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La Generazione TQ e il verduraio di Havel

Questo articolo l’ho scritto all’indomani dell’incontro romano del 29 aprile. Ho atteso finora per pubblicarlo perché volevo proprio che questa riflessione su intellettuali e società arrivasse dal Sud, e più specificatamente, dalle colonne di un mensile come «i Quaderni de L’Ora», erede di una grande tradizione di impegno culturale e civile.

da i Quaderni de L’Ora (anno 1, n°5 – giugno 2011)

di Evelina Santangelo

Quanti della generazione TQ si sono trovati a Roma il 29 aprile scorso ospiti della casa editrice Laterza a confrontarsi sui modi di acquistare credibilità sociale o rilevanza culturale – scrittori, critici, editor tra i trenta e i quaranta – hanno prima di tutto fatto i conti con la definizione che da tempo Antonio Scurati dà di questa generazione: una generazione figlia «dell’inesperienza», una generazione, come ha scritto Giorgio Vasta, «in attesa di un Godot epocale che li riscatti (consapevoli del fatto che se Godot non arriva è meglio)». Ed è proprio da qui che vorrei cominciare questa mia riflessione.

Forse perché vivo in una terra dove l’esperienza dell’arroganza mafiosa, da tempo, chiama a scelte di campo ineludibili. Forse perché oggi al Sud (a quanto pare, più che al Nord) si fatica a non ritenere parte della propria esperienza l’irrompere (fisico, traumatico) di tutta un’umanità in fuga da terre così vicine, un’umanità che sempre più ci interroga, scardinando certezze che credevamo acquisite… mi risulta davvero difficile non pensare al contesto e al tempo in cui un tale dibattito «generazionale» è stato avviato. E cioè in un’Europa sempre più tenuta sotto scacco da movimenti nazionalistici e populisti. In un’Italia dove si è radicata una cultura politica che ha reso prima culturalmente, poi legalmente irrilevanti valori fondativi che riguardano il nostro stato di diritto, la nostra comune idea di libertà (e che oggi rischia di renderli irrilevanti persino sul piano costituzionale).  E questo, mentre nel vicino mondo arabo uomini e donne più o meno della nostra stessa generazione, o molto più giovani, hanno avviato una sfida impensabile in nome di diritti civili e umani che abbiamo sempre ritenuto nostra indiscutibile e indiscussa conquista di civiltà, anche mentre ne perdevamo il senso e il valore.

Per questa ragione ritengo che stia proprio in quella premessa di «inesperienza» così insistita al punto da suonare come un alibi generazionale il germe stesso del nostro fallimento. A meno che non ci si ponga senza ipocrisia alcune domande.

Come pensiamo di godere di una qualche autorevolezza, se propendiamo a vivere (e a riconoscerci, addirittura) in una bolla di irresponsabilità culturale e civile, in cui spesso non ci si sente chiamati a rendere conto, se non in termini quantitativi, dei libri che si scrivono, si editano, si pubblicano, si recensiscono, si propongono ai premi letterari, si votano a quegli stessi premi, e del modo anche in cui tutto ciò troppo spesso si fa – distrattamente. Come se queste scelte e il modo in cui si compiono non contribuissero a creare anch’esse la biografia culturale del nostro tempo.

Come pensiamo di essere considerati un avamposto culturale, se non riusciamo a far nostro quel principio di «radicale corresponsabilità» su cui si è cercato di fondare una nuova frontiera di civiltà contro un’idea del diritto e della libertà intesi come privilegio di alcuni e non di tutti. Forse che tutto ciò non appartiene alle urgenze del nostro tempo? Forse che la nostra generazione di scrittori, editor, critici non è anch’essa opinione pubblica? forse che molti di noi non godono di spazi e strumenti per poterlo fare o almeno provarci? Penso a come ci siamo stracciati le vesti, superando una volta tanto le divergenze di visione, dinanzi alle gravi ritorsioni di amministratori leghisti contro i libri di quanti avevano firmato l’appello in difesa di Battisti. Non abbiamo fatto altrettanto – tutti insieme, con una pluralità di interventi e riflessioni (non solo con appelli generici) – però, quando gli attacchi virulenti si sono rivolti verso altri ambiti, altre figure, altre violazioni di diritti civili e umani, dove era ugualmente in gioco «la vera essenza della libertà e dell’umana integrità…» per dirla con Havel.

E allora mi viene in mente quel che accadde nella Cecoslovacchia della «normalizzazione», mi viene in mente lo spirito di un documento come Charta 77 in cui alcuni intellettuali (tra cui appunto Václav Havel) chiamarono altri intellettuali ad andare ben oltre i loro «orizzonti particolari» in difesa di ciò che sembrava irrilevante, insignificante, quanto di più lontano dalle loro anime belle: quei Plastic People che la propaganda aveva presentato come un gruppo di rockettari drogati, un gruppo di teppisti e criminali, solo perché intendeva cantare a suo modo al di là persino del dissenso.

Come pensiamo di essere considerati rilevanti, dotati di una qualche credibilità sociale, se di fatto aspiriamo non tanto a immaginare una nuova società letteraria (nuova più che in termini generazionali, nello spirito), ma cerchiamo di ricalcare le orme di una società letteraria a statuto speciale, rispetto al resto della società, ai suoi avamposti civili, al resto della vita pubblica. Una società letteraria che non riesce nemmeno a far arrivare quell’idea che sola potrebbe avvicinare più gente alla letteratura, e cioè che la letteratura ha profondamente a che vedere con la «capacità di intelligere il proprio tempo», per dirla con la Bachmann, ha a che vedere con un interrogare irrequieto tutto ciò che, nel bene e nel male, appartiene all’umano, e dunque a tutti.

Come pensiamo di superare la nostra fragilità e vulnerabilità (anche rispetto all’amor proprio così imperante), se perseguiamo uno splendido isolamento, indifferenti persino alla consapevolezza che solo la pluralità e la sinergia degli sguardi, delle poetiche, delle visioni, degli immaginari più disparati può essere misura di un tempo complesso, franto, interconnesso. Tanto più che la pluralità è uno dei tratti distintivi appunto e specifici del fare letterario, è il sale della nostra libertà.

Se non cominciamo intanto a capire se e come è possibile ritrovarci almeno su domande del genere, quali risposte comuni dovremmo trovare per non rimanere in ostaggio del mercato o della nostra irrilevanza?

Havel si prese persino l’accusa di «esibizionismo morale» quando intuì quale colossale menzogna investisse una società in cui le intenzioni di un sistema (di qualsiasi natura) vengano spacciate come bisogni dei cittadini, come la ragion d’essere stessa della vita – per quanto plausibili quei bisogni possano sembrare. Per questo nel Potere dei senza potere concepì quella figura di verduraio che si rifiuta di esporre un cartello gradito al regime, non perché non sia plausibile quel che c’è scritto, ma perché espressione manifesta di una menzogna corroborata appunto dalla connivenza di tutti in ogni loro atto quotidiano.

Beh, forse dovremmo cominciare a fare come quel verduraio che, con un solo gesto, si assume la responsabilità di spezzare il circolo vizioso della menzogna, cadendo per ciò stesso nel «dissenso». «Un uomo non diventa dissidente, – dice infatti Havel, – perché un bel giorno decide di intraprendere questa stravagante carriera, ma perché la responsabilità interiore combinata con tutto il complesso delle circostanze esterne finisce per inchiodarlo a questa posizione: viene sbattuto fuori dalle strutture esistenti e chiamato a un confronto con esse». Quel confronto vorrei sottolineare cui, a gran voce, ci hanno per esempio chiamato i lavoratori di Rosarno vessati dalla ’ndrangheta o i tunisini arrivati a Lampedusa, quando hanno chiesto prima di tutto alla nostra generazione che razza di «civiltà dei diritti», che razza di libertà è la nostra.

Se ci ponessimo il problema di rispondere, in tutti i modi che ci sono propri, a domande del genere – che riguardano così da vicino ormai ogni ambito della nostra esistenza, dalla scuola al lavoro all’esercizio dei diritti e doveri civili –, forse cominceremmo anche a riappropriarci di un destino comune, e dunque anche del nostro, in quanto scrittori, critici, editor… e più in generale in quanto uomini e donne che dovrebbero contribuire allo sviluppo culturale del proprio paese.

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18 Commenti

  1. Quando sento disquisire di cose tipo “la fine dell’esperienza” mi incazzo. Può riconoscersi in questo – anche in occidente – solo chi non ha conosciuto il limite. E per limite non è intendersi soltanto quello economico, sociale ma, ad esempio, quello naturale. Chi ha una disabilità, fisica o sensoriale, non capisce cosa sia questa “inesperienza” di cui si ciancia, ma non lo ritiene un privilegio. Chi è cresciuto e vive nel polistirolo dell’inesperienza, abbia 30 o 40 o 50 anni, chissenefrega, abbia il pudore di tacere.

  2. Mi convince molto, soprattutto per la “sostanza” delle domande che pone – quella che rende sterile e fine a se stessa tutta l’operazione in questione. Parafrasando l’autismo corale di Franco Arminio, TQ è l’epifenomeno del suo rovescio speculare: il narcisismo di gruppo – sintomo di senescenza etica il primo, di infantilismo senescente il secondo.

    fm

  3. Mi trovo sempre in sintonia con Evelina Santangelo: e questo articolo pieno di passione, ne è l’ennesima prova. L’impegno degli scrittori, oggi, è tanto più urgente e, se vogliamo, affascinante perché credo siamo di fronte a dei cambiamenti epocali di cui si intravedono le prime tracce e abbiamo bisogno di qualcuno disposto a raccontarceli in prosa e in poesia. Il compito non è facile, ma molto necessario. Grazie.

  4. ciao a tutti,

    tra l’altro questa teoria dell’inesperienza, del fatto che sia impossibile fare esperienza oggi, a me ricorda in tutto e per tutto il concetto di “fine della storia” di fukuyama – concetto poi smontato parola per parola dal vorticare dei corsi e ricorsi storici.

    e poi, mettiamola così:

    a) se questa inesperienza nasce dal fatto che nei lontani anni novanta noi occidentali siamo stati spettatori della guerra in iraq, non sarà anche che gli iraqueni, gli abitanti del kuwait, i soldati americani, invece l’esperienza di affrontare una guerra la stavano compiendo davvero?

    b) e se c’è qualcuno che l’esperienza la sta compiendo davvero, non sarà meglio distinguere tra attori e spettatori di quella determinata esperienza? e, ancora meglio, in questo tempo pervaso dalla rappresentazione mediatica, per evitare di cadere in un determinismo mediatico senza fine, non sarà meglio intendere l’esperienza come un fenomeno ad assetto variabile che istantaneamente genera attori e spettatori, cioè soggetti che agiscono e intepretano e soggetti che assistono e interpretano?

    c) e chi assiste, mentre interpreta le immagini e i discorsi mediatici, e proprio perchè costretto a interpretare quello che sta guardando, non starà facendo anche lì, seppure con nuove modalità, esperienza? (tra l’altro, erano gli studiosi della scuola di “palo alto” a sostenere molto tempo fa che qualsiasi cosa noi guardiamo, leggiamo, e quindi interpretiamo, ci trasforma. tanto per dire: la letteratura non è un modo di fare esperienza?)

    d) e se la storia continua, e l’esperienza continua, e le forme di fare esperienza si aggiornano e si complessificano, teorizzare l’inesperienza non sarà un modo di chiamarsi fuori dalla storia?

    e) non sarà questa dell’inesperienza una teoria venuta fuori da un preciso contesto geografico, storico, economico in cui le condizioni di vita sono talmente elevate da non considerare che tutto intorno, dal luogo più lontano al luogo più vicino, la realtà accade in maniera anche sanguinosa segnando le persone? si potrebbe mai dire, per fare un esempio, confinando il discorso alla situazione italiana, che in calabria, in sicilia, in campania, la diffusione capillare della criminalità organizzata generi inesperienza? si potrebbe mai dire che perdere il posto di lavoro o rimanere precari a vita in una qualsiasi regione del nord italia generi inesperienza?

    f) e perchè poi l’esperienza deve coincidere con un trauma, e per di più un trauma collettivo (qui esemplificata nella guerra del golfo)? non sarà che nella macroteoria dell’inesperienza si sia persa una volta per tutte la dimensione non traumatica e quotidiana dell’esperienza? andare a scuola, innamorarsi, trovare lavoro, partecipare alla vita politica, mettere al mondo figli, comprare/costruirsi una casa, scegliere e frequentare i propri amici, sono proprio forme così infime di esperienza da evitare accuratamente di prenderle in cosiderazione?

    giuseppe

  5. La mia domanda è questa: se uno viene sbattuto fuori dalle strutture esistenti, si può poi confrontare con esse dall’esterno, o come? E se uno sbattuto fuori mettiamo che non la vuole la patente di dissidente per diventare poi magari presidente? E se per curare la sua dissenteria, nell’ombra, egli si limitasse semplicemente a scrivere, cioè a fare ciò che sa fare, se lo sa fare, andrebbe considerato un traditore? Mi scuso, erano tre domande.

  6. tutti gli interrogativi sollevati da Evelina mi sembrano buoni e – per fortuna – in parte condivisi dai TQ, anche se poi il problema è come passare da quesiti condivisi a qualche ipotesi di lavoro condivisa; TQ stesso per ora è un’ipotesi, e quindi ben venga il fatto che gli si indirizzi tutta una serie di interrogativi e di problemi…

    sulla questione dell’inesperienza, anch’io mi incazzo; e infatti lo trovo il punto più debole del discorso d’avvio; innanzitutto nessuno dovrebbe parlare in nome dei traumi che gli altri NON hanno avuto; semmai, si può parlare in nome dei traumi che si sono NECESSARIAMENTE avuti. I destini e le biografie individuali sono troppo diversi per poter dire che cosa è mancato loro.

    Detto questo, vedo un limite nel discorso di Evelina. Evelina sembra dire: ma non vedete cosa accade intorno a noi, ai nostri confini? Il disastro che colpisce popoli a noi vicini? (Per non parlare dei disastri che toccano le notre regioni di mafia).
    L’impianto retorico della denuncia dice grosso modo: “voi / noi stiamo qui tranquilli, nel nostro mondo letterario, privilegiato, mentre là fuori loro stanno male. Dobbiamo mettere in relazione stretta il qui-dentro e il là-fuori”.
    In questo modo di presentare le cose però si rischia di dimenticare che il dissesto passa innanzitutto tra noi, ed è questo che ci rende solidali agli altri là fuori, non solo un nobile rispetto dei diritti umani.
    E io spero che TQ giunga, assieme ad altre realtà della stessa generazione o di generazioni più giovani, a questa chiara consapevolezza. Noi per primi, i trenta-quarantenni stiamo perdendo o abbiamo perso i diritti dei nostri padri, i privilegi del ceto medio acculturato. Noi per primi siamo sulla linea di fuoco. E quelli che vengono dopo di noi stanno anche peggio. La Grecia è il nostro futuro.
    Questo è un punto importante. Il trauma è già qui. Non dobbiamo riconoscerlo negli altri perché siamo persone di buona volontà, ma perché grosso modo siamo nella stessa barca, o quanto meno colpiti dalla stessa logica globale – il neoliberismo, nelle sue forme ideologiche e politiche.
    Noi non ci riconosciamo nel proletariato egiziano perché siamo proletari come loro – ma perché siamo ceto medio che sta proletarizzandosi.

    I cambiamenti radicali non avvengono in nome di un rispetto astratto dei diritti umani, dei valori della democrazia. Avvengono perchè essi CI riguardano profondamente. La solidarietà con gli espatriati del mondo arabo nasce per il fatto che RICONOSCIAMO in loro una condizione analoga alla nostra, fatte tutte le differenze. In Italia come in Egitto come in Grecia non esiste (più) un rapporto tra livello d’istruzione e reddito. Qui passa il fronte. A partire da qui si può ingaggiare una guerra, con le relative alleanze.

  7. «Se ci ponessimo il problema di rispondere, in tutti i modi che ci sono propri, a domande del genere – che riguardano così da vicino ormai ogni ambito della nostra esistenza, dalla scuola al lavoro all’esercizio dei diritti e doveri civili –, forse cominceremmo anche a riappropriarci di un destino comune»,
    Veramente mi sembra proprio di dire quello che mi contesti, Andrea.

    Per il resto, condivido profondamente il disagio di chi non si riconosce affatto nella teoria dell’«inesperienza», per le ragioni espresse Giuseppe e dalla maggior parte degli intervenuti.

    Personalmente, più in generale, credo anche che oggi sia davvero difficile ridurre la complessità del nostro tempo e del nostro mondo interconesso (spesso malamente) entro i confini angusti di una teoria che si presenti come una lettura esaustiva di un pezzo di mondo. Credo piuttosto che ci si debba mettere, più umilmente, direi, in ascolto e da questo «ascolto» far partire le nostre scelte. E quando dico «nostre» mi riferisco alle scelte di chiunque di noi in qualunque ambito operi.

    Ho voluto infine citare Havel perché fu uno dei pochi a capire che, se gli intellettuali volevano addavero contribuire a dare un nuovo corso alla Cecoslovacchia occupata, dovevano finirla di pensarsi come un’entità separata da tutto il resto, e cominiare a capire per esempio il ruolo fondamentale delle rock band (che ritenevano «irrilevanti») e di quanti, ovunque, erano portatori di una cultura civile.
    Credo sia il tempo delle aperture, dell’ascolto, della sinergia tra intelligenze diverse e operanti anche in ambiti molto diversi tra loro. Sempre più spesso mi capita di capire qualcosa di fondamentale ascoltando chi fa un mestiere totalmente diverso dal mio e che dunque, spesso, ha nozione di mondi e saperi lontanissimi dai miei.

  8. Si, Evelina, davvero il tuo intervento è in tutto condivisibile. Io però vorrei che si cercasse di identificare il più precisamente e concretamente possibile dove sta il male, e quale sia il male, e pure eventualmente la causa. Ed è giusto diffidare di risposte e teorie onnicomprensive, ma poi da qualche teoria e da qualche risposta bisogna pur cominciare. Molto si è detto su Berlusconi. Molto si è detto sul berlusconismo. Molto ancora bisognerà dire sulla natura del capitalismo, sull’Europa dei tecnocrati e degli esperti, sulla dottrina economica del libero mercato, sulla condizione delle classi sociali da cui stanno partendo i moti di contestazione. Poi sono d’accordissimo con te, che è importante mettere assieme i diversi sapere, avvicinarli, così come le più diverse esperienze.

  9. … molto ancora bisognerà dire su quale modello di sviluppo immaginiamo, su quali basi vogliamo rilanciare la sfida europea… perché mi sembra che sul capitalismo e sul libero mercato si è detto, nel bene e nel male, tantissimo, mentre si è ancora immaginato pochissimo (e comunque non abbastanza) su come rifondare una qualche visione sostenibile di sviluppo capace di tenere dentro più mondo e umanità possibile.

  10. Io mi chiedo se si cerchino risposte che diano risultati immediati, o risposte. Nel primo caso si cureranno i sintomi del male. Nel secondo, se va bene, magari il male. Nel secondo caso magari saranno altri ad usufruire delle risposte, e non noi. Si potrebbe cercare una via e cominciare a percorrerla anche sapendo che chi ha iniziato a camminarci non ne vedrà la fine, ma ci saranno altri a prenderne il posto? Boh.

  11. Informazione sull’incontro: «Tutti i fiumi si incontrano al Valle».

    Domani, venerdì 24 giugno, al Teatro Valle di Roma (occupato da nove giorni) alle 16 si terrà un incontro pubblico fra una rappresentanza di TQ, gli stessi occupanti del Valle, i lavoratori del Macro, il gruppo di cineasti autonominatosi Secondo Tempo, rappresentanti di UniComm (studenti e ricercatori precari), del Coordinamento Precari della Scuola e del Coordinamento Precari Universitari.

    Scopo: tentare di coordinare tutte queste realtà per elaborare una visione generale dei problemi della cultura e dell’istruzione nel nostro paese.

  12. Quoto Inglese quasi in toto. In particolare:

    – “Noi per primi, i trenta-quarantenni stiamo perdendo o abbiamo perso i diritti dei nostri padri, i privilegi del ceto medio acculturato. Noi per primi siamo sulla linea di fuoco. E quelli che vengono dopo di noi stanno anche peggio.” Questo è e sarà il tema generazionale: assottigliamento della classe media – anche nel settore culturale – figlio che loro malgrado, torneranno a fare il lavoro dei propri padri.

    – “Noi non ci riconosciamo nel proletariato egiziano perché siamo proletari come loro – ma perché siamo ceto medio che sta proletarizzandosi. […] In Italia come in Egitto come in Grecia non esiste (più) un rapporto tra livello d’istruzione e reddito. Qui passa il fronte.”

    Già. L’apertura finale è effettivamente la parte più interessante: ma come? E’ però altrettanto vero che la consapevolezza delle attuali condizioni economiche suggerisce fortemente che quella che stiamo osservando è una rivoluzione al contrario, in cui Valle Giulia, l’apertura delle università agli istituti tecnici, il ’68, i diritti maturati nel mondo del lavoro, l’affermazione della classe media sul quella nobile/aristocratica, siano destinate purtroppo a ripetersi al contrario.

    La mancanza di incisività di chi si occupa di cultura non dipende (solo) da un disagio di inesperienza. L’inesperienza è piuttosto il risultato della carenza di risorse di un sistema che cominciava già negli anni ’90 a non poter più permettersi così tanti addetti ai lavori e che ha reagito svuotando i loro ruoli di significato. Così come il sottoproletariato di Pasolini rappresentava in una situazione di boom economico il segmento dei bambini nati-morti che il miglioramento degli standard igienici aveva trasformato in qualcos’altro.

    Non è affatto detto che da questa condizione si riesca necessariamente a uscire tutti. Nella società che si muove a passo di gambero, l’assottigliamento del numero degli addetti ai lavori in qualunque settore, anche quello culturale è, per chi non ha alle spalle una famiglia economicamente solida, è molto, molto probabile.

  13. Se ne esce tutti, ma bisogna esser disposti a trasferirsi nel reale, per dirla coi francesi. L’unica realtà che ci impone il sistema politico-editoriale, del resto inventandosela, è troppo stretta, tutti ‘un ci si sta. E poi fa abbastanza schifo…

  14. Il movimento/collettivo/raduno/quello-che-è/ TQ, se vuole non dico ottenere una credibilità, ma quanto meno destare – in quelli come me, ovvero negli insoliti&ignorabili, e non nei soliti ignoti notissimi l’uno all’altro – un interesse non unicamente destinato a scemare, deve rinunciare agli eventuali benefici collaterali che possono provenire dal chiacchiericcio innescato nelle redazioni e nei circoletti degli addetti ai lavori e cominciare a dare informazioni invece che impressioni/sensazioni/considerazioni/interpretazioni dello stato di fatto “secondo loro”; perché di personaggi così già trasbordano giornali, talk-show e baretti della piazza centrale e in periferia.

    I TQ hanno nomi e cognomi che non corrispondono strettamente a Giuseppe Antonelli, Nicola Lagioia, Giorgio Vasta, Alessandro Grazioli e Mario Desiati? Se si, quali sono? Una spassionata e consultabile e divulgativa e imparziale lista, in ordine alfabetico!, sarebbe qualcosa di finalmente consistente da cui partire

    Quali sono le difficoltà CONCRETE che i TQ incontrano e che impedisce loro di entrare in contatto con quell’altro mondo ( altro mondo?) che è la società dei non addetti ai lavori? Hanno nomi e cognomi di editori, direttori di giornali e riviste, produttori, padroni del vapore che hanno rigettato le loro iniziative? e quali sono queste iniziative rifiutate? Qui andrei di nuovo di elenco.

    Quali sono le opere prodotte e le attività culturali messe in atto dai TQ che la società dell’altro mondo si sta perdendo perché boicottate dal Sistema Monopolistico dei Media? Fornire elenco.

    Infine. I TQ dicono di essere esasperati dal patema della inesperienza, e che se ne vogliono liberare. Ma come? sono impazziti? ci pensate se, dico i primi nomi che mi vengono a mente, Kafka e Pessoa avessero voluto sbarazzarsi dei loro traumi della inesperienza? L’inesperienza non ha impedito a Salgari di scrivere decine e decine di libri, che forse non saranno dei capolavori della letteratura, ma che nella società dell’altro mondo hanno attecchito eccome! TQ, non fate sciocchezze: tra di voi forse si trova il prossimo Joyce e voi volete strozzargli l’urlo in gola?

    Quindi, attenti TQ, perché meno continuate a fare, più preservate l’inesperienza, più aumenta la probabilità che qualcosa di imperdibile venga fuori, ma davvero. Lasciate fare a lei.

    Un saluto!
    Antonio Coda

  15. Mi scuso con la redazione di NI per occupare uno spazio che non mi appartiene con la riflessione che segue, decisamente troppo lunga! E la ringrazio se mostrerà il mio commento.

    Il pezzo di Evelina Santangelo mi ha riportato alla mente un altro pezzo scovato, con colpevole ritardo non essendo io una lettrice del Corriere della Sera, solo una settimana fa. Risale al 27 maggio scorso.
    “Dopo aver letto con estremo piacere intellettuale la lucida argomentazione della Rodotà, immaginavo già (nella mia fantasia utopistica) che sul tavolo del direttore si sarebbero rovesciate una valanga di lettere, commenti, interventi, provenienti dai settori più disparati della nostra società civile: dalla Santanchè alla Finocchiaro, dalla Bonino alla Polverini, dalla Marcegaglia alla Camusso, dalla Maraini alla Murgia, dalla Perini alla De Gregorio, dalla Moratti alla Mafai, e così via dicendo”.
    Questa “fantasia utopistica” è del giornalista Sergio di Cori Modigliani e concerne un articolo di M. Laura Rodotà comparso sul Corriere della Sera il 21 maggio (Politicamente scorretti, conformisti e pericolosi); il desiderio di replica espresso da Modigliani non ha trovato spazio sul quotidiano, e sul fatto il giornalista ha offerto una lunga chiosa di riflessione a Lorella Zanardo. Il breve articolo di Rodotà, che replica ad un intervento di Carmen Llera ma anche ne prescinde, è una riflessione ad ampio spettro sul caso Strauss-Kahn. Per Modigliani, poteva essere uno spunto utile per un dibattito ad altrettanto ampio spettro sulla violenza alle donne che la vicenda Strauss-Kahn ha effettivamente innescato in altri paesi, e che in Italia s’è consumata in cinque giorni e quattro vetuste battute contro le femministe da salotto buono (Stefano Borgonovo su Rodotà e Ravera). Difatti poteva anche diventare, aggiungerei, occasione per una riflessione su contesti, modi e forme (e mode) dei conformismi nostrani, che colpiscono anche chi, come sicuramente Llera, alla patente di “intellettuale” ci tiene e magari anche su quanto contano, pure per quella patente, le questioni di genere. Perché ancora più interessante è quello che fanno emergere i riluttanti colleghi di Modigliani che ne hanno rifiutato l’articolo, forse loro malgrado. La tendenza diffusa nella odierna società italiana – sottolineata anche nel recente saggio di Lea Melandri Amore e violenza – a lasciar cadere nell’indifferenza qualsiasi argomentazione o presa di posizione che un gruppo identifichi quale potenziale fonte di conflitto capace di destabilizzare i suoi equilibri interni e lederne l’autonomia apparente.
    E dunque?
    Il problema dell’assenza di conflittualità – o di partecipazione conflittuale e critica alla vita sociale e culturale – mi sembra emergere come un elemento cruciale nella riflessione di Santangelo. Perché è anche dalla conflittualità, forse anzi soprattutto da questa, che per un intellettuale può nascere l’autorevolezza delle proprie idee e delle proprie parole. Mi permetterei di osservare che piuttosto che l’“inesperienza” si esperisce la mancanza, o il rifiuto, di conflittualità, o uno stato di passività (quello fra “inesperienza”, consapevolezza di questa e autorialità mi sembra uno strano triangolo). In ogni caso, questa via dipenderà dalla effettiva libertà che autori, editors, critici, etc. hanno rispetto ai propri editori e alle linee editoriali dei giornali e dei periodici su cui pubblicano e dai margini di manovra sfruttabili, ma su questioni che ignoro non mi addentro. Tuttavia, vi sono anche spazi più liberi ovviamente, e qui entra in gioco un fattore che Santangelo sfiora solamente e in relazione a tutt’altra questione: una tendenza fatale alla distrazione, che colpisce anche gli intellettuali. Questa sì che figlia, se non “inesperienze”, esperienze mancate, le quali contribuiscono a plasmare e a definire il clima culturale in cui viviamo non meno dei dibattiti che hanno luogo e che, anzi, paradossalmente, possono vanificare o contraddire i pur lodevoli intenti di questi.
    Torniamo a Rodotà-Modigliani (e Strauss-Kahn). In questo caso molte (e anche molti) intellettuali, scrittrici, editors, giornaliste, accademiche si sono lasciate scappare una ghiotta occasione per far sentire la propria voce. Lo spunto offerto era valido e l’argomento di discussione perfetto per squarciare, anche solo temporaneamente, il famigerato cono d’ombra. Perché, come nota Santangelo, i coni d’ombra possono affliggere anche gli argomenti. Qualcosa è palesemente sfuggito sotto il naso al punto che, a fronte della riluttanza del Corriere a proseguire il dibattito, sul web non si sono creati spazi alternativi che lo assicurassero (fatta probabilmente eccezione per la pagina facebook di Rodotà); neppure mi risulta che qualche scrittrice/scrittore abbia avviato autonomamente una discussione segnalando i summenzionati contributi o anche altri. Anche su NI si è fatto poco rumore, e velocemente (e nessuna donna!);spero ne abbiate discusso in altre sedi. Sono convinta che la tendenza a distrarsi sia uno dei mali dei quali più gravemente soffriamo, tutti, intellettuali e non, trentenni-quarantenni e non, a fronte della responsabilità civile che come cittadini – del mondo, della patria d’origine o d’elezione – ci dovrebbe accomunare (in teoria) e, anche, a dispetto dei dibattiti spesso sottili e complessi che il sito di NI ospita. A quegli scrittori, editors, etc. che per la propria voce e idee rivendicano più spazio e visibilità l’attenzione e la recettività che ne scaturisce dovrebbero essere particolarmente care, e non come un sovraccarico gratuito di responsabilità delegata, ma come palestra quotidiana del loro orecchio assoluto per l’auscultazione dei nostri mondi. Da questo esercizio costante tutti potremmo trarre giovamento e utili spunti di riflessione quale complemento, o viceversa anche come mezzo di avvicinamento, alle loro idee, alle loro poetiche e alle loro scritture.

    Giulia

  16. Condivido pienamente l’intervento di Giulia.

    Credo che la sfida stia tutta lì, nell’attenzione critica nei confronti di alcune questioni cruciali, come quella più generale che attiene proprio all’esercizio del potere, in tutte le sue forme (sociali, economiche, culturali, politiche), di una minoranza nei confronti di una maggioranza frantumata in tante minoranze debolissime e più o meno oscure, se non altro perché dotate di voci episodiche.

    Personalmente, so che è impossibile seguire tutto, farsi un’idea su tutto e ritenere di aver da dire parole significative sui mille nodi di questo nostro tempo. Quel che a mio avviso sarebbe doveroso fare è però stare dentro a questo tempo, cercare di interrogarlo in tutti i modi che ci sono propri, e non tacere mai, quando si ritiene di aver qualcosa di significativo da dire. Il problema poi è come mettere insieme le voci, non farle cadere nel vuoto di tante solitarie denunce e riflessioni. Non credo che, in generale, oggi non ci sia gente generosa, anche intellettualmente. Credo che si fatichi piuttosto a far riecheggiare i pensieri e le azioni.

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