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Tentativo di mediazione attraverso l’analisi e la discussione dei punti di vista espressi in modo virulento nella recente polemica comparsa su Nazione Indiana tra Michelangelo Zizzi e Christian Raimo

di Gianluca Gigliozzi

Di solito non m’impiccio di polemiche; di solito la polemica è pane per i denti degli addetti ai lavori; il sottoscritto invece non scrive per nessuna redazione, non occupa alcuna posizione di potere nell’ambito editoriale o culturale in genere, né, fino a prova contraria, aspira ad occuparne, occupandosi di tutt’altro. Quello che segue è (vorrebbe essere) soltanto un esperimento di civiltà: tentare una mediazione razionale laddove finora c’è stato soltanto scambio pulsionale. Tentare di mediare non vuol dire conciliare, metter d’accordo, pacificare (niente veltronismo “estetico”); nessuna aria da super partes. Innanzitutto vorrei far notare che finora nessuno ha fatto degli sforzi seri per mediare tra le due posizioni; si preferisce moderare i toni, smorzare le frizioni, perfino rimuoverle, piuttosto che mediare. Eppure, per quel che ne so, senza mediazione non c’è dialettica, ma c’è soltanto una accettazione supina dell’ineluttabilità dello scontro. Accettando, nella polemica recente, la contrapposizione come fatale ed essenziale, come può esservi tra due partiti politici di opposta ideologia, ovvero rinunciando a risalire alle ragioni in generale di due posizionamenti che si fronteggiano, si rinuncia anche a comprendere il perché di alcuni dissidi, e si rinuncia anche a vedere come, al di là degli attori occasionali degli scontri, e di alcune motivazioni accidentali ad essi connesse, quelle ragioni ritornino sempre. Non penso di essere l’unico in grado di farlo, anzi sono sinceramente persuaso che molti migliori di me (ma veramente migliori) possano farlo molto più chiaramente di quanto possa fare io, non esperto né troppo addentro; avvio (azzardo) dunque questo ragionamento, anche se questo non dirà tutto e bene come si dovrebbe; d’altra parte, se mi decido a dire qualcosa, non è per avere l’ultima parola, ma è perché penso (in buona fede) che altri, che voi, altri, che esistete veramente e potete ascoltare, verrete a integrare e superare quello che mi son deciso a dire secondo le mie possibilità.
Passando dal rovente della disputa al freddo dell’analisi, come primo passo farò astrazione della circostanza, cioè dalle posizioni espresse nella specifica diatriba astrarrò due punti di vista generali dell’estetica italiana, (quelli che appunto ritornano). La posizione di Zizzi è, diciamo, di tipo “Autonomia o Autotelia” dell’opera d’arte (antirealismo, antimimetismo, immaginazione vs verosimiglianza, sperimentalismo ludico, libertà formale); la posizione contrapposta, di Raimo, è di tipo “Eterotelia” dell’opera d’arte (realismo, mimetismo, osservazione vs immaginazione derealizzante, verosimiglianza e fede nell’esperienza concreta, rispetto del vero).
Un passo indietro, adesso, verso una minore astrazione, verso l’occasione dello scontro. Zizzi esalta le opere romanzesche, ad alto tasso di densità linguistica, di Colombati e di Parente, che vengono assunte come esemplari dell’autotelia da lui auspicata. Raimo, dal canto suo, non cita nel contro-intervento dei modelli ideali o preferenziali, ma attacca proprio le opere dei due suddetti, per neutralizzare tutto il sistema di chi ne aveva fatti degli exempla. Raimo, almeno mi pare, non contesta l’esemplarità della coppia di autori citati, ma, se non erro, proprio la visione estetica di tipo autotelico di cui sarebbero, esemplari (secondo Zizzi ed altri). Da questo passaggio sembrerebbe che la contrapposizione sia essenziale, sia cioè l’opposizione tra due essenze dure e pure, invariabili nel tempo, di cui i due disputanti sarebbero l’occasionale manifestazione. Il discorso (e tono) apodittico di uno ha come replica il discorso estremistico dell’altro. Per Zizzi i due autori-perno sono dei geni dell’immaginazione pura, vertici di libertà creativa. Per Raimo sono illeggibili, autistici, compiaciuti del proprio arido gioco formale, cieco e debordante, e perciò disancorati da ogni contatto col reale e con la vita “vera”.
A questo punto il passo che faccio non è verso una verifica di quel che sostengono i due disputanti circa la coppia di autori presa in esame, visto che in ambito estetico non ci possono essere verifiche, ma soltanto rilevazioni di ricorrenze e specificità, analogie e dissomiglianze; quindi, un discorso che implichi la necessità di rendere tutto ciò comunicabile. (Dunque il fatto che io non abbia letto né Colombati né Parente, di cui certo ho sentito molto parlare, non mi è di alcun ostacolo, anzi, mi è perfino utile, giacché si neutralizza così la tentazione distraente di mettermi a dire la mia sulle loro opere: il che, ai fini di questa analisi, importerebbe assai poco). Il passo che faccio ora è invece verso un ragionamento sulle implicazioni concettuali in generale dei due sistemi che stanno alla base delle due posizioni giocate nello scontro. E uso la parola sistema non a caso, come si vedrà tra poco.
Ragiono sul primo sistema: l’opera d’arte “autotelica” è sovranamente autonoma, è un mondo a sé (un contro-mondo…), alcuni direbbero opera-mondo (categoria peraltro alquanto problematica e per nulla confortevole o risolutiva, nonostante l’aura di “definitivo”). In questa concezione autotelica dell’opera il mondo cosiddetto reale è scomposto e ricombinato, e non riprodotto nel linguaggio: il linguaggio dell’opera re-inventa gli elementi del reale, ne sfrutta le apparenze, i materiali sterminati di esperienze, credenze e saperi, li riconnette, finanche li trasfigura e li derealizza in nome della sacra immaginazione e del piacere divino di ricreare il mondo stesso secondo un nuovo ordine. Qualcuno potrebbe inferire, andando sulla psicologia, che un’opera autotelica è in genere difensiva, ossia tende ad essere un’opera da cui trapela il terrore del reale, che non sopporta lo strapotere del reale, che tenta di arginare l’orrore della sua invadenza o l’implacabilità della sua insensatezza, con il piacere della sua confutazione (come se il mondo fosse un “discorso”: un discorso che non dice assolutamente nulla, o qualcosa di assordante e inammissibile). D’altra parte si potrebbe anche dire, per esempio per casi esemplari come Joyce o Proust, che un simile progetto di re-invenzione ha senz’altro una ragione prima nel tentare di adeguarsi al labirinto del mondo labirintizzando, per così dire, l’opera; l’opera si propone di conoscere il mondo, ma per farlo deve complicarsi infinitamente, per accoglierne e quindi illuminarne la multiformità irriducibile. Ammesso che possa riuscirci, e ammesso che si possa comunicare una volta per tutti cosa voglia dire riuscirci, ci troviamo però già con un piede fuori dal sistema autotelico. Alla base dell’opera autotelica, c’è infatti una sorta di entità demiurgica, non più un autore troppo umano che partecipa ai drammi della Storia e dell’Inconscio e cerca di capirci qualcosa, ma uno che sa già tutto, sa già a cosa serve l’arte sempre e comunque, sa già come funziona il rapporto tra arte e realtà, sa come far funzionare l’opera: quindi sa già cosa faranno i suoi personaggi, considerate creature nelle sue mani divine, ingranaggi da muovere alla perfezione all’interno del marchingegno complessivo, segni da ricombinare in totale sovrana libertà e autonomia. Ma dove la libertà è totale, e dove non bisogna rispondere a nessuno di quel che si fa, e dove l’interrogarsi diventa superfluo, e lo spettacolo della forma travolge la sua stessa necessità, ogni posizione del demiurgo diventa assoluta e perciò inattaccabile: qui trionfa lo spirito di sistema. Lo spirito di sistema ha già una spiegazione per tutto, sa già come interpretare ciò che è stato, e come saranno le cose che verranno; è indifferente alla nuove forme dell’ingiustizia e dell’orrore, perché a chi risiede confortevolmente nello spirito di sistema esse ricordano il non senso dell’esserci, e automaticamente a questo opprimente e dilagante non senso il demiurgo opporrà il potere magnifico di chi riesce a sottrarsi ad esso attraverso la divina mediazione dell’opera.
Ragiono adesso sul secondo sistema: la concezione eterotelica dell’opera, nella quale si presuppone che il telos non sia più connesso a programmi ideologici e a interventi pedagogici o politici (almeno immediati), ma all’intenzione onesta di rappresentare la vita vera, far vedere le cose come stanno, trarre una qualche verità da una determinata esperienza rappresentata. Eppure anche in questa concezione fa capolino lo spirito di sistema, esattamente come nella concezione opposta. L’opera che vuole conoscere il mondo, che non pronuncia la propria separatezza da esso, ma anzi trae o vorrebbe trarre la propria forza e “verità” dal denunciare il proprio esserci immerso, dal coraggio di vedere come esso ci concerne, cade nell’illusione (altrettanto demiurgica di quella autotelica) di poter dire la verità rispettando la rappresentazione verosimile e ordinata dei fenomeni (“la storia”); un’opera del genere deve credere nella trasparenza del linguaggio, deve fingere che tutto il senso dell’esperienza umana, dell’essere nel mondo, possa essere rappresentato, e che dunque l’essere nell’esperienza sia sensato a priori, o che possa diventare del tutto sensato, una volta “catturato” nella rappresentazione. Ma proprio così si dissolve il fine dell’opera eterotelica, che è quello di raggiungere la verità di una certa esperienza, magari per provocare una reazione morale o illuminare una coscienza (illuminando un angolo di mondo); si dissolve perché non si può onestamente dire la verità di una determinata esperienza senza tener conto che nel dirla il linguaggio stesso può tradirci, anzi ci tradisce senz’altro, incorporando in sé preconoscenze, pregiudizi, automatismi, e comode risorse del mestiere che verrebbero mantenute; insomma senza tener conto che il mondo è opaco e oppone in quanto tale una resistenza infinita al linguaggio e alla possibilità di essere-detto. I creatori di opere d’arte eteroteliche in linea di principio non vogliono vedere ancora quanto il soggetto rimodelli il mondo nello stesso atto di vederlo e rappresentarlo. Dicono di non arretrare davanti alla rappresentazione del male, e mettono in scena personaggi pieni di dubbi, ma il dubbio non fa parte della concezione che sottende i loro intenti; lo spirito di sistema non li ammetterebbe. Inoltre (in genere) sono costretti ad esaltare a priori la loro soggettività di autori, che scegliendo di rappresentare una esperienza particolare (ordinata in “storia”; magari “popolare”, “per tutti”) devono confidare nella sua emblematicità, a meno che non vogliano esibire la propria unicità di soggetti, utilizzando gli opportuni dispositivi formali e retorici per potenziare la rappresentazione del loro “privato” in vista di una ricezione soddisfacente.
L’opera eterotelica, a mio avviso, e in linea di principio, se non problematizza le sue forme, rimane vittima dell’illusione di poter attingere il vero solo grazie allo slancio sincero e appassionato del soggetto che la crea. S’illude così di poter rappresentare il vero pensando o che tutto è dicibile (tutto ha senso), o che ciò che è dicibile o considerato tale è del tutto separato dall’indicibile. Ma un’opera che pensi l’indicibile come qualcosa di ineffabile, e che non ne avverta la pressione sul dicibile, non può essere un’opera che ha il coraggio di guardare in faccia la verità dell’esperienza di essere nel mondo, poiché questa verità non può mai essere dicibile, rappresentabile una volta per tutte, vera per tutti e per sempre, né totalmente indicibile, perché allora sarebbe e rappresenterebbe un oltre, un’alterità assoluta che ha smesso di inerire a noi, noi vivi, che facciamo esperienza quotidiana del mondo e del suo enigma.
Mi sembra dunque molto più ragionevole l’ipotesi di non esaltare nessuno di questi due modelli in abstracto, ma vedere sempre come funzionano le singole opere, preferibilmente nel rapporto con altre opere; sembra un’ovvietà, ma questo è di fatto ciò che non si fa (forse perché richiede più tempo e sforzi!). In particolare, in quest’ultimo anno ha lasciato perplessi non pochi, tra cui il sottoscritto, l’idea di esaltare la concezione autotelica dell’opera d’arte, specie in relazione ai romanzi di Colombati e Parente (e, con una risonanza inferiore, anche al mio), quasi fosse l’unica, o l’unica all’altezza dei tempi. Nessuno però può affermare in maniera razionale una cosa del genere. Come non si può sostenere, d’altra parte, che opere labirintiche, complicate, finanche involute, debbano essere del tutto estranee al problema e perfino all’urgenza di una lettura del mondo e del nostro tempo.
L’unica cosa che mi resta da dire, a questo punto, semplificando non poco, è che tutto ciò che ha a che vedere con l’arte oggi mi sembra essere estremamente problematico, e per questa ragione (che deriva da una percezione fallibile e discutibile, e non da un’infallibile a priori) dobbiamo essere pronti ad accogliere il paradosso e finanche la contraddizione perturbante anche nel nostro pensare l’arte e nel pensare il suo dover-essere, sia quando scriviamo testi, sia quando li fruiamo in maniera seria e responsabile. Dunque, a mio modesto avviso, dovremmo essere pronti anche a rifiutare posizioni assolute e definitive, demiurgiche e arroccate: in una parola, lo spirito di sistema.

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62 Commenti

  1. mi sono fatto risucchiare, ma non inutilmente da NI, in questi giorni. il discorso di gigliozzi fa bene a questo sito non solo per il tono, ma anche per i contenuti. gli rispondo brevemente. per il resto devo rifletterci un po’. appunto non si tratta di polemiche a schieramenti. quello che volevo sottolineare è che – per amore di onestà intellettuale – penso che colombati ma soprattutto parente – siano degli scrittori. e che i loro libri non siano illeggibili, ma sicuramente che abbiano sì una eccessiva pretesa di ostilità nei confronti del lettore. lo dico da lettore forte e da operatore editoriale. ossia, sono contento che esistano questi libri, ma mi sembra pretestuoso inserirli in quel solito codice appunto di immortali e usarli come clava contro chi cerca di scrivere una letteratura che va verso l’idiolessi. tutto qui.

  2. io mi ritengo wildeliana.
    si faccia pure arte autotelica, eterotelica, alla cioccolata ma ricordando che tutta l’arte appunto è completamente inutile
    de nihilo, nihil
    e non tende a provare niente di niente .

    saluti

  3. Bisognerebbe anche capire cos’è questo “profondo”. Spesso è un vuoto che ammantiamo di romanticume e falsa ideologia.

  4. ciò che sgorga dal profondo sta a mio avviso sotto la formula

    terrestre amoralità naturale del corpo a dorso di specchio cieco (+) agricolo ritualismo antropofago + autoantropofagia
    allo stadio adulto
    (fratto) d’IO

    una cosa così che credo valga pochi euro ma costi molto in temini di sanità mentale e gli scrittori che sono riusciti ad arrivare a tanto e una volta arrivati, non sono più tornati indietro.

    saluti

  5. Ridotto all’osso, e spero non male interpretandolo, il senso della “mediazione” proposta da Gigliozzi è tutto qui: l’arte è sempre, insieme, autonoma ed eteronoma: vive di sé e allo stesso tempo vive dell’incontro con l’altro; si sviluppa in relazione a ciò che era in precedenza, nella continuità o nella rottura, e al contempo subisce i contraccolpi di ciò le sta attorno: sempre accade, nella scrittura, una “ibridazione” tra dimensioni interne al linguaggio (sintassi, ritmo, etc) e la dimensione di quanto la trascende (il reale o, se si preferisce, la biosfera). Mi chiedo: la letteratura è mai stata qualcosa di diverso? Ora, l’oggetto primario della letteratura è il linguaggio; è il linguaggio a creare i significati, e non la realtà, che senza interpretazione esiste sicuramente come materia, ma non come conoscenza (che è “costruzione”, direbbe Benjamin). Allo stesso tempo però, il linguaggio è parte del mondo reale; in esso si sedimentano i segni del tempo. In questo corto circuito tra reale e linguaggio sta la difficoltà, per la letteratura, di approssimarsi, se non per difetto, al reale; ma è anche qui la sua forza visionaria, visto che può talvolta giungere a suggerire risvolti nuovi o inattesi nel “leggere” la verità del tempo, la sua essenza. D’altra parte, l’infondatezza è la condizione stessa del mondo e, conseguentemente, delle costruzioni linguistiche che vi si approcciano. Il mimetismo è quindi impossibile. Si possono solo fare ipotesi, ossia “costruire” un “altro” mondo, in relazione con quello reale, ma diverso da questo, e comunque sempre impreciso. Affermare il contrario è fare finta che il Novecento – letterario, ma anche filosofico e scientifico – non sia mai nemmeno esistito. Ma rifiutare il mimetismo non è rendere la letteratura impermeabile alla situazione del mondo: non è evitare di fare i conti con una letteratura capace di produrre senso. Ed è proprio qui, in questo punto preciso, che mi pare si possa scorgere la “dipendenza reciproca” tra le dimensioni dell’esterno (eteronomia) e dell’interno (autonomia) come la vera essenza della scrittura. È vuoto estetismo stare solo sui significanti, ed è idiota pensare alla scrittura come una messa in forma di significati. La migliore letteratura, in fondo, nelle sue mille e più declinazioni, ha sempre ceduto l’iniziativa alle parole, facendole sgorgare al di là della mera volontà di rappresentare l’esterno, senza però mai dimenticarlo, anzi decisamente ponendosi in chiave critico-dubitativa rispetto al guasto del mondo. Penso qui a Volponi di “Corporale” o de “Le mosche del capitale”, dove appunto la lingua è forzata oltre le convenzioni, e in particolare oltre la linearità e la leggibilità immediata, senza però farsi distacco o, peggio, insensibilità rispetto allo stato delle cose. A partire da queste precisazioni, assume un valore direi radicale la “mediazione” indicata dal Gigliozzi, con in più il suggerimento sacrosanto di stare sui “testi”, evitando di agitarsi in uno “spirito di sistema” improduttivo criticamente. Per almeno tentare di scovare, nei testi, ciò che apre nuovi risvolti, ciò che permette di produrre un senso diverso dal nichilismo imperante.

    Credo che l’intento dell’articolo di Gigliozzi (e il suo merito) sia anche rilevare l’artificiosità della divisione tra modelli dati come contrapposti. E difatti i testi reali mostrano sempre, in un modo o nell’altro, una tensione a trasbordare verso il sistema “avverso”. Il caso de “La macinatrice” di Parente lo dimostra. Anche se non mi convince del tutto (non mi convince il finale, dove Elena viene svelata come prostituta: troppo prevedibile; e nutro dei dubbi sulla lunghezza: tutto poteva concludersi 100 pagine prima, dandomi a tratti l’impressione di un divertimento manieristico, stancante per me lettore), ammetto che l’esito del romanzo è notevole, aperto a soluzioni formali volutamente paradossali rispetto ai canoni in corso. In quest’opera mi affascinano le piccole divergenze sparse qua e là nell’incedere del racconto (ottima l’analisi del porno come finzione, pag. 314 e 315), o una certa idea di esagerazione dei costrutti che spesso sfocia in un salutare grottesco. Visto che nella Vagina’s World, l’immenso mondo virtuale che è al centro del romanzo, ogni eccesso sessuale è naturale, senza finzione, ed essendo la letteratura finzione al massimo grado, ne ho quasi dedotto che per Parente l’arte non può che essere pornografica (eccessiva, trasbordante, allucinata, inventiva). Mi chiedo: non è che la disposizione dei materiali serve a Parente per costruire una grande allegoria del funzionamento “interiore” del capitalismo? Ma se è così, allora davvero la diatriba tra i modelli è, almeno in questo caso, una forzatura. Più che optare per un uso passivo del linguaggio, limitandolo al solo tradurre nella lingua dell’uomo la lingua delle cose, Parente costruisce un oggetto dove il “piacere” dell’atto dello scrivere non è espunto dalla “responsabilità” nei confronti del mondo … In questo senso, rilevare, come giustamente Gigliozzi fa, la forzatura della divisione rigida in sistemi contrapposti, rende il suo intervento veramente importante per riportare al centro dell’attenzione i “testi”, fissando lo sguardo critico sulla materialità della scrittura, che puoi vuol dire: collocarla nell’epoca, nei termini di una verifica dei significati “esistenziali ed etici” che propone; relazionarla alla “tradizione”, per misurarne gli scarti o le affinità; descriverne l’andamento (ritmico, retorico, grammaticale) … Che sia, la strada indicata da Gigliozzi, quella del dialogo razionale a partire dai testi e al di là dello “spirito di sistema”, l’unica strada capace di accantonare quell’ideologia che cerca, più che lo scambio libero, la chiusura di ogni condivisione?

    Mi chiedo però se dietro la diatriba che si è creata tra i due “modelli” (che, come giustamente nota Gigliozzi, ritorna spesso all’ordine del giorno), non ci sia anche altro, e intendo qualcosa che non riguardi direttamente le scelte estetiche, quanto piuttosto alcune rigidità ideologiche che impediscono proprio di stare sui testi, quasi adombrando una sorta di battaglia politica “in minore”: da una parte i destrosi, dall’altra i sinistrorsi? Non è che, insomma, la questione sia un po’ più complicata e che non riguardi più soltanto la letteratura, ma anche scazzi personali, divergenze (spesso mal comprese) rispetto al posizionamento reciproco nel mercato della politica et ultra? Anche qui, il caso-Parente è emblematico: quanti ne rifiutano l’opera perché scrive sul Domenicale? E quanti, di fronte alle sue critiche spesso eccessive e poco circostanziate (ora in “Parente di nessuno”), evitano di leggerne i romanzi, anzi deprecandoli di conseguenza? È possibile – e qui mi rivolgo a Gigliozzi – saltare tutti questi risvolti e stare solo sui testi? Quante altre “mediazioni” vanno fatte?

    n.g.

  6. La faccenda non verte su presunte autotelie e autonomie dell’arte. La faccenda è che viviamo in un mondo culturale asfittico, eterodiretto, esocentrato, in cui chi non sa manco mettere un accento e un apostrofo al suo posto spara a zero, pubblica, primadonneggia, lacricoccodrilla sul malvagio costume di schiatta ignava e finta, ma di quello si pasce. Imperativo utopico (e destinato a restare tale): prima rimuoviamo dal mercato editoriale i trimalcioni che si sono arrampicati in vetta alla scena mediatica o letteraria, poi possiamo ritornare a cavalcare gli universali… e a mediare culturalmente.

  7. dice ng:
    “Non è che, insomma, la questione sia un po’ più complicata e che non riguardi più soltanto la letteratura, ma anche scazzi personali, divergenze (spesso mal comprese) rispetto al posizionamento reciproco nel mercato della politica et ultra?”

    Un merito grande del pezzo di Gigliozzi è proprio quello di “sganciarsi” da questa “complicazione”, da questo terreno, di fare astrazione dai meccanismi di posizionamento. E ci dimostra che è assolutamente possibile, che ci si puo’ riuscire. E che si puo’ dire qualcosa di pertinente. Ma nello stesso tempo, forma e contenuto, del suo argomentare si raggiungono: l’esito è una certa provvisorietà del discorso. E’ che manca lo schema agonistico, che fa si che una tesi debba vincere schiacciando l’altra; che si debba scegliere a priori per quale squadra tifare. Tutto cio’ ecciterà forse molto meno gli animi, disgusterà quelli che si sentono chiamati a tifare per qualcuno o contro qualcuno.

    Anche perché una piccola esperienza qui, in Ni, l’abbiamo fatta più volte. E’ difficile porre in modo adeguato e utile una domanda sul posizionamento “politico ” di uno scrittore. Su questo davvero le “intereferenze” sono legione. E si finisce dritti in grosse semplificazioni, in incomprensioni esponenziali.

  8. Gianluca Gigliozzi dice:
    «L’opera eterotelica, a mio avviso, e in linea di principio, se non problematizza le sue forme, rimane vittima dell’illusione di poter attingere il vero solo grazie allo slancio sincero e appassionato del soggetto che la crea. S’illude così di poter rappresentare il vero pensando o che tutto è dicibile (tutto ha senso), o che ciò che è dicibile o considerato tale è del tutto separato dall’indicibile. Ma un’opera che pensi l’indicibile come qualcosa di ineffabile, e che non ne avverta la pressione sul dicibile, non può essere un’opera che ha il coraggio di guardare in faccia la verità dell’esperienza di essere nel mondo, poiché questa verità non può mai essere dicibile, rappresentabile una volta per tutte, vera per tutti e per sempre, né totalmente indicibile, perché allora sarebbe e rappresenterebbe un oltre, un’alterità assoluta che ha smesso di inerire a noi, noi vivi, che facciamo esperienza quotidiana del mondo e del suo enigma.»

    Ma allora, considerando il testo:

    «Un sistema meccanico hamiltoniano è definito da una varietà a dimensioni pari (“lo spazio delle fasi”), da una struttura simplettica su di esso (“invariante integrale di Poincaré”) e da una funzione (“funzione di Hamilton”). Ogni gruppo a un parametro di diffeomorfismi simplettici dello spazio delle fasi che conservano la funzione di Hamilton è collegato a un integrale primo delle equazioni di moto. La meccanica lagrangiana è inclusa in quella hamiltoniana come caso particolare (lo spazio delle fasi, in questo caso, è il fibrato cotangente dello spazio delle configurazioni, mentre la funzione di Hamilton è la trasformata di Legendre della funzione di Lagrange).» (Vladimir I. Arnold – Metodi matematici della meccanica classica, Editori Riuniti 1979, p. 160.)

    possiamo sostenere tranquillamente che esso è “dicibile” ed è “vero per tutti” (nei limiti dello sviluppo storico-critico delle conoscenze della fisica matematica), descrive perfettamente molti aspetti del “mondo reale”, del “vero”. Ma non è letteratura in senso stretto, perché è fortemente “idiolettico”. La letteratura dovrebbe comunque aspirare ad attingere a un patrimonio di “unità culturali” comune a tutti, a un’ipotesi di “cifra formale a priori”. Altrimenti qualsiasi idioletto è letteratura.

  9. certo che o la si butta sul sesso, o la si butta sulla politica.
    possibile sia così difficile accettare l’dentità narrativa di uno e di un altro scrittore come pure personalissime espressioni di linguaggio?
    la complottologia ha stancato come pure certi forsennati tentativi di analisi politica sociale o religiosa su bellissimi testi letterari che andrebbero goduti senza essere sottoposti a autopsie discutibili. lasciamo ad ogni scrittore (ad ogni scrittore), il suo ruolo in libertà e in menzogna, in politica e in religione, in salute e in malattia così che possa dirsi libero proprio per il fatto di essere della realtà, flessibile interprete anarchico (scrittore) tra flessibili interpreti anarchici (lettori).
    inoltre uno stesso libro può voler dire continuamente il contrario di quello che si credeva volesse dire se letto in periodi diversi della nostra vita.
    saluti

  10. Qui prima o poi finiamo per scomodare lo spettro di Fish… In realtà è indifferente alla definizione di opera d’arte l’eventuale etero- o autotelia, etero- o autonomia (mi sembra per altro che questo si sottintenda, ma forse ho capito male). Il fatto è che, nel caso in cui un prodotto umano, al di là della sua fungibilità tecnica, implica, nel suo essere costituito in un certo modo, un riorientamento semantico dei dati dell’esperienza, questa risemantizzazione estetica (dove estetica è uguale a: relativo all’aisthesis, percezione e orizzonte del sensorio) qualifica questo prodotto umano come un’opera d’arte, il che poi ha come portato successivo un riorientamento gestaltico della dimensione cognitiva dei paradigmi di interpretazione della realtà (anche se non è questa la finalità dell’oggetto d’arte in sé). L’espressione letteraria è ovviamente una risemantizzazione estetica attuata all’interno (e per mezzo) di quello che per eccellenza è in se stesso un sistema segnico. In effetti l’espressione letteraria parte dal presupposto che tutto possa diventare dicibile e che il linguaggio possa essere riorientato per ampliare l’orizzonte del dicibile… un’irruzione nell’inarticolato. Deve guardare in faccia alla realtà del non-ancora-dicibile…

  11. Non credevo di essere eterotelico.
    Piuttosto mi chiedo cosa abbia in mente Raimo quando (altrove) parla di alzarsi la mattina per andare in redazione.
    Quale redazione?
    Saluti

  12. @gigliozzi
    @arte_misia
    Il lavoro di mediazione razionale, insomma, eviterebbe la tettonica sistemica di una cultura.
    Mi sembra che la posizione di Gigliozzi sia un richiamo forte al marxismo jamesoniano: la natura dialettica del romanzo come garante della alternanza tra letteratura “auto” ed “etero”, una prospettiva dialogica che mira a saldare parole e immagine, LINGUA e VITA. Intravedo un’apertura verso le tesi del nuovo romanzo politico, “tardo romantico e profondo”, che sia figlio di una letteratura, cioè di una temperie (la STAGIONE).
    Vorrei che Gigliozzi fosse davvero consapevole di quello che dice, che superasse fino in fondo le opposizioni che è così bravo a smascherare, scrivendo un romanzo che sia portatore di una “visione del mondo” (LINGUA+VITA=MONDO).
    Proverò a spiegarmi con un esempio. Esiste almeno un genere letterario che spezza le reni ai militanti auto o etero. La fantascienza, sissignore. Gigliozzi, che è neuropeista, lo sa.
    La fantascienza è antirealista, antimimetica, ma racconta la realtà come se fosse “vera” (e molto spesso, direi quasi sempre, lo è). Parlerei addirittura di una osservazione “realizzante”.
    Dalla creatura di Mary W. Shelley alle scimmie di Boulle, fino ai prodigiosi cyber di Seattle, la fantascienza ha sempre dovuto essere la realtà, il mondo che non c’era. Per questo ritengo che la fantascienza sia il nuovo realismo (una lingua sempre uguale e diversa, che prende dalla TRADIZIONE e la rinnova attraverso NEOLOGISMI)**.

    @n.g.
    L’osservazione sul romanzo “visionario”, problematico e paradossale, mi sembra pertinente (“è il linguaggio a creare i significati, e non la realtà”, “allo stesso tempo però, il linguaggio è parte del mondo reale; in esso si sedimentano i segni del tempo”). Ma se il presupposto è questo allora come fai a conciliarlo con la dimostrazione della tua della tesi? Che faresti di fronte al rebus fantascientifico? Dire che il mimetismo è impossibile significa pisciare in testa ai piloti di astronavi che navigano verso pianeti lontani. Ti rendi conto che le ipotesi dei cosiddetti ‘scrittori di fantascienza’ si sono rivelate giuste, che hanno effettivamente “costruito” un “altro” mondo, più reale di questo? Il Novecento, il secolo della realizzazione (brutale?) del sogno prometeico.
    La Shelley, una ricchissimo divulgatrice scientifica.
    Nel frattempo accontentiamoci di Michael Chrichton.

    @prodan
    Il “dicibile” è “vero”, mi conforta la storia della scienza.

  13. Grazie Gianluca (anche perché stimo il tuo lavoro) per aver scritto quello che mi sarebbe piaciuto vedere sotto al mio testo, al posto di pezzi, frattaglie anonime lanciate verso attacchi personali. La cosa diverte la mia goliardia, la mia allegria, ma in quel pezzo, come nel resto nella scrittura ero serio.
    Non posso essere che brevissimo ora a causa della mia solita entropia e del non avere internet a casa.
    Ma il problema mi pare ben messo.
    Certo nel mio ‘intervento’ non auspicavo tuttavia neanche una fuoriuscita ( verso ‘programmi ideologici e interventi pedagogici o politici’: parole tue) ‘etica’ del testo. Anzi, al contrario. La mia posizione, seppur sommariamente, assomiglia a quella di cara polvere, perché sarebbe proprio l’esigenza al comunicare ‘in relazione’ all’altro inteso già nello statuto di lettore (e pertanto di cosa morta, di oggetto al di fuori, proprio perché presupposto come destinatario, con tutto quel ce ne cosnegue, con tutto il carico di preteziosa possibilità di educare) ad essere presente nella letteratura che tu chiami mimetica, e che io ho considerato nel mio pezzo inutile.
    Il discorso è assai lungo come si vede, ma sono contentissimo del fatto che finalmente si parli di qualcosa e non si insista sul frugale trionfo del’apparizione fantasmatica del nick che nasconde invisibile un coglione.
    Torno spero domani sull’argomento.

  14. Errata corrige: ‘con tutto quel ce ne cosnegue, con tutto il carico di preteziosa possibilità di educare’, che consegue pretenziosa

  15. @roberto
    @andrea inglese
    @ng
    @gigliozzi

    GLI INDECISI

    “Scrivere è una funzione del capire”
    (L. Meneghello).

    Due cose mi colpiscono del dibattito. la prima, un po’ a latere, è la terrificante precisione e competenza di ng (e la rapsodica e geniale scrittura-pensiero di roberto). non si dovrebbero far cadere nel vuoto tali qualità. almeno li si menzionino, nelle risposte, se si ha TEMPO di rispondere! BISOGNA essere all’altezza della capacità critica offerta da ng& c. (e anche, a suo modo, da gigliozzi).

    poi: andrea inglese (che articola e “definisce” l’atteggiamento metodologico-critico che emerge dalle note di Gigliozzi). inglese dice che sarebbe provvidenziale, ai fini dell’analisi, del lavoro critico, abbandonare “lo schema agonistico, che fa sì che una tesi debba vincere schiacciando l’altra; che si debba scegliere a priori per quale squadra tifare. […]” E conclude: “E’ difficile porre in modo adeguato e utile una domanda sul posizionamento ‘politico’ di uno scrittore. Su questo davvero le ‘intereferenze’ sono legione. E si finisce dritti in grosse semplificazioni, in incomprensioni esponenziali”.

    le diatribe tutte e solo strumentalmente “ideologico-politiche” – di schieramento – sono secondo me triviali e sterili, limitanti e riduttive (berardinelli su il foglio, colombati sul giornale, parente sul domenicale ecc ecc). esistono, è vero, come ostacolo vetusto e “moralistico” alla comprensione di un testo o di un autore. sono un cattivo modo per affrontare un dato “storico” (non solo biografico), quello chiamiamolo così della ‘trasmigranza’ di autori e di ‘ideologie’ all’epoca di questo sistema culturale (integrato). è il “campo” intellettuale di oggi. va indagato, non (solo) stigmatizzato.

    se è proprio necessario affrontare il problema, basso profilo, mi viene da dire che non poco dipende dalla sede sulla quale ci si trova a pubblicare: insomma, spero tutti si sia d’accordo che ‘il foglio’ è qualitativamente “un’altra cosa” dal ‘domenicale’. con annessi e connessi. ma anche questa è una “grossa semplificazione”. Forse.

    al di là degli schieramenti politici, delle personalizzazioni, come “mediazioni” senz’altro esistenti (ma aggirabili), non mi va giù questa sorta di epochè critica che emerge dalle tesi di gigliozzi a inglese. forse sto forzando un po’, ma può risultare utile spingere all’estremo certe posizioni per saggiarne forza e tenuta.

    nè “realismo” nè “avanguardia”, insomma. nè autonomia nè eteronomia dell’arte. una metodologia critica che tralasci dogmi dualistici contrapposti, parta dai TESTI (e come se no?…), verifichi caso per caso esperienze di scrittura e di pensiero. e si spinga, magari, verso la costituzione di un lavoro critico che ‘sospenda’ la scelta, si inarchi solo all’auscultazione di testi-exempla.

    infine il lavoro critico, svelate le aporie e i limiti di entrambi quegli ‘schieramenti’, saprà anche ‘orientarsi’ nella “problematica” situazione culturale odierna.

    perchè invece non pensare alla forza di un gruppo, alla forza di un lavoro critico che scelga bene “da che parte stare”? Tipo:

    un lavoro critico che “SCEGLIE” di affrontare ogni forma di scrittura che “problematizz[i] le sue forme” (gigliozzi), non si accontenti dei suoi codici tradizionali (la tradizione: sempre cruciale, per entrambe le estetiche di cui trattasi…). E questo, è il caso di dire, come orientamento ecumenico.

    Ma, in più, si tratta di un lavoro critico che “SCEGLIE” una forma di scrittura che, proprio in virtù della sua autoriflessione e destrutturazione problematica, non si accontenti di
    (auto)legittimare o rinforzare, in direzione centripeta, i propri moduli espressivi e/o ideologici. Come invece, inevitabilmente, facevano, fanno e faranno i “critici-scrittori”, per così dire, degli opposti “schiramenti”: ZIZZI VS RAIMO… che adesso si scateneranno per questa (grafica) promiscuità…

    Li mescoli, invece, secondo un’idea di letteratura che, ad esempio, ha in mente Roberto (alto e basso, rock, tradizione letteraria e fumetto, inchiesta e racconto….: realismo e “fantastico”; “fantastico – realistico”). Ad esempio.

    Che sia capace, ad esempio, di assumere in sè (SENZA dilatazioni estreme, senza ‘nevrosi’ formali o di struttura), l’alto e il basso; il cerchio dell’io e il cerchio degli scomparsi. Su questo tema, in poesia, parlando di opere-exempla: Viviani e Testa, Pusterla e Benzoni, De Angelis e Buffoni…. ad esempio.

    Che abbia un codice proprio che trasmigri verso l’onnivora penetrazione con codici o linguaggi o metodi plurali (per NON tralasciare nè la “vita” nè la “Storia”, per semplificare assaissimo).

    Nel romanzo odierno: ?….

    In direzione di uno SPERIMENTALISMO REALISTICO E VISIONARIO, IDIOLETTICO (LETTERARIO) E COMUNITARIO – PERFORMATIVO E (ANAGOGICO) PERCHE’ SEMANTICO, infine…. Non è certo una posizione di terza forza e vagamente irenica. E’ invece proprio una scelta che parte dal linguaggio, dal sostrato SEMANTICO del linguaggio. Alla base: un linguaggio che comunichi, che veicoli un senso. Questa sarebbe una scelta, per selezionare (non censurare) ma individuare le “poetiche” sul “campo”.

    Insomma, bene fanno Zizzi e altri critici-scrittori a fare “battaglia” di “poetiche”, “battaglia” di “canoni”.

    Ma il lavoro critico agisce nella “problematica” situazione culturale odierna (Gigliozzi) partecipando alla “battaglia”, facendo una scelta. E cioè da che parte stare. Oppure forse mi sono scordato che Nazione Indiana è neutrale….

  16. scrivere a mio avviso non è solo capire
    scrivere è scrivere quello che si crede di avere capito e provare a trasmetterlo.
    c’è anche chi scrivere senza preoccuparsi se riesce a trasmetterlo e va bene lo stesso.

    p.s: per inciso r.r. io mi reputo all’altezza di rispondere a chiunque.
    magari a volte con difficoltà, magari mi tocca pure andare a studiare ma mi sento tra pari ovunque.
    chi sputa sentenze sviolinatorie è davvero povero.

    saluto

  17. @cara polvere

    … ma perchè spesso qui ci si prende tanto sul serio?

    è vero, cara polvere. a leggere quel primo passaggio del mio commento sembra che sia serio e che seriamente inviti a stare alla pari con qualcheduno. non era così, vorrai credermi. forse è proprio lo statuto intrinsecamente ambiguo del linguaggio a sfumare i concetti (ma allora semnatizziamo, e ri-semnatizziamo, diamo UN senso).

    Non IL senso, ma uno straccio di senso che per te, mi sembra di capire, non fa niente se ci sia o no, se si riesca o si debba mettercelo o meno, in letteratura….

    Forse la tua è una “idea di letteratura” distante dalla mia. bene, stiamo facendo delle scelte. una “battaglia” di poetiche. Non mi convinceva la “sospensione fenomenologica” (e metodologica) di altre posizioni (questo era il senso, tra il serio e il faceto, del mio commento).

    va bene così?

  18. quindi non eri serio o perlomeno eri solo ironico. va bene.

    esatto. per me il senso non è indispensabile ma solo per un semplice fatto di soggettività.
    parlavo con uno scrittore. lui diceva che la mia concezione di corpo è simbolica, per lui invece un corpo è un corpo, come una macchina è una macchina. amen.
    e solo un esempio autoreferenziale. ma potrei citarne altri.
    quando scrivo non mi preoccupo se chi leggerà potrà o dovrà trovare per forza il MIO senso.
    nemmeno mi preoccupo di trovare risposte alle domande che il lettore va presumibilmente cercando.
    lo farà da sè lui stesso quando si approprierà del mio testo che non sarà, allora, più mio.
    se è, troverà IL SUO di senso capito.
    cielo! è un discorso scivoloso, me ne rendo conto. mi scuso se ho dato un senso distorto alle cose che hai scritto ma mi ha fatto un pò SENSO leggerle.:-)
    risaluti

  19. Scambiano la confusione per profondità e l’essere arruffati per liberazione? Dicono di non fare gli indiani e accarezzano l’idea di riportare successi con libriccini da indiani. Non facciamo assolutamente gli indiani, dichiarano, e neanche si spazzolano il vestito prima di cominciare a scrivere.

    da The Last Walser

  20. @r.r.

    “tutto il reale è virtuale”

    So che sto semplificando ma la destra negli ultimi dieci anni ha messo a punto micidiali battaglie culturali. Un giornale come il Foglio, a mio parere, oggi incarna quei “gruppi forti” che hanno scelto una scrittura che “problematizza le sue forme”. Pensa alla campagna (quella sì visionaria) sulla inefficacia dei condom, alla “sveglia” che Ferrara ha dato alla Cei in materia di aborto e procreazione assistita, alla grandiosa idea orientalista di “riformare” l’Islam. In un certo senso hai ragione, il linguaggio della Nazione rischia di apparire più debole del previsto, e la ritirata di Gigliozzi dal campo agonistico potrebbe coincidere con una specie di neutralismo, un pacifismo letterario che lascia campo libero ai nostri avversari. Temo che l’intellettualità più avanzata della destra stia cercando di raggiungere il nostro stesso obiettivo (lo “SPERIMENTALISMO REALISTICO E VISIONARIO”). Leggi cosa scrive David Frum sulla riforma dell’Iran e ti accorgerai che i nostri discorsi qualche volta sono troppo innocenti e spesso di retroguardia (prima di tutto i miei).

    Più che di “realistico-fantastico” parlerei di nuovo realismo. Gli illuminati della fantascienza sono eredi di Vico, più realisti del re, perché con le loro opere hanno anticipato il futuro.
    La mia tesi è che la fantascienza è finita quando il mondo a venire è venuto. Oggi nei laboratori americani all’avanguardia si producono congegni per lo spionaggio emotivo.
    “Frankenstein” di Mary W. Shelley ha dato inizio alla trasformazione del presente. Tutti gli incubi della Shelley sono intuizioni profetiche sul nostro essere. Ecco dov’è il realismo: la lingua poetica della Creatura, il brusio indistinto. La psicostoriografia seldoniana elaborata da Asimov dovrebbe diventare un’attività accademica, un lavoro di combinazione dei dati storici, fatto per popoli e genti. A distanza di mezzo secolo dalla pubblicazione, la Trilogia appare salutare oltre che attuale.
    Per non parlare del pianeta delle scimmie di Boullé che ha un epilogo sorprendente. Leggetelo se avete visto soltanto il film. Questo romanzo non è che una formalizzazione del superscientismo dilagante, dove anziani scimpanzé adorano il Dio-Ingegnere, capitano della industria genetica e della robotica. E se vi sembra strano definire un tipo come Bruce Sterling “uno scrittore realista”, sappiate che il Nostro viene premurosamente accolto a corte quando si tratta di immaginare la vita privata dell’uomo del XXI secolo. Insomma, leggiamo queste opere come se si fossero realizzate.

    * La Nazione è un “hot text” fatto di rabbia, emozioni, punti esclamativi. Per evitare di spezzare il flusso critico sarebbe opportuno suggerire ai capitribù di immaginare una struttura ad albero.
    Gli inediti sarebbero le foglie, i fiori, i frutti; i commenti critici sarebbero i rami, che si dividono ma devono restare uniti; le radici sarebbero tutti gli altri emoticons (impressioni, punzecchiature, motti di spirito, insulti, eccetera) che a questo punto potrebbero retrocedere in una chat (sarebbe un bell’esercizio di brevità).

  21. a r. r.
    “non mi va giù questa sorta di epochè critica che emerge dalle tesi di gigliozzi a inglese.”

    Rispondo su questo, anche se sono diversi gli spunti che offri. Parlo per me. Non ho mai manifestato atteggiamenti neutralistici, per quanto riguarda la letteratura, tantomeno per quanto riguarda la dimensione politica dello scrivere.
    Il discorso che ho fatto riguarda in particolar modo il blog, ma potrebbe valere anche per riviste o altro. Uno dei nodi maggiori della questione, per quanto risaputo, è questo. La critica “militante” in Italia è assorbita dalla critica da pagina “culturale” o da recensione. Ci si divide il campo, e ognuno fondamentalmente recensisce le novità editoriali in modo positivo. E’ una sorta di pace concordata. Di tanto in tanto, pero’, ci sono polemiche di assestamento, di ricollocamento, ecc. E qui si esce dalla routine e dalla benevolenza, e si parla anche in negativo di libri, autori, ecc.
    Nell’un caso come nell’altro, prevalgono le logiche di clan e schieramento, e quindi si tratta quasi sempre non di critica delle opere ma di critica “delle collane editoriali”, delle “famiglie intellettuali”, dei “gruppi di scrittori”, ecc.
    L’nadamento che si crea è dunque in due fasi: ci si ignora pacificamente tra schieramenti diversi, salvo di tanto in tanto venire a scontri viscerali, e poi si riprende. In tutto cio’ ci sono poi passaggi di campo, ecc.

    Ovviamente la realtà letteraria è molto più complessa, vi sono grandi differenze tra autori di una stessa famiglia, e altrettante tra opere diverse di uno stesso autore, ma lo sguardo sottile si perde subito nei momenti di polemica dura.

    Rispetto a questa situazione, l’atteggiamento di Gigliozzi mi sembra utile. l’epoché critica non è un’epoché del giudizio, un rinunciare a giudicare, ma un darsi il tempo e la giusta distanza per avvicinare le opere, senza lasciarsi condizionare oltremodo dal proprio posizionamento e dalla propria “famiglia” di autori. Il che non vuol dire, credo per Gigliozzi come per me, fingere di essere al di fuori di ogni corrente, famiglia, schieramento.

    Potevo sintetizzare con un solo motto: “i testi, prima di tutto”

  22. Mr. Raimo hates mr. Colombati.
    Mr. Kim Rossi Stuart hates me.
    Have a good dinner with the “gricia”…

  23. W il testo.
    scrittori/critici che si litigano perchè troppo fedeli a loro stessi e non ai testi. troppo volgari. troppo plastinati. troppo, ripeto, fedeli
    e convinti di questa fedeltà.
    la scrittura dovrebbe appartenere agli scrittori come l’aquila alle altitudini. mai prigioniera. mai circoscritta. mai fedele alla stessa corrente d’aria.
    credo che il circo abbia a disposizione molte piste per ogni tipo di rocamboleria. altro che romanzo del novecento.
    qui si parla della congiunzione di nei sulle natiche uno dell’altro. o dell’erba del vicino, che è sempre più verde o sempre più secca.
    questi grandi scrittori moderni hanno ancora l’urgenza di scrivere? hanno ancora il rostro delle ore ispirati che li insegue senza tregua fino a sfinirli, fino a che non hanno svuotato il disegno? la scrittura come erezione simbolica che ha bisogno di essere eietta in tragica catarsi.
    questo mi piacerebbe sapere. questo. se c’è ancora quel retrogusto amaro di un romantico fallimento secolare che contraddistingue molti scrittori del novecento… esiste ancora? o tutti si chiamano giudici polivalenti e inopinabili?
    mi danno l’impressione di zitelle fedeli al loro vecchio gattone castrato che gioca stupidamente con l’ombra della sua coda.
    ci sarebbe bisogno de ‘dislocazione della fedeltà”
    la fedeltà è volgare, appariscente, mediatica.
    l’infedelta è tragica, vivida, creativa. al di sopra di giudizi di qualsivoglia natura.
    e l’obiettivo è scrivere. o no?

  24. @inglese

    “darsi tempo, stare sui testi”

    Ma anche dettare l’agenda delle battaglie culturali, quindi della politica. Il problema – vorrei restare al giornalismo –, è che quotidiani come Repubblica o il Manifesto funzionano ancora come dici tu (“la critica da pagina culturale o da recensione”), staccando i fatti dal commento, mentre il Foglio usa le notizie per cambiare la realtà, in nome di una visione culturale (giusta o sbagliata che sia). E’ un discorso egemonico, ovviamente, che coinvolge anche “collane editoriali”, “famiglie intellettuali”, “gruppi di scrittori”. Hai fatto bene a ricordarlo (ne ha parlato diffusamente anche Prodan nei commenti a Nove). Be’, io ho come l’impressione che siamo in ritardo di fronte a questa destra. Non si tratta semplicemente di militanza ma di idee (quali?).

  25. a roberto
    a inglese

    da ‘il manifesto’, ieri…:

    Il format catodico dell’egemonia
    Guido Liguori

    “Il 27 aprile, anniversario della morte di Antonio Gramsci, nessun quotidiano di sinistra ne ha ricordato la figura e l’opera. Poco male: l’industria culturale legata al calendario è spesso stucchevole. E il prossimo anno certo non mancheranno, nel settantesimo della scomparsa, convegni e articoli, libri e polemiche. Dunque la cosa in sé non meriterebbe di essere sottolineata se – in quegli stessi giorni – il nome di Gramsci non fosse ricorso con frequenza su Libero, il Foglio, vari siti web e altri giornali di destra, e poi di rimbalzo in un commento di Lucia Annunziata sulla Stampa. Merito del Domenicale e del suo direttore Angelo Crespi che all’indomani delle elezioni hanno lanciato una provocazione di successo: ora che abbiamo perso, bisogna studiare Gramsci, se vogliamo tornare a vincere domani. L’interesse della destra per Gramsci non è un fatto nuovo. Subito prima del voto, Berlusconi aveva usato lo spettro del comunista sardo sulla scia di quanto avevano fatto conservatori vari delle Americhe del Nord e del Sud negli ultimi decenni, additandolo come profeta di una sinistra tanto più pericolosa perché subdola, solo apparentemente non «leninista». Il Domenicale, nell’invocare invece la lezione di Gramsci, si pone sulla scia di una tradizione più interessante, quella della nouvelle droite di Alain de Benoist, che già negli anni ’70 vagheggiava un «gramscismo di destra» (nel suo caso, allora, di estrema destra). Intendendo con ciò proprio quel che oggi intende Crespi, cioè che ‘solo attraverso la cultura può realizzarsi una vera rivoluzione’. […] Cosa si intende qui per «insegnamento di Gramsci»? La capacità di creare un nuovo «senso comune», di affermare una nuova «concezione del mondo» che crei i presupposti per nuovi e non effimeri equilibri sociali e politici. […] Ebbene, cosa è questa Italia che ancora per metà vota per l’impresentabile Berlusconi se non in buona misura quella parte di paese antropologicamente mutata dalla vera «rivoluzione culturale italiana» rappresentata da Mediaset e dai suoi modelli? Non è stata la «visione del mondo» offerta per decenni in modo martellante dalle tv berlusconiane a preparare la duratura egemonia di una visione della società come mercato, di uno stato ridotto al minimo (tendenzialmente senza tasse e quindi senza servizi), di una Costituzione della «Repubblica fondata sul lavoro» eletta a bersaglio quotidiano, di una politica vissuta da spettatori?
    Certo, vi è destra e destra. Vi è anche una destra più colta, che non ne può più delle «tette e culi» e dei «reality show» delle tv Mediaset e non solo. Una destra che si è impegnata a riscrivere la storia, sia pure in modo unilaterale. […] Cosa oppone la sinistra a questa destra di governo e a questa destra di opposizione che, suonando strumenti diversi, negli ultimi anni hanno riscritto la cultura diffusa del paese?”

    Credo che, come esempio, il discorso si (re)inserisca nei dibattiti dei giorni scorsi (forlani, nove, ma anche zizzi, raimo, gigliozzi: persino il vecchio post di mozzi con quello che ne è seguito…).

    E faccia da eco a quello che roberto dice. so per certo che ci sono gruppi (o singoli) che si occupano di ‘mappare’ questa cultura di destra e la sua forza egemonica: nazionale (o provinciale) – vedi revisionismi , memorie condivise, laicismo vs ideologia cattolicistico-occidentale ecc.; e planetaria – vedi orientalismo, islam e occidente, guerra e identità e: “pangea” culturale integrata…

    E’ un lavoro lungo, paziente, complicato, ma forse prioritario e essenziale: che dovrebbe partire dalla fertile sperimentazione di meccanismi ‘nuovi’, in sede critica e nel lavoro letterario (lo scrivere, il testo, prima di tutto): e cioè in vista di una effettiva partecipazione e fruizione comunitaria,allargata, non autoreferenziale e aristocratica, del ‘senso’ più politico di questo (ipotetico) lavoro critico e letterario: la demistificazione dei meccanismi (testuali) che formano la (nuova) ideologia (della destra). Visto poi il risultato elettorale della provincia dell’impero….

    e allora il senso del mio commento a gigliozzi e a inglese era questo: in momenti di transizione o di crisi come l’attuale, si spalancano le porte per una ‘generazione’ intellettuale intera (nessuna autolegittimazione generazionale, ben inteso, parlo di una generazione ‘trasversale’ e polimorfa, anfibia e ‘poliglotta’…).

    si delineano precisi compiti e, con essi, la necessità dello ‘schieramento’: lavorare per (in dialogo con) una scrittura critica, realistica, come si voglia (che demistifichi, mappi l’esistente, lavori ‘di’ archivio, scriva ‘di’ storia, ‘immagini’ per ‘decrittare’, eccetera). E che pratichi nuove forme (comunitarie) di ‘trasmissione’ di questo sapere critico (roberto in altra sede richiamava il ‘teatro-informazione’: giuliano scabia, a ridosso del ’77 a bologna: partecipazione ‘dal basso’, ‘rassegna stampa’ condivisa, laboratori collettivi eccetera: e quindi, infine, scrittura ‘semantica’, referenziale, ‘estroflessa’….). sì: anche pedagogica, didattica (perchè non c’è il lettore e l’autore: scompare la gerarchia, il ‘lavoro’ si fa assieme…)

    oppure indugiare (se mi è permesso) su scritture ‘furiose’ (legittime, da analizzare, da conoscere, eccetera) che (ancora) riflettano, in una genealogia lunga e ifinita (la squadra di calcio di zizzi, gli elenchi: da giordano bruno a parente e colombati ….), lo sprofondamento della parola tra ego autoriali titanici e brandelli di reale stravolti.

    omero, diceva qualcuno, nell’iliade si incaricava (anche) di fornire indicazioni sul catalogo delle navi. su come allestire gli equipaggi, navigare e combattere.

  26. ad esempio.

    perchè no? invadere o ‘allagare’ la ‘nazione’ con queste indicazioni/operazioni (non da bacheca indifferenziata e “generalista”….)

  27. a r.r.
    quando ribadisci l’aternativa, cosi’ come Zizzi e altri l’hanno posta o accettata, solo per rovesciarla di segno (scritture realistiche e demistificanti, bene, scritture “furiose”, male) non ti seguo. Non credo in quest’opposizione. Né credo che si possa assegnare a priori “bontà politica” ad un tipo di scrittura piuttosto che ad un’altra. Non credo che si possa attribuire tout court “bontà politica” ad un’opera letteraria.

    Ma ci sono situazioni in cui degli autori sentono più urgente l’esigenza di scrivere saggi, fare interventi didattici, o critici, o di usare forme di scrittura più cronachistica o documentaristica, insomma scelgono forme di scrittura in cui più urgente si fa il bisogno di comunicazione e di denuncia. Mi sento anch’io tra questi, per quel poco che riesco a fare ad esempio su NI.
    Ma nella scrittura poetica vera e propria è un altro discorso. Non saprei dire, a priori, che cosa fa la “bontà politica” di una poesia. Né son neppure se bisogna pretendere bontà politica da una poesia.

  28. a inglese:

    ‘una poesia può essere politica, anche se parla di una rosa: se la si utlizza non per consegnarla ad una ragazza ma per essere deposta sulla tomba di un guerriero caduto’.

    nel paradosso, la verità.

    ma sempre che (anche) dalla poesia ci si voglia aspettare (anche) l’utopia, o la demistificazione dell’esistente (la politica)…

    e cioè (anche) la scrittura propriamente poetica, mi pare, può essere ‘politica’ nella misura del suo lavoro sul linguaggio e sul reale: e qui cade in taglio di dire, restando all’oggi, che lo sperimentalismo dell’ultimo Buffoni di ‘Guerra’, ad esempio, è secondo me una forma possibile di sperimentalismo realistico (politico) in poesia: e da qui una linea, una tradizione a cui richiamarsi (in italia e in europa, nel mondo), non da snocciolare come un rosario privato, ma da indagare assorbire ampliare problematizzare: certamente una linea verso cui propendere e schierarsi, a scapito di altre (linee): la battaglia dI canonI…

    ‘se la si utlizza non per consegnarla ad una ragazza ma per essere deposta sulla tomba di un guerriero caduto’:

    una volta ‘schierato’, il lavoro critico potrebbe agire per una poesia (un’idea di letteratura) ‘politica’, allo stesso modo, se si fosse capaci di sfuggire alle logiche di ‘schieramento’ tradizionali (giornali e accademia, recensioni e uffici stampa, amici e nemici, eccetera eccetera).

    se si mettessero in pratica per la poesia e per la letteratura (per il loro ‘consumo’ e per la loro ‘circolazione’), per il lavoro critico, nuovi meccanismi di diffusione e di trasmissione di saperi. partecipati.

    ma questo è un (altro) discorso immenso.

    resta il nodo di un nuovo modo di ‘schierarsi’…

  29. @db
    @r.r.
    @inglese

    “dove sono le mie legioni?”

    La Casa della Integrazioni è possibile, com’è successo a Milano. Semplicemente questa notizia non dovrebbe limitarsi ad apparire sulla Bacheca della Nazione ma aprire l’edizione del TG5 di stasera.
    Questo è il discorso sull’egemonia.
    http://www.sitart.org/CONTACT/ilCairo.htm

    Fabio, in questi giorni hai offerto tre elementi preziosi per “infinire” il romanzo politico di domani:
    1) la sperimentazione di nuovi meccanismi critici e letterari, cioè “il realismo visionario”, narrativo, poetico;
    2) la creazione di una comunità allargata portatrice di un sapere libero e demistificato;
    3) scrittori itineranti, omerici, che praticano il teatro-informazione come esplorazione della realtà.

    Il pezzo di Liguori sull’“Unità” inquadra bene la questione, ma a mio parere non offre molte alternative, che non siano di nuovo quelle della sinistra ‘istituzionale’.
    “L’egemonia di una visione della società come mercato e di uno stato ridotto al minimo (senza tasse e quindi senza servizi)”, sono cose di destra che conosciamo già e che il nostro Liguori non prova neppure a immaginare diversamente (in linea con le critiche di Fassino allo “stato leggero”). Ma l’errore più grave a mio parere è imputare a Mediaset e alla “rivoluzione culturale” del sistema televisivo italiano la colpa del rimbambimento collettivo, come se le Letterine rappresentassero davvero dei modelli per le ragazzine della III C, che invece sono molto più avvertite di quello che si dice in giro, e lo sanno di avere davanti (al massimo) un destino da Letteronza.

    Insomma non sono queste le battaglie culturali della destra che stanno trasformando il paese.
    Non basta dire che la “destra gramsciana” (brrr…) è impegnata “a riscrivere la storia in modo unilaterale” se poi è sempre colpa della tv.
    Le battaglie della destra sono altre, chiamano in causa il cuore e lo stomaco, non il cervello degli italiani. Sono i discorsi sui nostri Veterani all’estero, su Dio e sulle scimmie, sugli uomini che vollero farsi Dei.
    I discorsi sulla Nuova Atlantide che promuoverà la pace e lo sviluppo nei paesi islamici e nel resto della Pangea. Dobbiamo partire da qui per smontarle e rimontarle una alla volta. Il lavoro critico “si fa assieme”.

  30. @ roberto

    Fino a quando l’ideologia di destra – che appartiene anche a molti settori della “sinistra – avrà una capacità di penetrazione nelle case come la rete del gas, la partita è persa in partenza. Fino a quando l’ideologia di destra avrà in mano la quasi totalità dei mezzi di comunicazione e informazione, le grandi case editrici, la rete commerciale, non c’è possibilità di confronto paritario.

    Oggi più che mai il primo dovere “rivoluzionario” è quello di espropriare il potere economico a questi potentati, usando le loro stesse tecniche imprenditoriali e commerciali. Non basta aver messo da parte Berlusconi, consegnando il paese in mano a una destra più “morbida”, ma altrettanto determinata, che ha dalla sua le armate sindacaliste per addomesticare il suo elettorato. Bisogna costruire nel paese una rete, altrettanto efficace e penetrante, che potremmo definire “controcapitalistica”. In grado di creare un reale contro-potere economico con precisi obiettivi di trasformazione sociale. L’ideologia blairiana del welfare non serve a nulla se poi si è inculcato nella testa della gente che darwin ha detto tutte stronzate, che la scienza deve sottostare alla fede e che le differenze sociali ed economiche sono “naturali”.

    Senza queste condizioni iniziali la critica sociale, fatta anche attraverso la letteratura, ha le stesse possibilità di penetrazione di un libro non distribuito nelle librerie.

  31. in fiera del libro parlavo con un editore che sta facendo attualmente un egregio lavoro con la sua casa editrice. mi diceva che l’idea che si possa restringere la letteratura a un solo punto di vista, a un solo “la letteratura DEV’essere così” gli crea non pochi problemi. diceva che trova ancora più ridicolo che rappresentanti di diversi “credo” letterari si azzuffino volendo “imporre” la bontà del loro punto di vista sulla letteratura. e se avesse ragione?

  32. Rileggendo quanto emerso fin qui, m’è venuto spontaneo recuperare una formula usata tempo fa da Sanguineti: REALISMO ALLEGORICO. Realismo non come “riflesso” o ricalco del reale (non quello di Lukàcs, per intenderci, piuttosto quello di Brecht-Benjamin): realismo come consapevolezza della propria presenza nella realtà del tempo. E allegoria come rifiuto della cronaca; se parlo di Calibano non penso allo schiavo anagrafico, fatto apparire sulla pagina come “io”, ma ad una maschera della schiavitù; allegoria dunque al di là di ogni “interventismo” nell’immediato, al di là di ogni “denuncia” spicciola o pedagogica (per questo c’è la piazza, c’è l’assemblea, c’è la scrittura “di servizio”, volantino o pamphlet o intervento polemico); allegoria infine come deragliamento del senso, sempre costretto ad enuclearsi tra la chiarità dei costrutti e le défaillances, dunque lavoro sul linguaggio come critica e come progetto di senso ulteriore: al di là di ogni pretesa “autonomia” (è del resto impossibile pensare l’arte “in quanto qualcosa di separato dalla vita concreta degli uomini”) e di ogni “linearità” consolante. Come per mostrare, raccontando, l’impossibilità di un racconto preciso:

    «Non si possono più intra-
    prendere viaggi, né sono pra-
    ticabili percorsi di conoscenza (…)»

    «muto il mondo tra-
    nsita bruciando, (…)».

    «eppure talvolta accade che tra
    questi muti volti dell’obbedienza
    capiti uno che insorga e stra-
    volga ogni senso della sua stessa esistenza
    e di quella generale, civile, che tra-
    passa ogni singola coscienza».

    (P. Volponi, Nel silenzio campale, 1990)

    ng

  33. scrive nevio:
    “allegoria dunque al di là di ogni “interventismo” nell’immediato, al di là di ogni “denuncia” spicciola o pedagogica (per questo c’è la piazza, c’è l’assemblea, c’è la scrittura “di servizio”, volantino o pamphlet o intervento polemico)”…
    Anch’io la penso cosi.

  34. @inglese

    Buono a sapersi.

    Ma dove sono in questi scambi, in questi commenti, ‘l’interventismo nell’immediato, la “denuncia” spicciola o pedagogica (…) le piazze, le assemblee, le scritture “di servizio”, i volantini o i pamphlet o gli interventi polemici”…’ ?

    Aleggiavano, questi terribili o orrorifici limiti che offuscherebbero un discorso critico degno di questo nome?

    Non mi sembra si stesse parlando di questo quando ci si riferiva alla dimensione lato senso ‘realistica’ (allegorica) di una linea e di una tradizione (magari già esistente o) potenziale, e italiana, narrativa e poetica.

    (a proposito: a commento del racconto su paris hilton, intermittenti ma stimolanti riflessioni sulla possibilità dell’epica in italia, sulla influenza dei modelli americani per le nostre narrazioni ‘forti’, sulle possibili morfologie di un ‘romanzo italiano’ : segno che l’interrogazione sulle forme – sulle linee, sulle tradizioni – è presente, presente).

    Insomma, mi sembra che siamo d’accordo sul concetto di un’idea di letteratura realistico/allegorica/comunitaria.

    Questo nella pluralità delle genealogie, dei riferimenti, delle tradizioni: insisto sulla poesia, con elauard intervistato da fortini: “la poesia non è una specie di ritmo sacro”…:

    ma questo involgerebbe tutto un discorso a difesa di una tesi realistica ‘forte’: per schematizzare: nessuna claritas razionale o illumistica (che se mai si tramuterebbe in manierismo); e soprattutto, come invece aleggia dal tuo commento, nessuna tradizione realistica (pre)moderna (da lukacs a brecht), impraticabile ‘dentro’ il nostro tempo; e poi nessuna distorta utopia della letteratura-volantino. questo mi sembrava chiaro…

    Ma si cercava, mi pare, anche con l’intervento di cristoforo prodan, di estendere un po’ il discorso, spingerlo verso l’analisi e la discussione dei meccanismi che presiedono ai ‘campi intellettuali’ odierni, al ‘campo del potere’.

    E quindi, in fondo, come in un volantino, si parlava della necessità di analizzare (di mettere in discussione) anche le dinamiche del (mio, nostro, vostro, tuo) lavoro critico: lo schierarsi, eccetera. Buon lavoro, fabio

  35. fabio
    “E quindi, in fondo, come in un volantino, si parlava della necessità di analizzare (di mettere in discussione) anche le dinamiche del (mio, nostro, vostro, tuo) lavoro critico: lo schierarsi, eccetera.”

    Questa analisi è la più dura da fare. La più ambiziosa. E’ difficile farla da soli. Bisognerebbe passare in rassegna case editrici, editors, direttori di collana, critici giornalisti, scrittori giornalistici, divulgatori televisivi, scuole di scrittura, festival di poesia, ecc. E vagliare di volta in volta il discorso implicito ed esplicito, i fatti e le parole, ecc.
    La Carla Benedetti ha fatto un lavoro di questo tipo, circoscrivendo la sua attenzione a certe situazioni e a certi ambienti nel “Tradimento dei critici”.
    In Nazioneindiana, ad esempio, si è tentato di farla in modo sistematico a partire da un pezzo di Antonio Moresco intitolato “La restaurazione”. A parte le divergenze che si sono create, nel seno stesso di NI, il risultato complessivo della discussione rimase ancorato a petizioni di principio, piuttosto che alle cosidette analisi. Anche se è stato uno dei pochi tentativi che sono stati fatti in questo senso.

    Che cosa rim

  36. @cristoforo prodan
    @melpunk
    @r.r.
    @andrea inglese
    @n.g.

    “costruire la rete”

    In tema di “riforma” dell’islam, disegni intelligenti, capitalismo cristiano, andrei con i piedi di piombo. Non sono convinto che “la capacità di penetrazione” dei nostri controdiscorsi sia completamente “nulla”.
    Quando faccio lezione gli studenti hanno la coscienza a posto. La truffa dell’esportazione della democrazia li rende vigili. Si accorgono che qualcosa non torna nei sogni wilsoniani di liberazione dell’Iraq.
    Le azioni di “teatro/informazione” che abbiamo in mente dovrebbero avere proprio questo scopo, far esplodere le contraddizioni latenti dell’idealismo democratico e conservatore.
    E’ vero che il Network è imprendibile, almeno per il momento. Ma la partita non è persa, è solo rimandata. Come dice giustamente Prodan, dobbiamo “usare le loro stesse tecniche imprenditoriali e commerciali”.
    La Nazione dovrebbe espandersi, diventare più autorevole, trovare lungimiranti sostenitori pubblici e privati che la proiettino nel reame trasparente dell’Informazione. Lo è già, a modo suo, ma si potrebbero “vendere” meglio le nostre idee sul mercato culturale e della politica. Vuol dire riprendersi l’agenda del dibattito, fissare i temi del giorno della discussione parlamentare. Capovolgere le premesse, rubare le parole d’ordine, cambiare il finale. Ma questo l’editore della Fiera del libro non lo sa, pensa ai cazzi suoi.

  37. Reinventare il sistema dell’industria culturale è un assalto al cielo. La struttura è granitica, ricca, sostenuta da gruppi di potere e da un “think tank” molto ideologizzato.

    Uno di questi personaggi chiave mi sembra Romano Montroni. Recentemente è uscito per Laterza un suo testo che, me lo consenta l’autore, potrei definire il suo “Mein Kampf”. Si intitola “Vendere l’anima / Il mestiere del libraio”. Confesso, l’ho appena sfogliato, e mi riprometto di farne un’accurata analisi e recensione presto.

    Per chi non lo sapesse Romano Montroni è stato, dagli anni ’60 al 2000, direttore delle Librerie Feltrinelli ed è docente, fra le altre cose, nel Master in Editoria “cartacea e multimediale” di Umberto Eco. Da luglio 2005 collabora con le Coop per il progetto di una catena di librerie delle Coop (non è chiaro se all’interno di supermercati e ipermercati, oppure in strutture separate). In poche parole, l’ideologo della “libreria-supermercato” in Italia e, forse, presto, anche della “libreria nel supermercato”.
    Appena ho cominciato ha sfogliare il libro del noto – e, da alcuni bene informati, abbastanza discusso – personaggio, mi imbatto in certi elementi che probabilmente sintetizzano bene una certa ideologia alla “dottor stranamore” che ha fatto cultura in Italia negli ultimi quarant’anni. In breve:

    1) La dedica (le dediche sono sempre significative) inizia così: «A Giangiacomo Feltrinelli, che mi ha trasmesso la creatività e la passione indispensabili per svolgere bene il mio mestiere, e a tutti i librai…»;

    2) La prefazione di Umberto Eco (le prefazioni sono sempre significative, non tanto per il contenuto ma per il nome di chi le fa [e Eco se la batte bene con Veltroni a scrivere prefazioni; fra poco troveremo le loro prefazioni anche sui pacchetti delle sigarette]). Inizia così: «Leggere Romano Montroni che parla del mestiere del libraio è un po’ come leggere Dante che spiega come scrivere un poema in tre cantiche, Cellini che parla del mestiere dell’orafo, o – per essere più modesti – Landru che racconta come si uccide una moglie. Voglio dire, si tratta di godere dell’esperienza di chi un certo mestiere lo sa fare e l’ha fatto meglio di tutti. …»;

    3) A p. 58, in fondo alla pagina, una piantina di un’ipotetica libreria con una linea nera con frecce che segna un percorso abbastanza arzigogolato (dà un po’ l’idea di quei labirinti da risolvere sulle riviste di enigmistica) e con la didascalia della figura che recita «Percorso dello spolverare» (che mi sembra un ottimo titolo per un romanzo). La pagina inizia con una frase che è degna di “Arbeit Macht Frei” e che dovrebbe essere posta sulla porta di ogni libreria (citando la fonte ovviamente): «Si spolvera al mattino, durante la prima mezz’ora di apertura, dall’alto verso il basso, seguendo il senso orario.» Io avrei dato alla frase una struttura di endecasillabo. Ma tant’è…

    Un paio di osservazioni (ma, ripeto, mi riprometto di analizzare meglio il libro):

    a) Il valoroso compagno Giangiacomo Feltrinelli – militante dei Gruppi d’Azione Partigiana, caduto in combattimento sotto un traliccio dell’alta tensione di Segrate – evidentemente si è sacrificato invano. Anche solo citarlo in una dedica di un siffatto libro, mi sembra di cattivo gusto. Con tutto il rispetto per i rapporti interpersonali che l’autore ha avuto col compagno Feltrinelli.

    b) Mi sembra che Montroni faccia di banalità scienza. Del tipo: “Ruotando di 180° il rubinetto con il bollino rosso, esce l’acqua calda.” Forse il “mestiere del libraio” è qualcosa di diverso.

    c) C’è poi l’ideologia, quella pesante, piena di contraddizioni, che merita una critica più radicale e approfondita. Il sistema delle libreire supermercato, con tutte le cosenguenze che ha avuto in termini di sfruttamento del lavoro e di appiattimento delle professionalità, è veramente il sistema migliore per la diffusione libraria? La libreria è l’ultimo anello della catena di un’industria culturale che agisce direttamente nella società. Imporre un modello, qualsiasi esso sia, implica delle scelte che hanno un carattere eminentemente politico e che influenzano direttamente la diffusione della cultura nella società.

    La critica al sistema e agli ideologi dell’industria culturale deve essere fatta con precisione e attenzione, evidenziando le scelte personali, gli indirizzi politici e le contraddizioni. Questo è il punto da cui partire. Gli intellettuali e tutti gli operatori della cultura non possono lasciare in mano ai diligenti mercanti senza scrupoli la struttura economica e commerciale che è il presupposto per la libera circolazione delle idee. Né possono sperare che una risata li seppellirà.

  38. Ottimo Prodan. Quando ne farai una recensione, avvertici. Che la metteremmo volentieri in NI. Librerie Feltrinelli: il male, nella sua versione apparentemente “nobile” e magari “militante”.

    a roberto:
    “La Nazione dovrebbe espandersi, (…) Vuol dire riprendersi l’agenda del dibattito, fissare i temi del giorno della discussione parlamentare”
    Anche Nazioneindiana, nonostante le buone intenzioni, spesso è inevitabilmente riuscchiata verso l’attualità editoriale. Ma il suo intento più alto sta in quanto tu dici. “Fissare i temi del giorno”, sciogliendo ogni dipendenza dalle pagine culturali=portavoce delle novità editoriali. In questo, è debole. Chi le dà credito, sul fronte del “cosidetto” dibattito culturale? (E non è questione di vendere meglio… è questione che certe cose nessuno le vuole comprare…) D’altra parte questa debolezza, che è di tanti altri luoghi in rete, e di riviste militanti, le permette anche movimenti liberi, che sono impensabili per il giornalismo culturale.

  39. andrea

    “movimenti liberi, che sono impensabili per il giornalismo culturale”.

    a questo livello, una proposta (un esempio). ricordiamoci un po’ dell’attività delle riviste (‘letterarie’) tra ’60 e ’70. e dei ‘sondaggi’ che attivavano non solo tra critici ma anche e soprattutto tra gli stessi autori. ricordo una ‘inchiesta’ storica targata ‘nuovi argomenti’ (sic): 7 domande su letteratura e neocapitalismo. seconda metà ’60. ‘autorevoli’ gli intervistati, ma anche e per fortuna poligenetici, singole individualità e non solo raggruppamenti.

    ecco, la nazione e lo ‘slancio’ auspicato da roberto. tessere una trama, una rete nella rete: a puntate, ma in continuità, riconoscibile, cercare il dialogo comune: per chi scrivi? che rapporto con l’industria della cultura, con il ‘pubblico’; con il locale e con la nazione (e l’europa il mondo); con la/e tradizioni;metodi, ‘itinerari’; linguaggi sperimentati; idea, o meno, di ‘cambiamento’ (o demistificazione) degli istituti correnti della cultura e del linguaggio stesso, dell’ideologia (prodan) ecc….

    e a questo punto, hai ragione tu, la mappatura dovrebbe essere tendenzialmente capillare, aperta, ampia per poi chiudere e restringere… (contando anche, perchè no, sui cittadini più ‘stanziali’ della nazione: non solo il gruppo redazionale ma tash prodan giovenale ecc).

    solo un’idea, f.

  40. @n.g.
    @andrea inglese
    @r.r.
    @cristoforo prodan

    “usare le loro stesse tecniche”
    “muto il mondo transita bruciando”
    “linguaggio come progetto di senso”

    Quando dico “dettare l’agenda della politica” non credo a un intervento diretto in piazza o in parlamento. Ne ho abbastanza di manifestazioni al cloroformio come il Concertone del Primo Maggio, di contestazioni inaspettate quanto una puntata di Porta a Porta.

    Penso all’AEI, con i suoi report giornalieri di politica interna/estera spediti ai membri del Congresso. Una cartella introduttiva + 10 di approfondimento. Immagino pagate profumatamente. Così si dettano le battaglie culturali.
    SOSTIENI>la>NAZIONE.it

    Un esempio di “furto di parole d’ordine”. Quel moschettiere di Giannini dice che a Berlusconi è bastato agitare lo spettro della jaquerie fiscale per costringere D’Alema a fare un passo indietro sulla presidenza della repubblica. Allora che proposta facciamo circolare tra i banchi parlamentari? “Pagherete meno, pagherete tutto”.

    “Vogliamo tagliare e ridistribuire le pensioni elargite allegramente alla fine del secolo scorso. Inizieremo dai manager delle nazionali e delle multinazionali. Passeremo ai dipendenti pubblici e agli amministratori statali. A quelli che si godono la pensione giocando a golf nei campi bolognesi aperti da Cofferati. Con i tagli finanzieremo la formazione collettiva e offriremo maggiori opportunità nel mercato del lavoro”. (Discorso alle Primarie del Partito Democratico, 2012)

  41. @cristoforo prodan

    “assalto al cielo”

    Rispetto per la Morte dell’Editore, disprezzo per la polvere dei librai. Ma non servono le spese proletarie per boicottare il Network editoriale. Basta andare in biblioteca (le rete delle biblioteche di quartiere romane è una miniera, visitatele). Credo che se Montrone girasse un paio di giorni sulle bancarelle di Porta Portese andrebbe nel pallone.
    BIBLIOTECAdellaNAZIONE.it

    Le Feltrinelli a tre piani, la tentacolare Mondadori, i trust di marchi editoriali. Da un certo punto di vista, servono. Se gli italiani non riusciranno a creare Fortezze dentro il Network, catene di librerie-supermercato/gruppi editoriali sempre più “partecipati” e multimediali, finiremo assorbiti dai paesi “culturalmente” più avanzati. Penso ad Amazon, a Fnac, ma anche alle aggressive letterature postcoloniali, ai manga giapponesi, alle scrittrici indiane e ai sudamericani, eccetera.

    Il discorso “interculturale”, in questo caso, si riduce a una semplice competizione tra prodotti: il venti per cento di sconto sull’ultimo libro di Isabel Allende, va bene, ma quando ristamperemo “Fabrizio Lupo” per il circuito dei reminders?

    Il teatro-informazione è cosa tutta diversa, è una cosa che monta su come un’onda, una cosa dal basso.

    Credo che se il vecchio Feltrinelli oggi fosse stato a capo del suo piccolo “regno familiare” si sarebbe ri-messo i guanti. Puoi far saltare cento, mille, tralicci se hai una politica culturale esplosiva, un progetto editoriale determinato (ng: “lavoro sul linguaggio come critica e come progetto di senso ulteriore”). Il cielo è nella stanza (dei bottoni).

  42. @andrea inglese * (mi mandi “la restaurazione?”)
    @r.r.
    @n.g.

    “la scrittura non è una specie di ritmo sacro”

    A me quando stavo a scuola i volantini piacevano, li leggevo al bar, prima di entrare in classe, guardavo le pagine colorate dei ciclostili, stampate all’alba per essere distribuite all’entrata, era divertente, era rilassante, era meglio di latino e greco, ma poi i volantini sono scomparsi, è sparito tutto all’improvviso, e non si trattava solo di “intervenire” o di “denunciare”, era una cosa più vitale, era tutto da ridere, non come adesso, adesso sì che è grave.
    Più che di utopia parlerei di distopia, più che di letteratura-volantino si tratta di letteratura-locandina. Penso ai manifesti dei concerti che mischiano il diavolo alla new age e fanno saltare i nervi a Massimo Introvigne***. Provare a scrivere così non costa niente. La scrittura non è una specie di ritmo sacro. Interviene con durezza nel dibattito politico. Le kermesse dei surrealisti erano piene di “parole d’ordine”, hanno influenzato il marketing politico di un intero secolo.
    Caro andrea, lo so che la Nazione offre “scarti”, movimenti liberi, come li chiami tu, impensabili nel giornalismo culturale standard. Ma prima di “vendere” dovremmo immaginare cosa “compreranno” i nostri lettori. Quali servizi offrirà il nostro “abbonamento”. Se ti interessa ne discuteremo, ma con un bel paio di occhiali “realistici” e “visionari”. Infatti il Partito Democratico è un’allegoria. L’ho già detto a prodan.
    http://www.SOSTIENI>la>NAZIONE.it
    *** Se a qualcuno interessa, conservo un ritratto del manager religioso più celebrato dai siti di vampirismo italiani. Lo sapete cos’è il CESNUR?

  43. A Cristoforo Prodan:
    https://www.nazioneindiana.com/2006/05/03/tentativo-di-mediazione-attraverso-l%e2%80%99analisi-e-la-discussione-dei-punti-di-vista-espressi-in-modo-virulento-nella-polemica-recente-comparsa-su-nazione-indiana-tra-michelangelo-zizzi-e-christia/#comment-28153
    Sono curioso di leggere la tua recensione al libro di Romano Montroni, ma non concordo sul taglio decisamente negativo che proponi. L’autore sembra un dirigente che ha portato i concetti della GDO nel mondo librario
    http://it.wikipedia.org/wiki/Grande_distribuzione_organizzata
    in modo trasparente, con tutto il codazzo di taylorismo, gestione meschina delle risorse umane, ma anche di crescita d’impresa. Tra le righe del blog Effelunga traspare come Montroni sia umanamente detestabile, ma anche che il gruppo è passato da 300 a 1200 dipendenti in una decina di anni.

    Gli intellettuali e tutti gli operatori della cultura non possono lasciare in mano ai diligenti mercanti senza scrupoli la struttura economica e commerciale che è il presupposto per la libera circolazione delle idee.

    Credo che gli intellettuali debbano farsi un po’ imprenditori, cercando vie alternative perché le idee circolino anzitutto veramente, e lo facciano in modo sostenibile economicamente. Significa fare l’editore (per esempio) in modo diverso, ridiscutere concetto e tempi del libro (contro altre forme di pubblicazione), ripensare come misurare gli obiettivi per chi scrive (copie vendute? lettori reali? riscontri, citazioni, convegni? una cifra X di profitti?).
    Io credo che gli strumenti per sperimentare ci siano, e nemmeno tato nuovi e rischiosi. Tanto che penso che molti piccolissimi editori stiano già percorrendo queste strade. Nazione Indiana in questo senso può essere un incubatore, almeno nel senso intellettuale e non economico (ahimè) del termine.

    Roberto: se hai del materiale originale sul CESNUR mi interessa (email di NI). Sai che ha organizzato un corso di aggiornamento su “islam e estremismo terrorista” per la polizia locale milanese? Un corso a tesi, senza spazio per la comprensione e il dialogo pare.

  44. @jan
    @prodan

    Caro jan, ti ho appena spedito la mail introvignesca.
    Quello che dici su imprenditoria libraria e piccoli editori mi sembra condivisibile. Ma se parliamo di Feltrinelli si dovrebbe fare un discorso un po’ più specifico, e in questo senso credo che prodan non abbia tutti i torti. Il decollo c’è stato, è vero, le Fortezze Feltrinelli sono diventati dei presidi culturali in tutte le grandi città italiane. Ma le hai sentite le ultime rivendicazioni sindacali della Base, no? A questo devo aggiungere una sorta di atteggiamento di “chiusura” di Feltrinelli verso l’esterno. Se visiti il sito della casa editrice ti accorgerai che ci sono poche possibilità per gli autori esordienti, e che le selezioni per eventuali assunzioni sono chiuse (credo da qualche anno).
    Per questo funziona la piccola editoria: c’è più ricambio, più familiarità, un filo diretto con la redazione, insomma hai la sensazione di essere ascoltato (come lettore, come autore, come dipendente, etc…).
    Succede anche altrove, ovviamente: quando compri un libro su Amazon sei fidelizzato, iniziano a corteggiarti, ti informano sulle novità. Non sei solo un cliente, o almeno loro cercano di non farti sentire tale.
    Se le Fortezze Feltrinelli non si apriranno a questo tipo di mercato fortemente individualizzante, e in grado di adattarsi al profilo dell’utente, saranno guai.

  45. oddio. è il terzo che scrivo questa serata.
    mi starò ammalando. ho letto qui che si è parlato di poesia. santo cielo.
    non va bene la poesia autoreferenziale.
    questa mania di esigere si sponsorizzi altro e non il parlare di se.
    abbasso l’autoreferenzialismo, no? perchè questo è il senso, alla fine.
    almeno la poesia lasciatela a chi la soffre. a chi non ci dorme.
    a chi ci “scopa” assieme
    dylan thomas tra una poesia e l’altra: ruttava. moriva. e altro.
    un ottimo esercizio fisicamente politico, no?
    beh, lo faccia di tanto in tanto anche chi vuole connotare la poesia dentro perimetri sociali. è come castrare un leone. e come addomesticare un’aquila. si, si. si può fare ma dopo si avrà urgenza di andare a recuperare i genitali mancati perchè castra qui castra là, rimarrà tutto fermo come un lunapark senza bambini.
    e cavolo. quanti paroloni per consacrare il supermercato al posto del piccolo negozio di fiducia.
    che tristezza.

    ” Come potrà il mio animale” di Dylan Thomas

    Come potrà il mio animale,
    La cui magica forma rintraccio nel cranio cavernoso,
    Vaso d’ascessi e guscio d’esultanza, sopportare
    D’essere seppellito sotto un muro di sillabe,
    Il velo invocato funereo intorno al volto,
    Lui che dovrebbe infuriarsi,
    Ubbriaco come lumaca di vigna, flagellato come polpo,
    Che dovrebbe ruggire, andar carponi, lottare
    Coi venti e con la pioggia,
    Il cerchio naturale dei cieli rivelati
    Abbassare all’altezza dei suoi occhi streganti?

    Come potrà calamitare
    Verso lo stallone, in una curva notturna vampa che fonda
    Lo zoccolo della testa leonina e il ferro di cavallo del cuore,
    Una terra selvaggia nel fresco culmine dei giorni campagnoli,
    Per trottare sui letti di fieno d’un miglio con una compagna
    [sonora,
    Per amare, e penare, e uccidere
    In un rapido, dolce, feroce chiarore, finché il suolo sprangato
    Germogli, il nero mare spalancato gioisca,
    Le budella si ribaltino e la branca
    Delle vene artigliate sprema da ogni rossa molecola
    La voce riarsa e furibonda?

    Pescatori di tritoni avanzano lenti e arpeggiano
    Sul solito flutto, lanciando il loro magico spillo ricurvo
    Innescato d’aurea mollica; io con una viva matassa,
    Lingua e orecchio nel filo, pesco nell’animale, chiusa da riccioli
    E tempie, acquea caverna d’incantesimi e d’osso,
    Rintraccio un tentacolo con un occhio
    Spalancato per amo, nella tazza d’alghe e ferite,
    Per stringere a terra la mia furia
    E sbattere giù il suo gran sangue;
    Nessuna bestia dovrà nascere a segnar sull’atlante i pochi mari
    O a soppesare la luce sopra un corno.

    Sospira a lungo, fredda creta, giaci recisa, lanciata
    In alto, tramortita sul sasso; furtive forbici affilate nel gelo
    Scattano nel boschetto della forza, l’amore sbozzato nei pilastri
    Crolla con santo, sole e uccello scolpiti, la vergine bocca
    [spinata d’alghe morte
    Sfronda, rovo piumato di fiamme, l’enfasi dell’occhio furente,
    Taglia netto il gestire del fiato.
    Muori con rosse penne quando il volo del cielo è troncato,
    E rotola con la terra abbattuta:
    Arida giaci, riposa depredata, mia bestia.
    Hai sgroppato dal fondo d’una buia spelonca, sussultato al nitrito della luce
    E scavato la tua fossa nel mio petto.

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andrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (milano, crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (roma, pieraldo, 2003), luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori (salerno, oèdipus – collana liquid, 2007), AAVV, prosa in prosa (firenze, le lettere, 2009), AAVV, la fisica delle cose. dieci riscritture da lucrezio (roma, giulio perrone editore, 2010), i cani dello chott el-jerid (milano, arcipelago, 2010), lettere nere (milano, effigie, 2013), le avventure dell'allegro leprotto e altre storie inospitali (osimo - an, arcipelago itaca, 2017) e o!h (pavia, blonk, 2020). è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato le antologie chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001) e contemporary italian poetry (freeverse editions, 2013). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004) e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005), «exit» (2005) e "nioques" (2015); altre, in traduzioni inglese, in "the new review of literature" (vol. 5 no. 2 / spring 2008), "aufgabe" (no. 7, 2008), poetry international, free verse e la rubrica "in translation" della rivista "brooklyn rail". in volume ha tradotto joe ross, strati (con marco giovenale, la camera verde, 2007), ryoko sekiguchi, apparizione (la camera verde, 2009), giuliano mesa (con eric suchere, action poetique, 2010), stephen rodefer, dormendo con la luce accesa (nazione indiana / murene, 2010) e charles reznikoff, olocausto (benway series, 2014). in rivista ha tradotto, tra gli altri, yoshioka minoru, gherasim luca, liliane giraudon, valere novarina, danielle collobert, nanni balestrini, kathleen fraser, robert lax, peter gizzi, bob perelman, antoine volodine, franco fortini e murasaki shikibu.
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