Andrea Raosandrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (milano, crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (roma, pieraldo, 2003), luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori (salerno, oèdipus – collana liquid, 2007), AAVV, prosa in prosa (firenze, le lettere, 2009), AAVV, la fisica delle cose. dieci riscritture da lucrezio (roma, giulio perrone editore, 2010), i cani dello chott el-jerid (milano, arcipelago, 2010), lettere nere (milano, effigie, 2013), le avventure dell'allegro leprotto e altre storie inospitali (osimo - an, arcipelago itaca, 2017) e o!h (pavia, blonk, 2020). è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato le antologie chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001) e contemporary italian poetry (freeverse editions, 2013). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004) e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005), «exit» (2005) e "nioques" (2015); altre, in traduzioni inglese, in "the new review of literature" (vol. 5 no. 2 / spring 2008), "aufgabe" (no. 7, 2008), poetry international, free verse e la rubrica "in translation" della rivista "brooklyn rail". in volume ha tradotto joe ross, strati (con marco giovenale, la camera verde, 2007), ryoko sekiguchi, apparizione (la camera verde, 2009), giuliano mesa (con eric suchere, action poetique, 2010), stephen rodefer, dormendo con la luce accesa (nazione indiana / murene, 2010) e charles reznikoff, olocausto (benway series, 2014). in rivista ha tradotto, tra gli altri, yoshioka minoru, gherasim luca, liliane giraudon, valere novarina, danielle collobert, nanni balestrini, kathleen fraser, robert lax, peter gizzi, bob perelman, antoine volodine, franco fortini e murasaki shikibu.
chiusa Magnifica
b!
Nunzio Festa
Getto via tempo se per me mi fingo
una mano che consoli.
Mai unguento consolerà il mio corpo.
*e ci saprà d’antibiotico l’eterno torto
in un tutt’uno di sterile condizionale,
mendichi in forza dove il mondo duce eco
al contributo dell’imperare a sé
Guardo il mondo e
le sue vaghe ipocrisie su
del vivere essenziali fondamenti,
*mordi e passati la luce tra i denti
bella è la parete, così bianca,
che anche il freddo che balbetta
concilia il gioco del transfert,
guardo la pioggia sul lago imprevista
da un angolo di caldo e di condensa,
chissà quand’è che arriverà il mio lampo
*muta piana è l’ora che precede il lampo
il senso supino, calzato da ombre qui
del ripiovere povero, delle già calcolate
introvabili teste nostre
[…]
mi sono permessa.
spero che l’autore non s’adiri troppo.
un saluto
paola
Si scrive perché altri, dopo di noi, possano continuare a scrivere. E si continua a scrivere solo se ciò che è scritto vale, ha in sé valore di traccia e di apertura, sguardo e parola in proiezione.
Se cara polvere ha ritenuto di dover scrivere, a partire dal testo di Raos, ciò dice del valore di quel testo (“epifanico”).
W l’epifania, che tutti le strofe porta via!
Scusa, Melchiorre G.(ioia?), ma quel “tutti le strofe porta via” è una licenza poetica?
Comunque, anche il tuo commento, a volerlo qualificare con un aggettivo, è riconducibile all’area semantica del “fenomenico”: diciamo che è “epafanico”.
Finalmente!
si Cato. più o meno epifania ribaltamento distruzione dei versi originari ma credendo personalmente la p o e s i a mai più del p o e t a una volta scritta, mi sono permessa
perchè mi sono piaciuti i versi, perchè hanno dettato altro dettato, hanno strappato qualcosa.
e se c’è strappo i sensi attaccano, forse meno le facoltà mentali ma a me spesso, giusto o non giusto, bastano i primi e così, scrivo di rimando- mah.
un saluto
Il tuo lampo non arriverà mai.
“Il tuo lampo non arriverà mai”.
Mi permetto di dubitarne.
Grazie a tutti,
Errata corrige: arriverà sempre troppo tardi
Non m’è piaciuta granchè,
perché è pesante di ritmo e non funziona, cioè non gira in modo tale da trasmettermi dentro il senso che, tuttavia, comprendo:
ci andrebbe un colpo di pulizia, una lavata nei termini che spazzi via, pure, quel “mi fingo” leopardiano che dalla prima riga mi tritura.
MarioB.
@ cf05103025
Chi ti dice che la sostanza/senso di quel testo sia da ricercarsi nel “ritmo”?
E se il “senso” (ammesso che sia indispensabile cercarne uno: perché non una pluralità?) fosse racchiuso proprio in quel “mi fingo” che tanto ti “tritura”?
Forse, tra l’altro, al di là dei ritagli e delle frattaglie che propone la premiata “cucina” della scuola italiana, andrebbe considerato anche un ulteriore dato: che i più grandi esiti della poesia europea, dalla metà dell’Ottocento in avanti, sono già tutti prefigurati tra le pagine dello Zibaldone, a iniziare dalla “rivoluzione” simbolista almeno.
E, infatti, questo testo è profondamente, “radicalmente” leopardiano, nel senso più alto del termine. E ti assicuro che, con questa ipotesi, il riferimento al “mi fingo” è quanto di più lontano possa esserci.
:-)
Il tuo lampo è arrivato! Leggi il romanzo “Gli occhi oltre il cielo” e ti troverai in un “Mondo nuovo”, quello dei tuoi sogni.
Fernanda
non ci si può sottrarre alla magnificenza della cadenza dell’endecasillabo che ci hanno spinto col pollice nella testa fin da bambini. Il ritmo c’è. Grazie Andrea. Antonello
O inclito Cato,
tu parlasti in senso lato,
ed io dissi in senso stretto,
e più oltre non mi metto,
tuttavia avrei diletto
di gustar parer del Raos,
che n’è sincero autore,
mi darebbe buon umore
MarioB.
Qualche tempo fa io ebbi un litigio con il Signor Raos che non conoscevo e che ho scoperto poi anche essere un Signor Poeta. Pure orgoglioso come sono, in particolare quando mi veda – o senta, è soggettivo – ferito senza ragione (e non escludo d’aver ferito altri in vita mia, talora, come forse in quel caso, senza volerlo), pure orgoglioso come sono, dicevo, non mi vergogno certo di ammettere il mio dispiacere per allora; non mi vergogno di chinare la testa di fronte a questa poesia (e le altre che proprio in questi giorni vo leggendo ancora del Raos), e anzi di genuflettermi facilmente a terra, giacché la mia altezza è modesta. Insomma, grazie. Cordialmente ecc. ecc.
PS: scrivo da un internet point e in fretta, ma perché, butto là, in Nazione Indiana, non iniziate, magari a settembre (quando egoisticamente potrò rileggervi), una Settimana di Poesia? Una settimana in cui, volenti o no, i Lettori di Nazione Indiana siano costretti a leggere solo poesia? E’ strana questa proposta che mi viene da farvi, giacché troppa poesia e troppi poeti insieme di solito mi nauseano; eppure questa idea m’ispira. Ciao.
Veramente una chiavica.
Andrea, ti sembrerà strano ma tu sei già energia: sei un generatore, un motore, un condensatore antropomorfo. I lampi puoi produrli da te senza aspettare che ti colpiscano su una spiaggetta. «Mi chiamo Dino Edison… sono elettrico» scriveva Dino Campana, poeta anche lui, un po’ perché lo attraversavano con la corrente, un po’ perché la sua poesia rendeva luminoso il dolore.
Un saluto, e su con la vita!
Un abraz da me Ô Andrej
e grazie per questo coup de foudre (eclair)
effeffe
“la pioggia sul lago imprevista
da un angolo di caldo e di condensa” –
è molto bella quest’immagine di ascendenza Sereni Raboni etc. A me i tuoi versi piacciono molto. Complimenti.
@ Addio Alle Arti / a.b. / enricodelea
Se leggete il suo libro “Aspettami, dice”, avrete la conferma piena del vostro giudizio: siamo in presenza di un poeta di grande valore. Il resto è chiacchiera da frustrati.
Be’, sono commosso. Di cuore ri-grazie a tutti, contenti e scontenti.
Trovo perfino coraggioso l’omaggio a Leopardi.
E anche quello ad Amelia Rosselli.
Il riferimento ai maestri (incluso Sereni, certo; e probabilmente anche maestri di altre tradizioni culturali) potrebbe essere letto (anche) come una dichiarazione di poetica.
Sotto il profilo ritmico e sonoro il pezzo mi sembra particolarmente curato e riuscito.
Mi associo a Cato nel consigliare la lettura di “Aspettami, dice”.
Senza offesa, il testo di Raos non mi piace affatto.
Trovo banali e inconsistenti versi come
“Guardo il mondo e
le sue vaghe ipocrisie su
del vivere essenziali fondamenti”.
Tutti sono padroni di esprimere i proipri sentimenti in versi, ma questo non ne decreta lo status di poeta. Quale urgenza c’è dietro ad un testo simile? Dov’è l’energia di cui qualcun parlava?
E meno male che sei Dr. Jekyll e quando diventi Mr Hide che fai?
E chi ti ha detto che l’autore volesse esprimere enegia?
A me pare che qui gli manchi l’aria e che gli resti appena appena il fiato d’un sospiro. E’ pesante, immobile, un macigno pure i referenti, forse per questo gli mancano le caratteristiche torsioni tipiche del suo stile.
Ma anch’io come Emma e Cato consiglio la lettura della raccolta, non si giudica un poeta da un solo testo.
Maria, non preoccuparti, non sono cattivo! Credo però che quando si esprimono dei pareri su un testo bisogna essere sinceri, altrimenti…..Penso anche io che un poeta si debba giudicare dalla sua opera completa. Purtroppo, la lettura di questo sonnolento testo di Raos non mi invoglia affatto ad avventurarmi nei meandri della sua produzione! Dimenticavo, di “energia” parlava il commento di a. b. del 14 agosto, leggilo!
Dr J-Kill sbaglio o avevi detto tu che Raos non è un poeta?
Il commento di a. b. lo avevo già letto e credo che non avesse niente a che fare con il commento del testo in questione e, in ogni caso, la sua, come la mia, potrebbe essere una delle interpretazioni possibili dal momento che l’autore non conferma e non smentisce.
D’un’interpretazione se ne può discutere, di un giudizio estetico pure, del fatto che Raos sia poeta no.
Libero tu di leggerlo o meno, Raos resta poeta e uno dei migliori dell’ultima generazione. Sono convinta anch’io che questo testo non gli renda giustizia ma non dubito affatto delle sue capacità, come dimostra tanto la precedente raccolta, quanto altri inediti apparsi su rivista. Per intenderci, il Raos – poeta che conosco io, somiglia molto al Fermini poco più sopra delle nostre teste, stesso effetto ottico di straniamento, spiazzamento, stessa agghiacciante calma apparente che un solo impercettibile movimento di parola incrina, una poetica di dettagli, sottile e a tratti insospettatamente violenta.
Proprio ieri mi sono accorto di una cosa divertente (almeno per me).
Per postare questa poesia su NI l’ho trascritta a memoria, e al terzo verso mi sono inflitto, senza volerlo, una variante rispetto alla versione a stampa: “mai unguento consolerà il mio corpo” invece di “mai unguento lenirà il mio corpo”. Ebbene, mi sono ricordato che “consolerà” era la lezione della prima stesura, che poi avevo modificato in “lenirà” per ragioni – credo – di ritmo. Inconsapevolmente dunque, e a distanza di anni, sono tornato alla versione originaria.
Voi quale preferite? Ovviamente, la risposta “né l’una né l’altra” è del tutto ammissibile.
*
Per il resto, mi scuso se non mi pronuncio sui giudizî (positivi o negativi), ma non saprei bene cosa dire.
Le notazioni critiche in senso stretto (quali l’identificazione dei richiami a Leopardi, Rosselli, Sereni) sono esatte, e non ho nulla da aggiungere. Tranne forse, se può interessare, che la “nudità” dell’incipit è – nel mio ruminìo interiore – un’eco (non letterale) della “Supplica a mia madre”, forse l’unica poesia di Pasolini che mi “abiti” davvero – peraltro, soprattutto grazie alla raggelante versione di Diamanda Galas (tutt’altro discorso farei per l’autore di Petrolio ed il cineasta).
Quanto ai “giudizî di gusto” (altrettanto fondamentali, sia ben chiaro), quali quelli che riguardano la “forza”, l'”energia” o l'”urgenza” del testo, mi sembra ne riguardino più la ricezione che la produzione. Non credo di avere voce in capitolo, insomma. Tranne forse per confermare, se ce ne fosse bisogno, che a livello di ritmo, di lessico, di “intenzione”, ho scritto esattamente ciò che volevo. Il risultato è poi nelle vostre mani, ed è bene che ci resti.
Per concludere, tengo a ringraziare in modo particolare Maria per il suo ultimo commento: non so se si attagli a quanto scrivo, ma descrive senz’altro – con impressionante precisione – ciò che mi piacerebbe riuscire a scrivere un giorno.
“Consolerà” / “Lenirà”.
(Mi arrampico sugli specchi).
“Consolerà” ribadisce e rafforza il “consoli” del secondo verso.
La ripetizione – che in altri contesti è giudicata negativamente – in poesia non è affatto un limite, semmai è uno strumento specifico del discorso e della retorica poetici.
Il “con” sembra inoltre avere (illusoriamente o no non importa) un rilievo semantico forte: molti i possibili rinvii, da coppia a comunità, da compagno a conforto.
“Lenirà” introduce sonorità più raffinate. Il ritmo (l’endecasillabo) ne trae vantaggio.
La “i” della sillaba in mezzo sembra poi avere una forza particolare, rimanda a “mio” (implicitamente a “io”), a “fingo”, alle molte “i” della seconda strofa (letteralmente irta di “i” è “ipocrisia”).
Scelta difficile.
Il suono potrebbe avere la meglio (“criterio estetico”?), però anche l’immaginario semantico…
(Vado un po’ OT)
Su *urgenza*, *energia*, *elettricità*, *Dino Campana*…
L’*elettrico* (l’*urgente*?) Dino Campana ha scritto questi versi.
(Da “Genova”)
…
Quando,
Melodiosamente
D’alto sale, il vento come bianca finse una visione di Grazia
Come dalla vicenda infaticabile
De le nuvole e de le stelle dentro del ciclo serale
Dentro il vico marino in alto sale,…
Dentro il vico che rosse in alto sale
Marino l’ali rosse dei fanali
Rabescavano l’ombra illanguidita,…
Che nel vico marino, in alto sale
Che bianca e lieve e querula salì!
“Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che bianca e lieve e tremula salì:…”
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca…
Bianca quando nel rosso del fanale
Bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì…
…
Dunque?
– L’urgenza si è incagliata?
– C’è stato un black-out?
– Il poeta si è voluto divertire?
– Sono prove della pazzia di Campana? (la pazzia – è noto – si addice ai poeti, e più che mai a Dino Campana…)
– Sono prove della grandezza di Campana? (l’“alternativa storica” non percorsa di cui parla Sanguineti…?)
[ Su questi versi, molto dibattuti:
http://weblinux.ala.it/ryodolinux/dinocampana/public/idlu_1/idla_1/ida_23.html ]
Apprezzo lo stile e la musicalità delle numerose ripetizioni e assonanze nella poesia di Campana. Ma che c’entra questo con il testo di Raos?
Quando parlavo di urgenza, mi riferivo alla motivazione e alla spinta interna che portano un poeta a mettere su carta esperienze, impressioni, immagini utilizzando certe parole e non altre. Urgente potrebbe essere anche la poesia su una gallina!
Eccomi qua. Gentile Cato, sono d’accordo: è il libro che appunto stavo leggendo, quello di Raos, quando ho lasciato il mio commento. Quanto alla domanda dello stesso poeta: io preferisco il verso come l’ho letto la prima volta (“Mai unguento consolerà il mio corpo”), anzi direi che forse è il verso che maggiormente mi ha colpito, anche se, sia chiaro, questa poesia la mi piace tutta tutta. Saluti cordiali.
Cara Emma, riguardo a “consolerà” e “lenirà” ho capito: non ti piace nessuna delle due! :-)))
Comunque, parlo più volentieri di Campana che di me (e ci mancherebbe altro): davvero impressionanti questi versi che citi (suppongo rispetto alla questione della “ripetizione”). Mi hanno sempre fatto pensare a una sestina implosa, trasformata in buco nero.
Molto a pelle, mi impressiona molto che per decenni non si sia visto che in questo brano, in realtà, di ripetizioni vere e proprie non ce n’è nemmeno una. Tutto è microvariazione, microfrattura. Quella che è potuta sembrare carenza tecnica è, in realtà, la testimonianza di una tecnica superiore, talmente superiore da passare inosservata – e nel campo delle arti è successo tante di quelle volte, a ben pensarci… Me lo immagino bene, un Croce (o chi per lui), asserragliato dentro la sua università a ripetersi “impossibile che un pazzo sia più bravo di me…”
Ma mi colpisce anche come, quasi in tempo reale, il mio amatissimo Boine avesse capito davvero (quasi) tutto. A dimostrazione che è possibile.
*
Un caro saluto ad Addio Alle Arti, che oltre a tutto è un ragazzo davvero simpatico… :-)))
Caro Andrea, hai capito male (o non mi sono spiegata): preferisco “consolerà” :-)
Quanto a Campana.
Il mio era un intervento un po’ OT (già detto), ma indotto dal commento di a.b. (che per primo ha chiamato in causa Campana), e soprattutto dalla storia dell’“urgenza” (a.b. e, in special modo, Dr. Jekyll).
In breve.
Secondo me l’appello all’*urgenza* è fuorviante, rischia il luogo comune.
Specie se l’*urgenza* non è definita e delimitata.
Perché può far pensare alla poesia come al risultato di un ingenuo/incontenibile spontaneismo o di una psicologia pavloviana.
O come al frutto di faccende essenzialmente extratestuali.
Anche per me i versi di Campana dimostrano quello che tu dici; urgenza forse sì, ma certamente nessuna ingenuità, nessuno spontaneismo gratuito.
Dunque grandissima tensione, grandissima creatività e grandissima tecnica.
E molti, molti lasciti per la poesia a venire (di 50-60-80-90 anni dopo).
(Anche il tuo richiamo alla Rosselli potrebbe essere letto, indirettamente, come un omaggio a Campana.)
Forse è il caso di leggere tutta “Genova”.
http://www.poiein.it/autori/C/Campana.htm
Per Emma. Urgenza significa avere qualcosa da dire con la giusta forma espressiva, qualcosa che non si può non dire o dire diversamente: è proprio il contrario della spontaneità, non vedo come si possa equivocare.
@Dr. Jekyl
Dal De Mauro on line
ur|gèn|za
s.f.
AU
1a l’essere urgente; necessità impellente, inderogabile: avere u. di partire, non c’è u., discutere sull’u. del caso | fare u. a qcn., sollecitarlo in modo pressante
1b situazione grave, che richiede un intervento immediato: se c’è un’u., telefonatemi
2 estrema rapidità, sollecitudine: intervenire con u.
Polirematiche
d’urgenza loc.avv., loc.agg.inv. CO
1 loc.avv., con urgenza, nel modo più rapido possibile: partire d’u., essere ricoverato d’u.
2 loc.agg.inv., urgente: intervento d’u.
Mah.
Credo che materia per equivocare ce ne sia ancora.
“Urgenza significa avere qualcosa da dire”: fin qui ci siamo. Aggiungerei anche un “pressantemente”, un “senza tergiversare”, se vuoi un “con forza (con energia)”.
È il passaggio a “con la giusta forma espressiva” che mi appare arduo.
Presume la disponibilità di una Grazia pronta all’uso, la presenza di una Illuminazione in grado di assicurare l’immediata perfezione del gesto e del prodotto.
Cose rare.
Se così fosse non si spiegherebbero le varianti, i ripensamenti, i decenni o le vite impiegati per scrivere una sola opera, un solo poema.
Queste mi sembrano le pignole puntualizzazioni di un notaio! Io mi riferivo all’urgenza in poesia o più in generale in letteratura, non a quella dei vocabolari! Non pensavo di dover discute dell’ovvio, chi “traffica” nel campo letterario dovrebbe saperlo bene. Non è certo l’urgenza di un ricovero ospedaliero o della ricerca affannosa del bagno a causa di smottamenti intestinali! Non è la smania di dire subito qualunque cosa in qualsiasi modo. Si tratta di quella necessità che è all’origine di un testo. La necessità che ci guida a scrivere se abbiamo “veramente” qualcosa da dire. La neccessità che permette, quando si possiedono le doti necessarie, di amalgamare contenuto e forma, significato e significante ottenendo un equilibrio estetico, quindi una bel testo. Questo può avvenire anche dopo ripensamenti, cambiamenti, variazioni del testo stesso. Non è una necessità che si riflette per forza nell’attuazione immediata del pensiero in azione, dell’idea in scritto immodificabile. Può anche accadere, ma è raro. Per questo non tutti quelli che scrivono versi possono permettersi di chiamarsi poeti, e non bastano nemmeno la tecnica o gli esercizi di stile, pur importanti. Per questo, secondo me, i veri poeti sono pochi. E’ sorprendente, invece, notare come sempre più numerose antologie curate da professori universitari annoverino amici, studenti e giornalisti nella sfolgorante generazione dei nuovi o giovani poeti italiani!
Spero di aver chiarito il mio pensiero e di non dovere tornare sull’argomento
“i veri poeti sono pochi. E’ sorprendente, invece, notare come sempre più numerose antologie curate da professori universitari annoverino amici, studenti e giornalisti nella sfolgorante generazione dei nuovi o giovani poeti italiani!”
eh, d’altra parte, cosa vuole, signora mia…
Caro/a Dr.Jekyl, per come l’ho capita io Emma ha soltanto voluto richiamarla ad un uso non (o il meno possibile) metaforico della lingua, soprattutto in sede critica. È ovvio che quando si sta seduti al bar a discorrere di poesia, l'”urgenza” è anche tutte le belle cose che dice lei; ma resta pur sempre che se lei chiede (anche retoricamente) “qual è l’urgenza di questa poesia?”, è in pratica impossibile risponderle. Dica “non mi è piaciuta perché secondo me è brutta”, e finita lì.
Ad ogni modo, mi impegno per iscritto a scrivere e dedicarle (con la massima urgenza, s’intende) una poesia su una gallina. La preferisce viva o morta?
Con viva cordialità,
Dr. Jekyl, ciò che per te è una verità autoevidente non lo è necessariamente per tutti gli altri.
È un tuo (sacrosanto) diritto di lettore giudicare un testo bello o brutto, sulla base di tuoi gusti e/o personali sensibilità.
Ma quando pretendi di fornire una valutazione un po’ più circostanziata non puoi contare solo sugli esclamativi.
Oltretutto rischi un travaso di bile, e nel tuo caso è davvero un rischio da evitare.
Emma, per favore non banalizzare il discorso dicendo che è bello tutto ciò che piace al pubblico. Se così fosse avrebbero un valore estetico o artistico anche il grande fratello e l’isola dei famosi che piacciono tanto a giovani e meno giovani!!? (punti esclamativi e punto interrogativo).
Non penso di avere verità autoevidenti, come dici tu, ho solo sentito la “necessità” di mettere in risalto un pensiero condiviso da molti. E non preoccuparti per il mio fegato, le mie transaminasi stanno benissimo, ci vuole ben altro.
Per Andrea Raos: non ce l’ho con lei, ma le consiglio di usare gallina per un bel brodo!
Pace e bene a tutti!
“Emma, per favore non banalizzare il discorso dicendo che è bello tutto ciò che piace al pubblico.”
!?!?!?!
Jek caro, stavolta abbondo io in esclamativi (e interrogativi) (sei contagioso :-).
Dove – e a mia insaputa – ho detto ciò?
(Massì, pace e bene :-)
Dr. Jekil, Emma ha detto tutt’altro da ciò che lei le attribuisce – la stessa Emma in realtà sa difendersi benissimo da sola, ma tenevo comunque a precisare. Se poi lei vuole insistere a non capire, padronissimo.
Ad ogni buon conto, mi accingo immantinente a spiumare – per verba – il malcapitato gallinaceo.
Vedo solo ora il commento di Emma. Sa difendersi da sé, appunto.
Ebbene sì, Emma è capace di difendersi dai miei feroci attacchi!
Dove – e a mia insaputa – ho detto ciò?”
Emma, forse ho equivocato, ma quando dici: “è un tuo (sacrosanto) diritto di lettore giudicare un testo bello o brutto, sulla base di tuoi gusti e/o personali sensibilità” è come se dicessi: è bello quello che piace, è brutto quello che non piace, basta, non serve altra spiegazione.
Quando dico mi piace o non mi piace devo anche esprimere un parere più circostanziato, ed è quello che ho cercato di fare, vedi la questione della tanto criticata, discussa e parodiata urgenza, vedi la storia di “contenuto e forma, significato e significante”. Non mi sembra di aver contato solo “sugli esclamativi” come dice Emma. Purtroppo credo che potremmo parlare per giorni senza cavarne un ragno da un buco! Speravo che la mia prima sortita su “nazioneindiana” fosse più divertente.
Dimenticavo:
“Passata è la tempesta:
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso.”
e poi soprattutto Pascoli:
Da Valentino:
“Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco
non ti bastava, tremavi, ahimè!,
e le galline cantavano, Un cocco!
ecco ecco un cocco un cocco per te!
Poi, le galline chiocciarono, e venne
marzo, e tu, magro contadinello, “…….
e infine:
GALLINE
Al cader delle foglie, alla massaia
non piange il vecchio cor, come a noi grami:
che d’arguti galletti ha piena l’aia;
e spessi nella pace del mattino
delle utili galline ode i richiami:
zeppo, il granaio; il vin canta nel tino.
Cantano a sera intorno a lei stornelli
le fiorenti ragazze occhi pensosi,
mentre il granturco sfogliano, e i monelli
ruzzano nei cartocci strepitosi.
Letta tutta la diatriba, concordo con Jekyll.
a prescindere (?) dalla discussione “lenirà/consolerà” e dalla diatriba successiva etc., credo che i tuoi versi siano (scrivo anch’io e ne sono fermamente convinto) del tutto esenti da quell’errore in cui cade chi scrive versi oggi: la paura del sublime. Che fa sì che si debba necessariamente scrivere (in modo pseudorealistico) del gatto o del cappuccino…
Ovviamente “consolazione” e “lenimento” configurano due possibilità di lettura diverse, credo, in un’accezione di tipo platonico-cristiano (al fondo riemergono certe dimensioni ideali ormai geneticamente acquisite), … mente e corpo…
P.S.
In ogni caso, come dicono a Napoli: fottetenne…
Grazie a Enrico De Lea. Come si dice in napoletano “certo che me ne fotto, ci mancherebbe altro”? :-)
Pascoli scriveva di galline, ovvero animali poco sublimi, già nel 1800. Non mi sembra che ultimamente ci sia una paura del sublime, piuttosto una smania.
Abbiamo esempi che ci dicono come in poesia il contenuto (alto e non) spesso possa anche passare in secondo piano, quello che gioca un ruolo fondamentale è a mio parere il linguaggio, con ritmo, musicalità, assonanze, metafore etc.
*
Viola ogni cosa traslucida a sera
alla soglia dell’alba
data fine all’insonnia
non è più di un confuso barbaglio,
un lampo di niente,
non un giorno vissuto, non un libro di versi – meno anche
dei baci che ho inferto. Per questo ne dico che penso
due forme di rosa: una
conchiusa – che è io – tagliata da un taglio
esso stesso il piacere
– esso stesso la rosa –
e una totale, coincisa nel mondo,
pensata natura, rosa futura.
*
se meno veloci,
molto meno, del vento che li porta
passeri feroci e incuriositi
dallo strazio di questi aperti colli
di bitume e di niente, di pace all’ingrosso
proferiva questo nome
finito, non di piuma
calamo o di padre
madre, di cristallo ognuno
*
Il profilo incuriosisce nell’ombra,
non il sorgere a giorno ogni volta
per successione di scatti, ruota dentata
nuova fiammante al versarvisi dentro
ad un tempo la luce che si sposta più piano
e già quasi bruciate le ombre sui muri.
A sera a sera un brusio,
scricchiolii già irreali – è già buio –
ne circondano il corpo e lo premono,
corpi nuovi d’intorno.
Ne sono le orazioni al vuoto.
Fossi anch’io, immiserito
ed inarcato a cosa,
non placida costanza o guizzo altrui.
*
Luna velata, dove, luna venuta
a mancare, ora, meravigliosa
madre ombra, sia
che guardi la luna che mancata
non è viva, è fiato,
non è fiato, è mia
e niente la trattiene, è via
luna di tutti i suoi satelliti ovvero una
di meno compiuta
scia,
quando, quanto?
Vita che mi stria,
nessun attaccamento,
niente che non sia.
*
Autentica, grande scrittura di un autentico, vero poeta.
“Luna velata” è un cristallo sognante, chiuso a scrigno nel suo muto stupore, che oscilla nei giorni splendente di luce e dolore: di ascolto: di attesa.
Ho, ben sai, crudeltà bastante, pure
mai ti immaginai campo di ghiaccio
chine le foglie al soffio, tu stormire
rauco nel bosco di cannule e timer,
i contatori abbarbicati ai solchi
tubolari nei due bracci, grida
verdi, disegnate, delle arterie
ferite a simulare ogni singulto,
gli sbalzi vascolari: tic tic tic.
Cos’hai imparato a imprimere il tuo stare
immobile su una distesa immobile
brina, irta? Fuori, you prick, e di corsa
questo è il poeta che adoro e scusate se non chiedo il permesso!
Ma siete proprio le vestali accanite del sacro fuoco di Raos! Forse sarebbe meglio ampliare i vostri orizzonti.
Non sono la vestale di niente e di nessuno, Dr. Jekyl, sono solo un lettore che ama la poesia. E se anche tu, a quanto mi sembra di capire, ti ritieni tale, non puoi non apprezzare questi testi, a prescindere dal genere e dalle forme in cui più ti riconosci.
Prova, piuttosto, a postare qualcosa di tuo, e lascia che, grazie a te, io possa ampliare i miei orizzonti. Te lo sto dicendo davvero, senza nessuna ironia.
Se ti interessa, oltretutto, credo di aver già letto qualcosa di tuo: se posti un testo, ti dico cosa ne penso, e senza svelare la tua identità. A cosa ti serve continuare a ironizzare? Nessuno, qui, ha mai detto che non esiste altro: il confronto si fa mettendo le carte sul tavolo, scoprendole. Non trovi? Se no, rischi di essere solo uno dei tanti troll di passaggio, che nulla toglie e nulla aggiunge alla musica, dolce o amara che sia, del giorno.
Ti saluto, e ti aspetto.
Sorry, Cato, non pensavo certo che tu dovessi ampliare i tuoi orizzonti grazie alla lettura di miei eventuali testi! E non si tratta nemmeno di contrappormi o confrontarmi ad altri. Tra l’altro non ho scritto ancora nulla!
Non ho difficoltà a dire che “Luna velata” mi è piaciuta, anche se trovo i tuoi aggettivi un po’ eccessivi.
A presto,
Jek
TUBI
I nostri lunghi tubi
pieni di curve
tunnel senza luce
conduttori di buio
di torve misture
collegati alla mente
potessero almeno
pendere rotti e vuoti
inerti al bene e al male
dallo scaffale dei ferri storti
dei mestieri dimenticati.
Amo la nebbia che avvolge e profuma
è come un braccio sinuoso ti prende
poi non ti accorgi d’un tratto sparisce
e della nebbia ti resta il profumo.