Rouch, il viaggiatore in presa diretta

Jean Rouch è morto la scorsa notte (18 febbraqio 2004) in un incidente d’auto in Niger dove era ospite di una rassegna dedicata al cinema nigerino del quale era considerato il «padre». Aveva 86 anni. Insieme a lui viaggiavano la moglie, il cineasta Moustapha Alassane e l’attore Damouré Zika, protagonista del suo capolavoro «Jaguar», rimasti illesi.

riporto una mail di Daniele Maggioni, che ricorda il grande cineasta francese.
gdm

Jean Rouch è morto l’altra notte in Africa, in Niger, la terra del suo cinema, dei suoi viaggi, degli amici, della passione di una vita. Un incidente d’auto sulla pista di Konni, nella regione di Tahoua, seicento kilometri a nord di Niamey, le cui dinamiche erano fino a ieri ancora poco chiare. L’automobile su cui si trovava il cineasta sarebbe finita fuori strada per evitare un camion. Rouch è morto sul colpo, gli altri che viaggiavano insieme a lui, la moglie, gli amici di sempre, il cineasta nigerino Moustapha Alassane e l’attore Damouré Zika sono stati ricoverati in un ospedale a Galmi ma sembra che stiano bene, almeno a quanto ha fatto sapere alle agenzie di stampa Laurent Clavel, direttore del centro culturale franco-nigerino. Jean Rouch era in Niger per un retrospettiva dedicata al cinema nigerino di cui veniva considerato uno dei «padri» di riferimento pure se poi con le necessarie fratture e critiche di cui tutti i «figli» hanno bisogno. Il Niger del resto è stato set privilegiato del suo cinema etnografico, è lì che nasce Moi, un noir, star Oumarou Ganda, altro nome fondante per tutta l’incandescente vague nigerina che esplode negli anni Sessanta rovesciando con immagini magnifiche e rivoluzionarie la rappresentazione dell’Africa. Ganda, Alassane e gli altri polverizzano esotismi con eroi, humor emozionalità che sono anche sperimentazione – e sfida – per una possibile industria indipendente, che «cita» con irriverenza Hollywood e il cinema autoriale europeo.

Alla produzione del Niger il Forum di Berlino ha dedicato quest’anno un omaggio, Hollywood in Niger, sola sezione sensibile alla cinema obliquo dell’Africa. Lì c’era anche Al’èèssi… Une actrice africaine, documento appassionato di Rahmatan Keita (si vedrà al festival del cinema africano di Milano, in marzo) su Zalika Souley, splendida attrice che ne è stata corpo e icona ribelle pagando un prezzo altissimo che è come per tutto quel cinema soprattutto politico. Tra gli altri la regista intervista Alassane che raccontando quell’esperienza parla di Jean Rouch. Di quanto fosse stato fondamentale nella crescita di una consapevolezza tecnica ma soprattutto nella scoperta della potenza che contiene il linguaggio delle immagini. «Senza di lui non avremmo mai fatto i nostri film. Per molto tempo è stato il nostro unico riferimento e ancora oggi è tra i pochi che ha cercato di darci un qualche supporto». Di Alassane il Forum ha proposto Le retour d’un aventurier girato nel 1966, rivisitazione africana del western che rimanda esplicitamente a Moi, un noir nel gioco dell’eroe che torna al villaggio trasformando lui e i suoi amici in cow-boy.

Rouch era un viaggiatore infaticabile, infatti è morto in viaggio, e gli amici pensano che era la sola morte possibile per lui, che non avrebbero mai potuto immaginarli costretto all’immobilità da vecchiaia o malattie. Lo amavano in molti per questa sua energia Jean Rouch. La Nouvelle Vague, intanto. Raccontando del primo incontro con Truffaut, Godard, Rivette, Rouch ricorda che li aveva conosciuti alla Cinémathèque di Henri Langlois in rue d’Ulm, prima che approdasse a Palais Chaillot. Langlois aveva proiettato la versione non montata di Moi, un Noir. « Poi ho avuto la benedizione dei Cahiers du cinéma … Ero il fratello maggiore, come Rossellini ma eravamo una famiglia, la Nouvelle vague».

Jean Luc Godard adora Rouch. Nel 1961 La Pyramide humaine è tra i suoi dieci film dell’anno nella classifica fatta per i Cahiers come due anni prima Moi un Noir. Diceva: «La commedia americana è realista quanto il neorealismo italiano. Un film di Cukor come Sessualità somiglia molto a La Pyramide humaine. Cukor e Rouch sono nello stesso tempo realisti e irrealisti. Proseguono la loro ricerca da punti di vista completamente differenti, ma in definitiva Cukor dirigendo i suoi attori fa la stessa cosa che Rouch manovrando la sua 16 millimetri» (da Filmcritica, numero 521). E poi: «Rouch è stato incaricato di fare ricerca per il Musée de l’Homme: esiste una definizione più bella per un cineasta»? La famiglia è allargata, si muove tra Africa, Francia, riguarda il cinema inquieto e fuori controllo. In Italia dove Rouch è stato da sempre amico carissimo di Sandro Franchina. Erano gli anni Sessanta della «generazione» di Piazza del popolo, Franchina gira Morire gratis, e prima che Franchina morisse con Rouch fanno a Parigi un film-poesia.

Il Musée de l’Homme si diceva. Tra qualche giorno, il 15 marzo, Jean Rouch avrebbe inaugurato a Parigi il suo Bilan du film etnographique dove amava presentare le scoperte di nuovi cineasti. Dallo scorso anno anche il momento più visibile della battaglia ostinata di Rouch e di tutto il comitato etnografico contro lo smembramento del Museo, un patrimonio unico destinato, come la Cinémathèque a essere trasferito in parte nel futuro Musée di Quai Branly e in parte a Marsiglia, al Museo di Civilizzazione dell’Europa e del Mediterraneo, nome che pensando alla filosofia delle ricerche di Rouch suona quasi come un paradosso.
CINE-TRANS
Ma vie en Rouch
JEAN ROUCH*
Poter saltare da un punto a un altro, questo è il mio è il mio grande sogno. Poter andare dappertutto, muovermi come ci si muove nei sogni per andare altrove: la macchina da presa mobile, la macchina da presa che cammina, che vola, è il sogno che abbiamo tutti! Fare un film, significa scriverlo con i propri occhi, con le orecchie, con il corpo, vuol dire entrarci dentro: essere al tempo stesso invisibile e presente, cosa che non capita mai nel cinema tradizionale… Nel 1947, quando ho fatto il mio primo film sulla discesa del Niger in piroga, in capo a due settimane ho avuto la fortuna di perdere il cavalletto della macchina da presa. Un regista deve avere le suole di vento, andare altrove, e riportare indietro, per gli altri, dei pezzi di tappeto volante. La macchina da presa.

Per me la sola maniera di filmare, è di camminare con la macchina da presa, di portarla dove è più efficace, e di improvvisare con lei una specie di balletto in cui la macchina diventa viva come gli uomini che riprende. Questa è la prima sintesi tra le teorie vertoviane del «cine-occhio» e l’esperienza della «cinepresa partecipante» di Flaherty. Un’improvvisazione dinamica che paragono sovente all’improvvisazione del torero davanti al toro, perché anche qui nulla è deciso in anticipo, e la morbidezza di una faena non è affatto diversa dall’armonia di un carrello a mano in perfetta sintonia con il movimento degli uomini filmati. Ancora una volta, è tutta questione di allenamento, di padronanza del corpo che può essere acquisita con una ginnastica adeguata. Soltanto allora il cineasta-operatore penetra realmente il suo oggetto, non è più lui, ma un «occhio meccanico» accompagnato da un «orecchio elettronico». Ed è questo strano stato di trasformazione della persona dal cineasta che io ho definito, per analogia con i fenomeni di possessione, la «cine-trans».

Roberto Rossellini.

La scoperta di Rossellini è avvenuta, per me, attraverso Paisà, che vidi se ben ricordo al cinema Les Ursulines, a Parigi. Uscivamo da cinque anni di guerra e personalmente il film mi faceva riflettere su un grosso problema: cosa bisogna mostrare della guerra? Paisà con i suoi episodi, soprattutto l’ultimo, terrificante, quello ambientato alle foci del Po col cadavere che galleggia sull’acqua, era una risposta. Una risposta all’assurdità di questa avventura, all’arrivo dei neri americani in Italia e a tutto ciò che questo poteva rappresentare, da Napoli alla Chiesa e tutto il resto. Poi ho visto Roma città aperta che era qualcosa di molto strano, e che mi spiegava Paisà. Che mi spiegava cioè che si possono fare film senza teatri di posa, e che si può raggiungere un’intensità drammatica straordinaria…

Abbiamo avuto conversazioni formidabili, abbiamo anche litigato molto, sui Chaiers du Cinéma quando abbiamo inventato il «cinema diretto», quando abbiamo trovato gli strumenti per farlo. Era un po’ la risposta a Roma città aperta: finalmente si poteva girare nella strada con del suono reale, con una cinepresa portatile, e questo lo irritava molto… Quello che ci obiettò allora, a me e a Michel Brault, era che non era possibile innamorarsi di una cinepresa, una macchina. «Una cinepresa è come un’automobile». «Proprio tu, gli dissi io allora, con il tuo amore per le automobili». Anche io a quel tempo avevo una Bugatti, quella che si vede in Petit à petit.

*Gli interventi del regista sono estratti dal volume «Jean Rouch – le Renard Pâle» edito dal Museo nazionale del cinema di Torino

«Era il padre del cinema-verità»
Il primo incontro al festival di Venezia nel ’67 l’ultimo alla Berlinale di due anni fa, complice la Nouvelle vague
Ricorda Adriano Aprà che Roberto Rossellini vedendo il girato «muto» di quello che diventerà Jaguar (1967) aveva suggerito a Jean Rouch l’idea di farlo doppiare da chi lo aveva interpretato. Poteva sembrare una follia e invece tutti i suoi attori avevano subito dimostrato un’incredibile naturalezza. Si guardavano e commentavano: «guarda lì cosa succede, vedi che adesso lui farà questo…». Aprà, in Italia ha portato Nouvelle vague e André Bazin, è stato complice degli sperimentalismi italiani più raffinati, da sempre esploratore di un cinema obliquo, comunque in un percorso compatto, sia che fosse Rossellini o Straub&Huillet o i primi esempi di «nocumentary» portati all’inizio degli anni Novanta al festival di Pesaro quando ne era direttore. Oggi insegna storia del cinema all’università di Roma. Jean Rouch lo aveva conosciuto per la prima volta al festival di Venezia, nel 1967. Racconta sul filo della memoria, scusandosi perché libri e archivio sono chiusi nelle casse causa lavori in casa: «Allora nessuno lo conosceva qui in Italia, ero isolato e ben felice di esserlo. Condividevo questa scoperta con gli amici dei Cahiers».

«L’ultima volta che ho incontrato Rouch – continua Aprà – è stato due anni fa, al Festival di Berlino. Mi era sembrato improvvisamente invecchiato, quasi che gli anni gli fossero crollati di colpo addosso. Era un anziano regista curvo sul suo bastone, l’aria cupa, stanca. Poi abbiamo visto il film, La vache merveilleuse. Bellissimo, pieno di energia, con una freschezza sorprendente». «Jaguar è stato per me un film fondamentale mi ha aiutato a rielaborare teoricamente molte convinzioni sul cinema. Di Rouch ricordo anche molti interventi sul cinema di Rossellini, aveva lavorato con Edgar Morin subito dopo Moi, un noir per Chronique d’un été , e mi pare che il titolo di Germania anno zero Rossellini lo avesse preso proprio da un libro di Morin che si intitolava L’anno zero della Germania».

«Anche Moi, un noir che Rouch gira alla fine degli anni Cinquanta è un film fondamentale. Racconta la storia di un gruppo di giovani che dal Niger si sono trasferiti in Costa d’Avorio per cercare lavoro. Il protagonista vive immerso nelle fantasie hollywoodiane. Si fa chiamare Edward G.Robinson, i suoi amici hanno tutti nomi presi dai film. Però siamo in una baraccopoli di Abidjan. Godard scrive a questo punto un saggio bellissimo sul cinema di Rouch (è stato pubblicato in Italia in Il cinema è il cinema, curato dallo stesso Aprà, Einaudi, fuori commercio da molti anni, ndr). Con Moi, un noir Rouch viene considerato un po’ il ‘padre’ della Nouvelle vague. È anche lì che comincia la sua vita da cineasta. Eppure Rouch ha una filmografia sterminata. Si recuperano i suoi film precedenti che fino allora erano stati visti pochissimo. Prima infatti che si diffondesse il suono in presa diretta, Rouch lavora facendo doppiare tutti i personaggi da se stessi… E con Jaguar realizza il primo esempio di cinema-verità, è il primo film in presa diretta girato negli anni Sessanta con una macchina da presa leggera e con dei registratori».

Il griot venuto dalla Francia
Filmaker parigino, autore di almeno 120 film unici, Jean Rouch è stato il grande documentarista di un’Africa mitica e surreale. Sperimentatore instancabile, filma gli uomini come paesaggi e i paesaggi come uomini. È stato il padre del documentario moderno
ROBERTO SILVESTRI
Jean Rouch, parigino, filmaker, autore di almeno 120 film «unici», per lo più girati in Africa. Ingegnere civile, inviato nel ’41 dal colonialismo francese a costruire strade ponti («come gli antichi romani») in Niger e Mali. Torna in Europa, fa la resistenza, entra a Berlino libera, è giornalista e letterato, di piglio post-surrealista. Instancabile attivista culturale, si innamora del continente nero perché trova la cosmogonia Songhay analoga all’inconscio bretoniano nella sfida alle linearità logiche. Diventa il griot venuto dalla Gallia, il «fratello grande» di un cinema nascente: è etnografo («il figlioccio» di Marcel Griaule, boss al Museo dell’Uomo di Parigi), contro-antropologo visuale, africanista, direttore di festival e istituzioni, istigatore di imprese d’arte (come i Cahiers du cinema), animatore coinvolgente di gruppi d’azione immateriale continuata. Difende Langlois nel `68, cui partecipa e mai tradisce, contribuisce alla nascita del cinema sub-sahariano indipendente. Il cartoonist e dissacrante filmaker nigerino Moustapha Alassane, che lo ha guidato nella sua ultima scorribanda per la brousse, era un suo «allievo». Così come il primo cine-umorista del Niger, Oumarou Ganda, che fu sua star in Moi, un noir. E il senegalese Dijbril Diop Mambety, «il Godard di Dakar», morto qualche anno fa o il connazionale Gaye Ramaka… Però Rouch fu il «padre» che i cineasti del continente, alla fine, dovettero, con simpatia e rispetto, superare, quasi «uccidere» («i suoi film ci osservano come fossimo insetti» fu la perfida frase liberatoria, di sganciamento defintivo, di Sembene Ousmane). Entomologo? Non sembrava. Ammaestratore «d’insetti»? Meno che mai. Semmai provocatore, aizzatore mai paternalista della loro trasformazione da oggetti filmati a soggetti di storia, come faranno Grifi e Kiarostami, e altri decostruttori del set e del mito cine-autoriale, sia industriale che underground… Jean Rouch, al contrario di altri documentaristi d’epoca, come Richard Leacock, intratteneva con i riti e i miti (arcaici e metropolitani) un rapporto caldo e interno, e comunicava con la gente che filmava, invitandoli a reagire e a «litigare» con l’occhio scrutatore (altro che registrazione oggettiva della realtà così come è). Da qui la sua originalità e eresia: il documentarista etnografico si sommava al saggista socio-psicologico e al creatore di finzioni concepite come strumento ulteriore conoscenza/cambiamento di realtà, individuali o rituali, in progress.

Semmai il vero scontro con i filmaker africani è che al maestro Rouch venne rimproverata la sua frontalità prospettica, la sua dimezzata «costituzione d’immagine», che non tiene conto della pressione del fuori campo, dei 360 gradi che lo attorniano, meno che mai di ciò che sta alle spalle del regista (istituzioni, gioco politico, forze sociali in scontro, un «vero destinatario» del film che non sia il proprio fidato cenacolo cosmopolita). Quel che nelle note critiche, durissime e acute, di Serge Daney sarà la prova del non essere «di sinistra» né di quell’ «esteta anarchico» di Rouch né dei Cahiers tutti (escluso Godard) né di se stesso: «Rouch ha smesso di pensare che è dovere di un cineasta andare al di là della propria esperienza sociale… Egli non crede alla storia, sa soltanto che il tempo lineare ospita un momento irrequieto e violento di libertà disordinata e anti-autoritaria, e che di questo bisogna conservare la traccia e il ricordo in film-gioco, gioco come contrario del rito, ma rito nonostante tutto».

Mai che Rouch affronti i problema dei rapporti feudali , violentemente non egualitari, tra africani. Mai che dica qualcosa sulle differenze sociali e sessuali. Rossellini, che pure adorava Jaguar, litigò con lui: è vergognoso usare questo strumento come un giocattolo, deve servire a qualcosa. A cosa? Il mistero di Rouch è osservare e conservare l’immagine di un’Africa unica e mitica. E di qualche africano in particolare (Damouré o Lam di Jaguar, 1954). Lo stesso Damouré Zika che viaggiava nell’auto della morte con la moglie di Rouch. Lo stesso Damoure sulle cui iniziali si basa il nome della società sessantottina per i diritti d’autore degli attori africani, la Dalarouta («La» sta per Lam, «Rou» per Rouch e «Ta» per Tallou). Rouch, il «cinematic griot», a cui Paul Stoller, l’allievo, ha dedicato 250 pagine di elogi come radiografo della cultura Songhay del Niger, è quel che si avvicina di più, scusando la contraddizione, al «re anarchico»: alto, imponente, affascinante, coinvolgente, possessore di un’aura di felicità permanente, che nell’84 firma Dionysos, manifesto del «cinéma-plaisir», profezia di un «altro modo di vivere possibile» e che dichiara: «Per me il cinema è la complicità con la gente che si filma. Quando la tv fa un servizio sulla pasticceria del X arrondissement, i pasticcieri non guadagnano niente. Ma sono loro che parlano». Prevert ci potrebbe venire in aiuto: «L’anarchico ama a tal punto l’ordine che non ne sopporta la contraffazione». Rivette non sarebbe d’accordo con Daney: «tutti i film di Rouch sono esemplari, anche quelli falliti. È più importante di Godard nell’evoluzione del cinema francese, perché Godard va in una direzione che vale solo per lui».

In realtà Rouch sperimenta sempre, gira per esempio nel `62 La punition, lungometraggio, in un solo giorno («allora si poteva, la tecnologia era infinitamente migliore»), lavora spesso con Godard, in Paris vu par… e anche in un film mai montato che Labarthe ha perduto. Sarebbe bello discuterne. Ma Jean Rouch è uno sconosciuto da noi, come i grandi amici di un tempo, Enrico Fulchignoni o Mario Ruspoli. Ignorato. Chi ne ha mai visto un film? Eppure. È uno degli inventori del documentario moderno, con Godard, Warhol, Perrault. E nello stesso tempo il più appassionato «documentarista didattico» (innesta Robert Flaherty dentro Dziga Vertov) della storia, che «filma gli uomini come paesaggi e i paesaggi come uomini», «il cinema della realtà» e «la realtà del cinema», come riconosceva ammirato Enzo Ungari. In A poco a poco (’69) uomini d’affari africani analizzano la vita parigina, non senza humour alla Ruiz: Rouch oppone esplicitamente all’antropologia colonialista (indagini dall’alto in basso) l’«antropologia condivisa», cioè il dialogo antropologico tra persone simili che appartengono a culture differenti. Pericoloso, in Italia? Sì, perché troppo concentrato sull’ Africa, l’oggetto unico culturale d’affezione, dal `46, quando firma Le chevelure magique, fino alla morte, presso Konni.

Jean Rouch compì la prima discesa del fiume Niger in piroga. E con la sua cinepresa leggera, la Bell-Howell a 16mm comprata al mercato delle pulci, studiò e trasformò in corti scientifici rigorosi e a costo zero, in Kodachrome, i viaggi e i lavori fluviali, i miti e i riti Songhay, le migrazioni stagionali in Ghana (allora Costa d’oro), gli stregoni invasati della setta Hauka, i problemi dell’inurbamento, le danze sacre della pioggia, le circoncisioni, le cerimonie funebri… Solo dal 1954 in poi, completato quel necessario praticantato, ovvero radicamento nell’ambiente per non farsi poi trattare da «marine invasore», passò a forme ibride di documentari a soggetto, Moi un noir (un portuale alla caccia di salario), La piramide umana, Moro nuba e, realizzato con il sociologo Edgar Morin, Cronaca di un’estate (1961). Oggi quei materiali di allora sono preziosi perché registrano la micidiale trasformazione avvenuta in Africa (e diaspora) e nel suo inconscio collettivo, lo scontro campagna-città, il trauma tra colonialismo, post-colonialismo interrotto, neo-colonialismo e auto-colonialismo.

Ci parlano, magicamente, un po’ anche di Aristide, l’ex seminarista haitiano in criminale involuzione messianica, dopo aver perduto la battaglia democratico-illuminista. Lumumba, che si crucciava di aver perso per non aver dotato di ulteriore spirito messianico il suo movimento rivoluzionario, sopravvisse nel lumumbismo. Tragitto neo-tradizionalista che Rouch, secondo Lanternari, ha ben mostrato nei suoi film: le culture tradizionali reinterpretano a modo loro fatti, istituzioni, persone proprie della civiltà europeizzante cittadina.

I Songhay, dal `26, aggiungono divinità agli Hauka (il pantheon tradizionale): generali, giudici, governatori, caporali e «prazidan di la Republik». Rouch ricordava nel `64 a Bouaké che nella nuova religione del profeta Atcho (Costa d’Avorio) il presidente di allora del paese, Houphouet Boigny, appare nel mito di fondazione del movimento profetico, nella triade prescelta da dio per la salvezza del continente.

Uno stregone eccentrico del cuore
Sintetizzò le tendenze di Dziga Vertov e Robert Flaherty, i suoi «antenati totemici»
ENRICO FULCHIGNONI*
Anche se tutte le storie del cinema menzionano il nome di Jean Rouch, egli continua tuttavia a rimanere uno degli autori più «criptici nel gotha della settima arte». Può anche darsi che sia un’ingiustizia, ma è certo anche il modo che Rouch ha, in questo modo sfuggente, di riaffermare orgogliosamente i suoi poteri di stregone. Uno stregone le cui opere rivelano una straordinaria vitalità: un’ansia di muoversi, di correre, di invadere, di inerpicarsi che lo avvicina irresistibilmente a uno dei suoi «antenati totemici»: Vertov. Giovane, vivace, disposto a allearsi anche col diavolo, raffinato, divertente, mordace, generoso, l’esatto contrario del francese medio insomma, Rouch invece rappresenta per me il francese tipo. Con la sua noncuranza, la sua vivacità, la sua gentilezza di stampo antico e le sue ampiezze – mai una caduta di stile, mai una mancanza di tatto – Jean Rouch ama la vita, e ne viene ampiamente contraccambiato. Egli è moderato ma senza avarizie, elegante ma senza ostentazione, amichevole ma senza indiscrezioni, gaudente ma senza eccessi. Rouch ha la stessa levatura dei La Pérouse e dei Cartier, il suo buonumore è irresistibile, rebelaisiano. E finirà col passare la sua vita intera filmando, come fanno i pesci nuotando nell’acqua: e continuando a aver fiducia nell’autenticità degli uomini nella loro vera natura.

Ma c’è un’altra «chiave» per capire il suo lavoro creativo. Rouch, come Flaherty, l’altro suo «antenato totemico», crede nel potere che ha la macchina da presa di vedere, oltre le possibilità dell’occhio umano, le qualità interne degli esseri e le cose. Ed è in questo senso che impiega il termine «magia» per descrivere la sua operazione alchemica. A causa di questa sfasatura, i suoi personaggi ci offrono, quasi sempre, un carattere di singolare buffoneria, intinta di un’emozione misteriosa nel comico come nel dramma, perché la loro natura resta completamente differente da quella di coloro che ci capita di incontrare per strada. Il contrasto è strano e costante: le creature di Rouch, già in apertura, ci sono familiari, e tuttavia si collocano nella notte dei tempi; vivono nel presente ma si situano all’origine di tutto. Non smettono mai di affascinarci poiché, sotto le apparenze del visibile, restano in realtà inaccessibili. E questo incessante andirivieni dalla più estrema lontananza alla più intima familiarità restituisce davanti a noi la sua vera dimensione all’avventura umana. Tutto ciò potrebbe tuttavia sfociare in uno di quei prodotti intellettualistici che tanto appassionano ristrette conventicole di iniziati. Se non fosse che Rouch è l’esatto contrario di un artista intellettuale: la sua adesione carnale ai mondi che sa rivelarci, apre la strada per penetrare in quella relazione sofferta, esaltante, tesa, ma conforme a un’armonia cosmica tra l’uomo e il suo ambiente, che costituisce in fondo, il tema principale della sua opera. Ma c’è qualcos’altro che lo difende dall’intellettualismo: la sua grande bontà. Non credo infatti che Rouch abbia rivolto, neanche una volta in tutta la sua vita, uno sguardo sprezzante su qualcuno o su qualcosa.

Non lo si sente mai sparlare di nessuno, perché non c’è veleno nella sua anima che è ancora, in fondo, piena di entusiasmi infantili. I suoi paesaggi, le sue creature ci apportano sentimenti di pace e di amicizia che assolvono a una funzione rassicurante, pur senza mai passare attraverso scorciatoie come l’analogia, il principio d’identità, le facili emozioni. Tutto ciò non può non derivare da una costanza pratica, dalla solidarietà e dal rispetto umano. Rouch infatti è capace – nella vita – delle più ardue e umili prove di devozione, quanto delle più clamorose follie d’amicizia. È il più straordinario e seducente eccentrico del cuore. In lui c’è come qualcosa di commovente e burlesco al tempo stesso. L’aspetto farsesco deriva dal pudore: anche se pochi, come lui, hanno saputo – e le sue opere sono piene di attestati in tal senso – testimoniare con gravità e nobiltà i momenti più alti di uomini e civiltà. Una regione segreta, una certa solitudine altera in cui si rifugiano gli esseri e le cose: da ciò deriva la particolare bellezza dei territori più recentemente frequentati da Rouch. Solitudine che non è mai condizione miserabile, quanto piuttosto regalità segreta, territorio in cui l’artista, il veggente, riesce a rivelare per noi l’aldilà delle cose, risalire i millenni, raggiungere l’immemorabile notte popolata di morti, farci immergere, insomma, nell’acqua vivificante di miti che si credeva perduti per sempre.

* Il ricordo di Enrico Fulchignoni, docente di psicologia, alto funzionario dell’Unesco e regista di «I due foscari» (1942), «L’ebreo errante» (1947) e «Anni difficili» (1948), è inserito all’interno del catalogo «Jean Rouch – le Renard Pâle» del Museo nazionale del cinema di Torino

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