfonda col padrinaggio.
    ho idea che partire dal basso significhi altro.
    cordialmente.

  8. Caro topogigio,

    Vattimo non è un padrino, almeno per tre ragioni:
    1) all’università non conta una ceppa;
    2) in politica ha il peso di una piuma;
    3) sui media e per le sfere Chiesa lasciamo perdere.

    Mettiamola così, è un calabrese d’origine. Nulla di strano se qualche volta si chiama qualcuno che non ha messo le mani nella marmellatina. Via dal populismo, dalla retorica e dalla superficialità, voglio dire che la candidatura di Vattimo era semplicemente uno degli scandali dell’ovvio.
    Se è tutto compromesso, si cerca qualcuno che non c’entra.
    Quanto alla sua – di Vattimo – dimestichezza col basso, a parte la satira, credo che sia molto più abile e credibile d’un Cacciari, o d’un Coiffeur-ati.
    Con grande simpatia.

    emiliano

  9. Caro topogigio,

    Vattimo non è un padrino, almeno per tre ragioni:
    1) all’università non conta una ceppa;
    2) in politica ha il peso di una piuma;
    3) sui media e per le sfere Chiesa lasciamo perdere.

    Mettiamola così, è un calabrese d’origine. Nulla di strano se qualche volta si chiama qualcuno che non ha messo le mani nella marmellatina. Via dal populismo, dalla retorica e dalla superficialità, voglio dire che la candidatura di Vattimo era semplicemente uno degli scandali dell’ovvio.
    Se è tutto compromesso, si cerca qualcuno che non c’entra.
    Quanto alla sua – di Vattimo – dimestichezza col basso, a parte la satira, credo che sia molto più abile e credibile d’un Cacciari, o d’un Coiffeur-ati.
    Con grande simpatia e cordialità.

    emiliano

  10. caro emiliano, ma io mi riferivo alla vostra “mossa” simbolica e di prestigio, riguardo a vattimo. poi, “padrinaggio” non era detto in accezione negativa, ma non si può negare che padrinaggio è stato.
    un caro saluto.

  11. La mafia mi sorprende. Un sistema feudale che si perpetua a dispetto dei mutamenti storici che le scivolano sopra. Anzi, un pezzo di storia che si è fermato e che diventa la sostanza di una storia che sembra apparentemente moderna e democratica. La mafia mantiene esercizio del potere in maniera schietta, decisa, che punta al sodo: la morte. E’ questo il suo potere: togliere la vita.
    Ma a questa decisione nel puntare al ‘sodo’, si contrappone l’estrema evanescenza della sua della sua manifestazione.
    Mi chiedo se, lasciando che la mafia si rivelasse come forma istituzionale di una regione, non porterebbe alle conseguenze storiche che tali sistemi assolutistici hanno portato: alla rivolta, a quella rivoluzione che in Francia nel 1789 si è sbarazzata del potere assoluto. Forse è proprio questo esercizio surrettizio del potere che impedisce i moti di liberazione. La storia è passata di lì solo come un alibi. In altre parole, forse Garibaldi (che non è andato fino in fondo), forse i Savoia (che non hanno capito che l’Italia la si doveva fare meglio), forse gli americani con lo sbarco (che ne hanno avuto bisogno in sede anticomunista), forse lo stato Repubblicano (che ha cercato di convivere con il fenomeno) hanno congelato un processo storico che per questo ha mancato di compiersi. E un processo storico deve fare il suo corso. La conquista della democrazia è appunto una conquista di popolo.
    L’insurrezione contro la mafia come contro Luigi XVI.
    L’insurrezione non è indolore.
    D’altra parte la mafia provoca tanto dolore strisciante.
    Che si riveli, che si manifesti, che dichiari ufficialmente il suo potere senza nascondersi!
    Ma la mafia può nascondersi, può far finta di non esistere proprio nascondendosi sotto le ali dello Stato.
    Lo Stato copre la mafia ma non in quanto connivente (forse anche quello), ma perché consente alla mafia di diventare bersaglio manifesto dello scontento popolare.
    E’ un po’ una provocazione, me ne rendo conto, ma lo Stato fornisce l’alibi e soprattutto la copertura (non si tratta solo di connivenza) ad un sistema che è Feudale.
    Liberté,

  12. Interessante Vattimo.
    Ecco che vediamo un possibile elemento costruttivo della disgregazione, la ri-collocazione in un diverso assetto identitario (penso anche alla rete) che permetta di rifondare il potere della voce.

  13. Scusate, è partito il pulsante d’invio prima che avessi finito di rileggere quello che avevo scritto. e infatti ci sono diverse ripetizioni.
    Tuttavia una correzione è d’obbligo nella frase “Lo Stato copre la mafia ma non in quanto connivente (forse anche quello), ma perché consente alla mafia di diventare bersaglio manifesto dello scontento popolare” , manca un ‘non’ e diventa “Lo Stato copre la mafia, non in quanto connivente (forse anche quello), ma perché non consente alla mafia di diventare bersaglio manifesto dello scontento popolare. Impedisce che accada prima o poi ciò che sta accadendo in Birmania. Alla fine quel regime dovrà pur cadere!
    Poi volevo concludere semplicemente dicendo che forse forse ho esagerato, ma Egalité, Fraternité, Liberté sono costate molto… ne è valsa la pena.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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