L’impero e i sensi

Conflitto permanente: cronaca dei modi che il cinema propone per aggirare l’Impero: Venezia 2004

di Sparajurij/Pan

biennale.gif In questo scorcio d’arte cinematografica d’autunno e di Festival di Venezia 2004, era volgare, i temi conduttori, con singolari rimandi tra film e cinematografie diverse, sembrerebbero essere in ordine sparso:
la ricerca del corpo giovane, l’irrazionalità della storia e della vita ai tempi dell’Impero dallo sperma, al feto, all’aborto, al tavolo anatomico, con un occhio particolare alle disabilità e all’ipotesi dell’eutanasia.

Su quest’ultima coppia di temi hanno riflettuto il film di Gianni Amelio, Le chiavi di casa, quello di Stefano Rulli, Un silenzio particolare, e Mare adentro di Alejandro Amenabar; mentre il vincitore Vera Drake narra di una signora inglese che aiuta le concittadine a risolvere le gravidanze indesiderate, e Palindromes di Todd Solondz scompone corpo e vicende di una dodicenne che sogna di avere un bambino e quasi ci riesce, per poi entrare in un casa-famiglia di disabili militanti cecchini antiabortisti. Ma è come sempre il cinema orientale a svelare fino in fondo le schizofrenie dell’impero dei nonsensi (1.), endemiche alla sempre attuale società dello spettacolo quanto il terrorismo(2.), accumulate anche in Oriente dal moderno modo di produzione globale. Tutto questo nel contesto del Festival più “New Global”, con la massiccia presenza di antimperialisti da tutto il globo nella Global Beach allestita al Lido da disobbedienti e attivisti con quei sovversivi della Naomi Klein e di Tim Robbins e di Guido Chiesa (per tutti e tre vedi qui di seguito) e dagli altri che vi han partecipato.

Ma partiamo com’è giusto dal Giappone e da chi, come Takashi Miike, ragazzo cresciuto dal boom tecnologico-informatico, dopo decine di film di cassetta sfornati ogni anno, quasi come Franco e Ciccio(3.), decide di girare qualcosa come Izo: che inizia nel 1865 con una crocifissione all’orientale, cioè con tanto di lance trafitte, letteralmente, dall’alto al basso, da parte a parte, del belligerante samurai Izo, che i suoi padroni han deciso così di licenziare. Seguono nel film immagini documentarie di spermatozoi e apparati genitali maschili ripresi da libri di testo di medicina (che rivedremo in Vital) e delle grandi guerre del Novecento, in particolare la Seconda, che spazzano il Giappone e si susseguono sgranate… fino al rientro in scena di Izo, uscito dalla spazzatura abbandonata in città, risorto demone infuriato, istinto vendicativo traboccato dopo l’ultima goccia dal vaso di Pandora dell’Impero, che uccide e massacra tutti quelli che incontra, compresi gli spiriti di chi ha già ammazzato, compresa la madre che taglia a metà lasciandola aggrappata a un albero a grondare sangue (ma qui per un attimo s’impressiona, the babe), compresi guerrieri samurai a dozzine e piazzisti vampiri dell’Impero e teste di cuoio di oggi e militari morti sessant’anni fa, che sempre lo feriscono ma non possono ucciderlo né placare la sua sete di sangue contro tutto ciò che esiste. Tutto questo anche se, quando Izo è ferito, prova dolore, oltre a provocarlo coi suoi colpi, anche con quelli che affonda nel ventre panciuto degli abitanti del Tempio e dell’Abate che esclama sorpreso e ormai slievitato: “Fa male”: solo in punto di morte violenta la massima carica spirituale dell’Impero, presunto messo e prescelto del Buddha, s’accorge che fuor di metafora “il dolore è la prova dell’esistenza”, come viene altrove detto chiaro nel film, ma di quest’esistenza non si trova la ragione, né la può riscattare, se non nella vendetta. Il sentirsi vivi grazie al Senso del dolore, al Gusto del sangue, al Tatto delle cosce della Grande Madre Terra incarnata da una geisha procace è tutto quanto l’Impero ancora permetta, una non-morte non di tanto diversa dalla vita di noi tutti, con un corpo non più costretto nella sua superficie dall’epidermide ma che si può aprire ad ogni realtà più o meno virtuale con un piccolo debito di sangue, e di anima. Izo viene definito come “l’Irrazionale”, che lotta per se stesso in una coazione a ripetere di morte che prosegue in eterno, ogni volta gettato (Da-sein) nel mondo di ieri e/o di oggi attraverso squarci temporali, ma sempre nel nostro stesso Eone maledetto, nel ciclo cosmico che secondo lo Gnosticismo originario viviamo sotto influenze marziali di guerra, di vendetta e di corruzione e nel non rispetto dell’autorità: e come dargli torto. Izo è appunto odio, guerra e vendetta e nel film si vede solo quello, come in un porno ben fatto, che s’espande rIzomaticamente nell’eternità e in ogni luogo così che il giorno dopo l’epilogo dell’attentato-sequestro della scuola di Beslan, seguiamo in sala Izo che va a compier stragi in una scuola, dove ammazza solo i più grandicelli, mentre bambini s’aggirano nudi tra i corpi accatastati e la maestra nella classe dei più piccoli li interroga sui fondamenti della società: “Che cos’è la Nazione?” “Una parola che identifica una fissazione malignamente umana…”, “Che cos’è la Democrazia?” “Una parola che identifica un sottoprodotto della civilizzazione usato per illudere i popoli…”, e “Che cos’è l’Amore”, “Solo una parola usata per…” (4.)

Giunti insieme in sala se la godono, forse a metà, Quentin Tarantino e Barbara Bouchet. Al tavolo del buongoverno i potenti del mondo definiscono Izo come il paradosso, l’Antisistema(Impero) che viene fuori in tutti i sistemi(Imperi): al tavolo siedono un Primo Ministro(Beat Takeshi Kitano), un capo militare, uno studioso, un legiferatore, e su tutti l’Imperatore, il “Sovrano Supremo”: uniti dalla consapevolezza di voler continuare a governare gli umili a loro esclusivo tornaconto aspettano che l’imperfezione rientri nella perfezione del loro sistema, che l’Eone cioè si compia a loro piacimento: ma solo il “Sovrano Supremo” può gestire sopravvivendo(forse) un tale passaggio e per gli altri sarà invano, mentre Izo il disobbediente corre in circolo su una spirale di Dna che è anche il simbolo dell’infinito immerso in mari di spermatozoi, e alla fine furioso la squarcia con la sua spada. “La storia umana è una catena di massacri”, ci vuol ricordare e ci ricorda Izo, cui cresce pian piano un maschera da pipistrello, anche un po’ veneziana, un po’ Pulcinella, anche quasi una protesi ferrosa alla Tetsuo (vedi qui di seguito). Con cui dopo aver massacrato tutti gli altri potenti affronterà l’Imperatore venendone infine dolcemente respinto ma noi a quel punto non saremo più per vedere se questo Pralaya, questo riassorbimento di un intero ciclo cosmico, porterà a un riequilibrio, all’Eone precedente del Padre e della società perfetta, oppure no.

“Che cos’è la rivoluzione?”, era suonato a un certo punto di Izo l’antico quesito: “Uccidere gente”, era stata l’ovvia risposta. Sono invece diverse le ipotesi prospettate da The take, documentario scritto e vissuto da Naomi Klein e diretto dal marito Avi Lewis, che riflette sulle pecche del sistema e sulla rivoluzione possibile da un osservatorio ben preciso: seguendo il Movimento Nazionale Imprese Recuperate nell’Argentina post-apocalittica post-Menem che cerca di risollevare con le proprie forze le fabbriche abbandonate da padroni indebitati scappati con la coda tra le gambe, per poi spesso ritornare quando l’impresa ormai è riuscita a riprendersi da sola e a rientrare nel nuovo mercato più equo messo in piedi dai Recuperatori. Essendo ella stessa consumata nello spirito dalla bruciante necessità di un’alternativa all’Impero, la Klein ha trovato proprio una possibile risposta New Global in Argentina, dove le torri dei signori della Finanza e delle Banche sono spettacolarmente crollate nel 2001 su un popolo intero. E le imprese autogestite dai propri operai sono ormai parecchie centinaia, tra battaglie legali di ogni genere che ne hanno anche sancito i diritti, sebbene la normalizzazione stia già riavanzando col Presidente Nestor Kirchner. Solo questo tipo di “democrazia flessibile e diretta” fa sperare schiarite nei “tempi bui in cui l’impero getta gli artigli per il suo divertimento e il suo profitto”, come ha scritto la Klein per presentare il film. E con il film stesso la canadese fa propaganda per un nuovo modello economico basato sulla “proprietà morale” che ha su una fabbrica chi vi lavora, sfilando poi davanti al Palazzo del Cinema con migranti (davanti (5.) ) e precari di tutto il mondo.

Lo stesso popolo ha dato e trova voce in Lavorare con lentezza, sostanzialmente l’unico film italiano coinvolto dai premi maggiori del Festival (a due giovani attori, ma viva! anche a Gaglianone) nonostante o forse in causa delle sue tendenze Maodadaiste, diretto da Guido Chiesa e scritto insieme a quei situazionisti senza nome dei Wu Ming, già Luther Blisset. Uno dei pochi tentativi sinceri di racconto del 1977 bolognese e forse l’unico per cui in molti hanno chiesto: “”Ma perché il film finisce male?”. È la Storia che è finita male, baby.”(6.) L’unico film i cui autori han creduto di dover far leggere prima della proiezione un proprio pensiero sulla tragedia in Ossezia che ricordava le colpe dei governi statunitense e russo, responsabili principali di quello succede tutti i giorni in Cecenia, Iraq, Sudan… L’unico film che ha creduto giusto ammettere alla propria conferenza stampa una rappresentativa di precari e disobbedienti per fargli leggere un comunicato, al che, nonostante il permesso dello stesso regista, la sicurezza è scattata sul malcapitato portavoce: “Ma questa è l’Italia, e l’Occidente, del 2004. Dove chiunque non si allinea diventa Al Qaeda.”(7.) E a questo proposito quel che accade negli Stati Uniti non è da meno, vedi Embedded / Live di Tim Robbins, che ha messo in scena il “fallimento della stampa americana” in occasione della guerra in Iraq: l’esercizio del potere sulla carta stampata, sulla nostra pelle di sottoposti.

Ma se quest’ultima specie di antImperialisti va dritta alla coscienza, il cinema cinema è una questione di occhi, pelle, carne e quindi carnefici-ne: “Io sono povero da quando ero piccolo”, dice l’altro carnefice che ci portiamo a casa da Venezia, una comparsa fallita nell’episodio Cut di Park Chan-wook, episodio di Three… Extremes, che costringe il regista a rimettere in scena una sequenza del suo ultimo film e a dover scegliere tra successivi mozzamenti delle dita della moglie pianista e il concludere l’omicidio di una bambina/bambino innocente(!). In quanto suddito dell’Impero insomma l’unica scelta residua è quella tra il dolore proprio e l’altrui, l’unica che l’insorto ti impone, come anche Izo insegna. Nel film altri due episodi, Dumplings (Ravioli) di Fruit Chan e ancora Takashi Miike con Box. Fruit Chan che dichiara che: “Women in Hong Kong, like any others in every other major city of the world, represent an incontestable consuming power. The post-millennium consumer priority of the female sex has switched from fashion and styling to weight-loss programs and beauty makeover. Liposuction, face-lift, breast augmentation are already broadly accepted and available whilst the next boom is gearing towards age-defying drugs and treatments. This trend is not a myth but a moral-booster far the local female population. Women no longer need to quietly accept the stigma of aging but to openly strive for the ultimate ecstasy from overnight rejuvenation…”(8.) E infatti ci mostra a più riprese l’intero processo del procurarsi un feto, altrui e proprio, per poi sminuzzarlo con erbe aromatiche e rimanenze placentari, e farne delizioso ripieno per ravioli miracolosi, cotti al vapore, alla piastra, in umido o come meglio si creda. Il successo è assicurato. Di Box non vogliamo dire altro, se non ch’è l’ennesima variazione sul tema horror delle Two sisters separate da morte violenta, che sempre ritornano, anche in Miike…

Come ancora già ritornano a farsi calca nel cervello le immagini del primo vero demone e genio Cyberpunk della cinematografia giapponese, che da quel giorno non sarà più la stessa: dal 1989 di Tetsuo – Iron Man di Shinya Tsukamoto, la carne è il corpo umano conoscono squarci e fioriture impazzite di metallo, realmente monocrome. Dalla pelle del protagonista mutante di quel film ancora(9.) si liberano urla ed è ormai ferro battente non mortale, occhio vivente fuori dall’occhio, dallo schermo, mentre nell’ultimo Vital si racconta una ricerca speculare, condotta attraverso la dissezione del corpo con il quale si è a lungo vissuto. È ormai da tre film che Tsukamoto viene a Venezia, e tra i suoi ultimi questo Vital è forse il più netto nel superare il livello antropologico e superficiale de A snake of June per scavare in profondità sotto la pelle e nel nostro stesso corpo alla ricerca di una memoria residua che il protagonista ha perso in un incidente d’auto, e così noi tutti, si sa. Come il film con cui stiamo per chiudere questa cronaca Vital riflette in maniera nuova e più metafisica su ciò di noi rimane, scavalcando con Tatto il surriscaldamento della Vista(10.), dell’immagine, di cui sempre eravamo vittime. Tanto che il film sia costruito a flashback non segnalati in cui il protagonista non cambia d’abito né d’espressione e che la ragazza morta e quella viva che lo accompagnano si somiglino assai, lo subiamo egualmente. Dispiace non aver lo spazio di dirne di più.

Negli ultimi giorni del concorso veneziano si è infine rivelato quello che Müller aveva lasciato in programma come “film a sorpresa”, perché, si mormora, abbiano battuto il primo ciak intorno al 5 agosto, per finirlo e portarlo al Festival in poche settimane: il “film a sorpresa” dell’anno ci ricorda che tutto ciò che è direttamente vissuto può anche non allontanarsi in una rappresentazione(11.), ci ricorda la possibilità di scegliere di restare ai margini dell’Impero aggirandolo quotidianamente e prendendolo in giro con un Ferro 3 da golf. Il regista coreano Kim Ki-Duk sorpassa il suo capolavoro precedente Seom – L’isola dove i protagonisti si seducevano infilandosi a vicenda aghi da pesca, lui in bocca, lei altrove, facendo all’amo, all’amore attraverso il dolore, unico possibile “direttamente vissuto”, in quanto compassione (syn pathein). In Ferro 3 (Binjip, 3-Iron) è invece il silenzio e l’invisibilità l’unica area di libertà, che comunque costa ai nostri eroi arresti, botte e lividi in abbondanza, e anche qualche incidente a danno di terzi. Il campione dell’invisibilità è un ragazzo che cerca ogni giorno un appartamento temporaneamente disabitato in cui fermarsi. Invece di rubarvi, mette ordine, fa il bucato e colleziona autoscatti insieme ai ritratti di famiglia. In una di queste case incontrerà una donna infelice, ma non ci va di raccontare a chi ancora non ha visto il film i miracoli che vi accadono… fino a quando il protagonista diventa egli stesso il fantasma vivente del cinema, col Sesto Senso, che vale il Leone d’Argento per la Miglior Regia.

[Se poi siete di quelli che il Corpo è la Città andate a vedere Land of plenty, di Wim Wenders: dove l’Impero sta crollando, avverte la propria inadeguatezza anche chi si era sentito solo per un attimo un cittadino-suddito, senza più desideri.]

Domani è un altro giorno ancora.

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Note.

1. La società dello spettacolo è ormai “movimento autonomo del non-vivente”, come lo definisce Guy Debord in apertura de La société du spectacle, Buchet – Chastel, Paris 1967.

2. Cfr. Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle, Champ Libre, Paris 1988.

3. Presentato Fuori Concorso al Festival anche Come inguaiammo il cinema italiano – La vera storia di Franco e Ciccio, omaggio di Daniele Ciprì e Franco Maresco alla coppia di comici siciliani, che arrivò a girare anche 16 film in un anno.

4. Per forma e contenuto Izo sembra seguire quella dialettica in senso distruttivo che teorizzava Debord alla Tesi 204 (“La teoria critica deve comunicarsi nel proprio linguaggio. È il linguaggio della contraddizione, che dev’essere dialettico nella forma come lo è nel contenuto. Esso è critica della totalità e critica della storia. Non è un “grado zero della scrittura”, ma il suo rovesciamento. Non è una negazione dello stile, ma lo stile della negazione.”), nel già citato La société du spectacle.

5. Luca Casarini, leader e portavoce del movimento disobbediente del Nord-Est, ripreso dalle telecamere di Blob, e poi messo in onda, incitava con gran foga i suoi compagni a mettere “davanti quei cazzo di migranti”, per meglio disporre la sfilata di protesta davanti al Palazzo del Cinema. Il filmato di Blob è stato addirittura ripreso come primo servizio della nuova edizione di Striscia la notizia, il 28 settembre 2004.

6. Guido Chiesa, Venezia 2004: moto ondoso in aumento, in Giap n.1, VIa serie, 14 settembre 2004.

7. Ibidem.

8. “Le donne di Hong Kong, come molte altre in tutte le gradi città del mondo, rappresentano un forte esercito di consumatori. In testa alle scelte della consumatrice del nuovo millennio non c’è più la moda, ma tutto ci che riguarda la bellezza. Liposuzioni, lifting, ingrandimento del seno sono pratiche già largamente accettate e accessibili mentre la nuova tendenza che si va profilando è quella dei farmaci e dei trattamenti anti-età. Tale fenomeno non è un semplice mito bensì una vera e propria spinta morale per la popolazione femminile locale. Le donne non devono più accettare passivamente l’invecchiamento, anzi possono fare di tutto per ottenere l’ultima droga per un veloce ringiovanimento.”

9. Tsukamoto ha in più occasioni annunciato la lavorazione di un Tetsuo III, essendo il II già uscito nel 1992.

10. Cfr. Marshall McLuhan, Understanding Media, McGraw-Hill, New York 1964.

11. Guy Debord scrisse “Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione” nella prima delle 221 Tesi che costituiscono il già citatissimo La société du spectacle, Massari, Bolsena 2002.

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Per inserire commenti vai a Archivi per mese – ottobre 2004

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8 Commenti

  1. Lo sapevo.
    Sparajurij solo segaioli in pena.
    Ma guardatevi un bel film porno importante pieno e segatevi bene.

  2. Palamara pensa che l’intervento di sparaiuri è buono oltreché lungo. E che tu sei un piciu con lo scroto obeso. Quasi peggio di francesca genti (che ha il cazzo piccolo).

  3. Sparajurij/pan si distingue per dovizia di particolari e acutezza anche se forse come dice Nino Minna è meglio alternare cinema dotto ad un bel pornazzo.

  4. grazie per il conforto dott. pastalonga, mi credevo che oramai qui si fosse tutti uno sciame di sperma rancido come arturo palamara, del quale approfitto per dire che c’ha il culo chiacchierato, col permesso.
    lei dott. pastalonga mi sembra invece un bravo giovine senza emorroidi.

  5. La ringrazio per gli elogi anche se vorrei conoscere
    il punto di vista dell’eminente dott.Arturo Palmara ricardo gli spermi rancidi e d’intorni.

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