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Ciprì & Maresco contro tutti.

di Daniele Ciprì e Franco Maresco
Pensate che dopo cinque anni ci sia attesa per il vostro ritorno sugli schermi?
Non gliene frega niente a nessuno.
Addirittura…
Il pubblico ha ben altro a cui pensare e comunque ben altre forme di evasione, di divertimento… E poi viviamo in un mondo in cui tutto è usa e getta: politica, sesso, sentimenti, arte naturalmente. Altro che attesa…

Si dice in giro che questa volta avete fatto un film diverso…
Questo ci fa incazzare perché non rinneghiamo niente di quello che abbiamo fatto. Se diverso vuol dire attenuare ed esorcizzare paure e preoccupazioni per rendere più accettabile il nostro lavoro, «ripulirlo». In questo film c’è una continuità molto forte col nostro passato, c’è la stessa visione del mondo e degli esseri umani. Piaccia o no ci sono Ciprì e Maresco.
Ma non è un film comico?
Forse Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte sono due film più spietati, più violenti. Cagliostro si presenta invece come un film comico: apparentemente quella rabbia, quella durezza non ci sono, non sono comunque urlati. In realtà è un film più malinconico, più amaro. In fondo racconta l’impossibilità del sogno. Parla del fallimento di un gruppo di imbecilli che si illudono di poter creare una piccola Cinecittà e di fare della Sicilia la capitale del cinema italiano. È una storia di perdenti, di una follia tutta siciliana, assurda, che fagocita tutti i personaggi del film, i quali, a modo loro, sono dei sognatori.
Non starete provando a essere ruffiani?
La comicità è stata sempre una costante del nostro lavoro. Noi abbiamo cominciato con Cinico Tv che era amaro, crudele, però riusciva a far ridere. È una comicità che nasce da un profondo senso del tragico, un po’ pirandelliana. D’altra parte c’è la sicilianità, l’ossessione, un’idea perseguita fino alla rovina, un po’ come certi personaggi deliranti di Pirandello. Il problema è non tradire se stessi, la difficoltà è non rinnegarsi, non cercare il consenso facile, continuando a lavorare come hai sempre fatto. Rifiutando le apparizioni televisive, i talk show che ti invitano, declinando le offerte di lavoro per pubblicità e videoclip.
Siete a Venezia a rappresentare il cinema italiano…
Ciprì e Maresco rappresentano solo se stessi. Non crediamo di rappresentare il cinema italiano, così come non crediamo che il cinema italiano ci tenga a farsi rappresentare da noi.
Ma come, si parla tanto di rinascita. Anche quest’anno per il cinema italiano si accendono tante belle speranze!
Più che di cinema bisognerebbe parlare di «cinemino». Crediamo che quello che entusiasma e fa gridare al miracolo non sia altro che una specie di fenomeno televisivo che si estende alle sale. E questo la dice lunga sullo stato di imbarbarimento nel quale ci ritroviamo. Quello che si è affermato negli ultimi anni è un cinema para-televisivo, pseudo-sociologico, storie di trentenni e quarantenni in crisi, di fallimenti della coppia, un cinema che serve solo ai giornali e ai talk show per alimentare sondaggi su quanto scopano, se credono in Dio ecc. Ma in tutto questo il cinema vero non c’è. Tutt’al più si può parlare di fiction televisiva.
Dimenticate che c’è un cinema che pratica l’impegno civile.
Quello è in realtà un cinema furbo e senza forza. Il fatto che questo debbano dirlo soltanto quelli che passano per bastian contrari è il segno del collasso di qualunque onestà intellettuale. Infatti, il problema non è solo la mancanza degli autori: manca anche la critica, una critica forte, autorevole in grado di prendere posizione e autonoma. Cosa che in altri tempi ha giovato agli artisti.
Parlate da sempre di un cinema capace di esprimere uno sguardo morale. Non è che invece voi siete moralisti e basta?
Crediamo che a furia di scandalizzarci per la parola «moralista» si siano perdute cose come il senso del pudore, della vergogna, della misura. Si rimane sgomenti perché tutto questo è stato smantellato dall’esempio della classe politica, che è probabilmente la più immorale d’Europa, dai programmi televisivi con le famiglie che si scannano. Ci sono generazioni che si sono formate avendo come punto di riferimento proprio la perdita di tutto ciò e lo hanno scambiato per libertà. Se diamo per scontato che per moralista non intendiamo il bacchettone alla Sordi che fa il censore, c’è un moralismo di cui oggi forse ci sarebbe bisogno, che è la capacità di indignarsi, di non rassegnarsi in silenzio, ma di provare schifo per quello che accade. In questo senso sì, siamo moralisti.
È un quadro desolante. Avete davvero un’opinione così bassa degli italiani?
Nutriamo un profondo disprezzo per il popolo italiano. Bisogna smetterla con la retorica del tipo «italiani brava gente». Cosa si può pensare di un popolo che ha scelto di farsi governare da gente come Bossi e Berlusconi? Un paese che ha accettato il lodo Mondadori, Previti, la legge fatta su misura per evitare che il Premier e i suoi accoliti finissero in galera come sarebbe stato giusto. L’italiano è fondamentalmente, dentro di sé, un piccolo mascalzone, che disprezza profondamente chi è onesto perché, come si dice dalle nostre parti, è «babbu», cioé fesso; e invece nutre ammirazione per l’uomo di potere, non importa come l’abbia ottenuto. Berlusconi è ciò che l’italiano medio vorrebbe essere.
Però anche la sinistra…
La grande responsabilità della sinistra è stata quella di preparare il terreno a tutto questo. L’incapacità di riuscire a creare degli anticorpi. Da sempre, è storia, gli italiani si riconoscono nei farabutti. La sinistra non ha avuto la capacità di applicare i valori tradizionali da cui è nata e temendo di rendersi impopolare si è adeguata. Come dimenticare che quasi tutti i politici di sinistra sono stati ospiti del salotto di Maurizio Costanzo – il che significa legittimare anche gran parte dell’orrore televisivo degli ultimi anni. È mancata una sinistra culturalmente solida che fosse capace, a costo di rischiare l’impopolarità, di far passare certi concetti forti.
E malgrado tutto questo voi avete ancora voglia di far ridere?
La comicità è una cosa seria, anzi serissima. Ci riferiamo a quella tragica di Buster Keaton, Chaplin, Jerry Lewis, Tati, una comicità corrosiva, molto amara, con una forte carica eversiva, critica rispetto al sistema e ormai in via di estinzione. Quella che oggi prevale è la comicità da villaggio turistico, come, ahinoi, succede in Italia. In fondo lo spirito che ormai caratterizza questo Paese è quello della barzelletta e questo impronta un po’ tutto con diverse sfumature. I comici di Zelig avranno pure sul comodino Cent’anni di solitudine e forse avranno frequentato il Dams, ma il loro qualunquismo non è poi così diverso da quello del Bagaglino. A volte ci dicono siete troppo pessimisti. Beh, guardiamoci attorno. Oggi solo un imbecille può dichiararsi ottimista.
Perché un intervallo così lungo tra Totò e Cagliostro?
Sono passati cinque anni dal film precedente, anni difficilissimi, in cui siamo stati processati per le nostre idee e lavorare è diventato complicato. I produttori nicchiavano. Ci sono state proposte condizioni di lavoro al limite dell’offesa. Così abbiamo fatto gli organizzatori culturali, ci siamo occupati di jazz, ci siamo dedicati ai documentari. Sono stati cinque anni duri. Anni di rabbia vera.
Non è che state facendo i martiri?
È difficile commuoversi per Ciprì e Maresco, anche perché facciamo poco per suscitare compassione. Solo, riferendoci a questi cinque anni, ci veniva in mente che spesso si parla di sostenere un cinema coraggioso, diverso. Ecco: vorremmo capire questo cinema dov’è.
Beh, qualche soddisfazione l’avrete pure avuta…
Una dichiarazione di Carmelo Bene rilasciata tre anni fa a l’Espresso. Quando gli chiesero: «Dell’Italia non salverebbe proprio nulla?», lui rispose: «Ciprì e Maresco». È un riconoscimento che ci onora, da parte di uno dei pochi artisti che ammiriamo profondamente.
Ma chi vi credete di essere?
Ciprì e Maresco.
Cioè?
I più bravi, ovviamente…

Su suggerimento di un lettore di NI (che ringrazio) pubblico questa intervista come introduzione alla 60° Mostra del cinema di Venezia, che si preannuncia, nonostante la presenza di poche opere di sicuro interesse (Il ritorno di Cagliostro è tra queste, e non a caso non è nemmeno nella sezione “Concorso”, ma anche il film di Paolo Benvenuti, o quello di Bruno Dumont), l’ennesima farsa nella quale i criteri di qualità abdicano automaticamente a quelli mercantili, e la critica impudicamente si dedica esclusivamente alla nota di costume, alla faccia dell’altisonante definizione di Mostra d’Arte Cinematografica… Non sono personalmente d’accordo con tutto ciò che dicono i registi palermitani, ma le loro parole meriterebbero di aprire un dibattito che sulla stampa ufficiale certamente non troverà spazio. E rappresentano un segnale di resistenza alle dichiarazioni che da ogni parte invocano una Mostra “di successo”, cioè che premi e lanci pellicole che possano conquistare il mercato e non dia spazio (parole di Mario Monicelli, giurato) “a quelle opere difficili, complicate che spesso in passato qui sono state premiate e poi nessuno è andato a vedere”.

G.D. Maderna

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