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“IL VUOTO” di Armando Punzo

di Marco Alderano Rovelli

ilvuoto.jpgArmando Punzo è ben noto per la sua attività registica con la Compagnia della Fortezza, compagnia teatrale di attori detenuti nel carcere di Volterra. Nei giorni scorsi c’è stata la prima nazionale del suo spettacolo ‘Il vuoto, ovvero quel che resta di Bertolt Brecht’, il primo che Punzo ha messo ideato e messo in scena al di fuori della (Compagnia della) Fortezza. Ecco come l’ho visto, e vissuto.

L’introibo è un’innodia weilliana, in un paesaggio arrossato di forme sbilenche degne del dottor Caligari. I fantasmi di Grosz e Dix campeggiano da squarci di un fondo che è tutto superficie, e al centro della scena un’ultima cena che gareggia in blasfemia con Viridiana: vescovi, spose, canti, balli e sodomie. Un imbonitore con la testa in gabbia come un pettirosso declama Nietzsche e ride come Butthead, mentre due gemelli siamesi in frac con protesi ferrigne sulla bocca accolgono il pubblico non più pubblico.

Un prete-teschio danza.
Di sbieco un altro teschio, imbiancato di cartone e di vaudeville, armato di bastone come mask, disegna un ritmo-campitura sulla scena: vous n’avez aucune notion de style. Lo stile della crudeltà. E la crudeltà non ammette più opere. Ma i soldi saranno comunque benvenuti.
E via dunque col burlesque e col can-can, in processione dietro al prete-teschio e alle sue cocotte.
Lasciate ogni di-speranza, o voi ch’entrate: Isidore Ducasse sospeso in aria ad una tiara canta la perfezione umana, la sua bontà, la fede nell’invincibile progresso, e rimane impiccato da un singhiozzo. Ne celebra la morte un canto idiota.
Lasciatevi sedurre, lasciatevi ingannare, tanto nessuno torna indietro. Così l’imbonitore senza gabbia.
Il male si succede in forme, e sono forme lineari.
Vi viene offerto il perdono, e voi scegliete un piatto di lenticchie. Le forme lineari del male sfilano innocue, senza che una mano decisa le colga, le recida. Così compare Mackie Messer, aviatrice gutturale, dopodiché l’imbonitore riprova a condurre tutti, gioiosamente, sulla soglia del male. Senza che nessuno se ne avveda. Così accade una nuova ripartenza, il male si presenta sotto nuove spoglie (le stesse di sempre – le spoglie di un cadavere, come in un Trionfo della Morte): stavolta è una Butterfly fuor di misura.
Una pendola, e il contorno sagomato di un uomo in noir che non cessa di pugnalare un corpo di donna crocifisso ad un tavolo obitoriale – mentre, da angoli e cunicoli, si offrono alla morte donne seminude, lisce e carezzanti. Ammazzare il Tempo.
Io sono il distruttore, il sosia di me stesso, un burattino: ritorna eternamente il verbo clownesco e impersonale di un Nietzsche vestito da un castello di luci a mo’ di gonna. Entrate nella crudeltà, messieurs dames, scopritevi burattini. Di puri contorni.
Un cocotte ubriaca invita al ballo, e finisce sotto il fuoco della mitraglia.
Così, in questa nuova morte, c’è spazio pure per un verbo che si prende gioco di se stesso: sottrarre il senso alle parole, grida l’imbonitore (ruba il senso al suono, sono gli spettri di Breton e Eluard che tornano a cantare). Il teatro è assenza nella presenza. Non vogliamo dire niente. Eppur qualcosa qui si dice. Ed è la pura esibizione di quel dire che lo dice. Non siamo postini, non trasmettiamo messaggi. Eccolo, il messaggio superliminale. Indirizzato ai personaggi dell’Opera da tre soldi che sono ormai da ricercarsi tra il pubblico non più pubblico.
Pandemonio.
Non c’è nulla da dire, e per dirlo ancora interviene una tamburina senza tamburo che vuole la voce di Dio, che risuoni nei Grandi Macelli. Chiama a raccolta i miseri, questa traballante ed esitante Madre Courage. Anch’essa esibisce: espone oscenamente la retorica che la s.forma, e in quest’esposizione non viene meno il suo valore di verità. Perché è conforme alla sciocca verità del tutto, come non manca di ricordare subito l’imbonitore, e il suo canto: Tristezza per favore va via…
Non vi chiedo un’opera ma qualcosa di diverso.
Bisogna essere dei cannibali.
Bum Cha Cha Cha.

E sulla ribalta i ferri del mestiere sadomaso, forbici accette spade coltelli mannaie pugnali. E tante, tante armi da fuoco. Impugnate indifferentemente. Questi sono i dolci sogni dell’epoca che non sa sognare il proprio sogno.
Obbedire è la mia salvezza. Mostrami il tuo volere. Esisto perché mi guardate. Ecco il mio corpo. Eccolo, il corpo esposto di un’altra jeune-fille, il corpo spettrale, masochista e narcisista, dell’eone dello spettacolo, incapace di trasfigurare il male che compie. Un eone che affonda nel suo nichilismo. Voglio dissolvermi.
E si fa merce di ogni bandiera. Comunismo. Satanismo.
Ognuno perde il suo nome, nell’oscena confusione delle storie. E non può che finire con il gangster Friedrich Nietzsche impiccato al suo singhiozzo, ed al suo Oui. Perché, in questa oscena confusione, nessuno sa ritrovar se stesso: il verbo del gangster che esalta la potenza e umilia la debolezza è caduto in mano a figuranti che sono vittime dei desideri. E’ caduto in mano a schiere reattive, laddove era destinato a (in)dividui attivi, uomini non più uomini.
Così finisce in un eterno ritorno. L’eterno ritorno del medesimo. Finisce nell’immensa collezione di tragedie domestiche. Finisce in asincronia. Finisce in farsa. Finisce in banchetto, e si salvi chi può.

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