Oltre la storia, nulla

150px-bushalte_zwolle.jpg   di Alessandra Galetta

Ehi ciao! Mi dice un tipo con un giubbotto e un paio di pantaloni marroni.
Nel paio di secondi che impiego a rintracciargli la faccia, registro che ha una valigetta e anche un cappello dello stesso colore, e che li tiene con la mano che sta dalla parte del cuore.
Ciao, gli rispondo.
È il mio amico Edo. Non è un mio amico in effetti, ma un ex collega del Call Center dove lavoravo e con cui prendevo insieme il pullman che va su, a Frascati, per tornare a casa. Lui scendeva a Grottaferrata, però.
Se non fossimo stati colleghi non avremmo mai parlato, credo, a meno che non l’avessi abbordato io e non perché sia uno timido o abbia timore d’apparire invadente, ma perché a lui, Edoardo Paletti, della gente non gliene importa un accidente. Di uomini e donne, indistintamente.
Non è uno snob di tipo tradizionale, però.
Non gira lo sguardo, non arriccia il naso, non storce la bocca e se ne infischia di status sociali, di carriere e di titoli.
Il suo interesse può essere acceso, nella stessa misura, da un sorvegliante di un museo o da un presidente della repubblica se avessero partecipato entrambi alla seconda guerra mondiale.
Edoardo Paletti è un appassionato di storia, e di politica in seconda battuta, e consuma il suo tempo libero, con altri fissati come lui, a giocare battaglie dove un quadratino giallo rappresenta la fanteria, uno rosso le truppe d’assalto, e così via. Fanno campagne che durano mesi, che richiedono ore di riflessioni, considerazioni, sospiri e bruciori di stomaco.
Ha gli occhi tristi Edo. Non esprimono tristezza, però. Sono di un celeste che in natura non esiste, con gli angoli esterni che precipitano verso il basso.
Le sue mani, alla fermata e durante il gioco, erano sempre in movimento a tormentare una pipa che non accendeva mai. Una volta la fumava, poi, per non compromettere la salute, ha smesso.
Quel “ehi ciao” esclamativo mi sorprende, anche se è da due anni che non c’incontriamo, da quando mi sono trasferita a Roma e mi sono licenziata dal Call. In due mosse ho dato scacco matto alla noia, allo stress e l’ho piantata dal pormi mille domande sulla trasparenza della mia persona.
Sono stata a Londra, gli dico dopo esserci sfiorati le guance.
Solleva la mano sinistra e abbozza un gesto per interrompermi, ma la valigetta e il cappello gli imbrogliano il movimento.
Sei mesi, a studiare l’inglese! Abito a Roma, ora, con un tipo. Al momento sono senza lavoro, ma sto facendo decine di colloqui e oggi è l’anniversario dei miei e li vado a trovare.
Seguito a buttar fuori altre notizie anche se ha poggiato la valigetta sul marciapiede, si è schiacciato il basco in testa e ha posato la mano sulla mia spalla e con le dita fa una leggera pressione.
E tu come stai? Continuo. Mio padre mi ha detto che hai lasciato il Call e importi aringhe dall’Olanda adesso. Fidanzato, sposato? Padre felice? Figli segreti?
Curva il mento, costruisce un sorriso, e preme ancora di più le dita.
Lo so, lo so. Mi risponde.
L’ho affogato con tutte queste parole perché, quando aspettavamo il pullman, era sempre lui a seppellirmi di fatti storici, di date e di morti ammazzati, ma non sono la stessa di un paio d’anni fa e non voglio più farmi schiacciare da persone come lui.
Togli la mano, gli dico, mi dà fastidio.
Gli sorrido per spegnere la durezza della frase, e mi accendo una sigaretta.
Stiamo per dar inizio a una grandiosa battaglia, dice con tono declamatorio. Settembre 1942- febbraio 1943! Russia contro Germania!
La battaglia di Stalingrado. Sì, me la ricordo: mi rimase impressa quando la studiai a scuola perché ci morirono quasi un milione e mezzo di persone.
Militari e anche civili, certo.
Che poi sarebbero persone, insisto.
Sono contento di averti incontrato, mi dice, perché avrei piacere che partecipassi anche tu.
”Avrei piacere”. Edo parla così, da uomo d’altri tempi.
Io? Ne sei sicuro? Quando giocavo con voi sostenevi che avevo un tipo di gioco troppo impulsivo, che non pesavo le mosse, che mi salvavo per la fortuna e alteravo la simulazione.
Non sono più così purista. Ho cominciato anche a fumare adesso.
La pipa? Gli domando. Hai ripreso a fumarla? E dov’è?
Il sapore del tabacco che lascia la pipa è troppo forte, fumo una sigaretta dopo cena, per rilassarmi.
Mi accorgo che i suoi occhi sono vivi, quasi gradevoli, della stessa vivezza di quando discuteva con i suoi amici di strategie o di quando ascoltava i ricordi dell’uomo che puliva i bagni del Call, che era stato ferito da bambino nel bombardamento del quartiere di San Lorenzo a Roma.
Lo osservo.
Ora che non ha più la pipa con cui giocare, si stropiccia le mani di continuo come se avesse della sabbia attaccata.
M’irrigidisco. Non sono cambiata, penso. Se lo fossi per davvero non esiterei a chiedere quale accidenti di motivo abbia per essere contento.
Bene, dico. Sta arrivando il pullman. Sei pronto per l’attacco?
C’incontriamo il prossimo venerdì. Giochiamo nella cantina di Ferruccio, alle sette come sempre. Avremo l’onore della tua compagnia?
Ti chiamo per una conferma, gli dico.
Ah senti, un’altra cosa.
Gli angoli degli occhi si sollevano di un centimetro. Sembra proprio un cinese strafelice, adesso. Se fossero sempre così, penso, qualche donna si innamorerebbe di lui di sicuro.
Tuo padre mi ha raccontato la storia di tuo nonno che ha nascosto un soldato inglese durante la guerra e per cui ha ricevuto un riconoscimento dagli Alleati.
Sì, è vero, rispondo io.
Se potessi portare quel riconoscimento venerdì… I ragazzi e io ne saremmo felici!
Certo, lo porto volentieri, se vengo.
Le porte del pullman si aprono. Noi siamo nel mezzo del mare che sale.
C’è una poltrona vuota in settima fila e mi siedo, lui deve proseguire e in fretta perché almeno una ventina di persone gli premono addosso.
Altrimenti posso passare io da tuo padre uno di questi giorni…
Ma sì.
Ah giovanò che facciamo? Ci sono i lavori in corso? Gli dice una tipa appesantita da buste di plastica e da una pellicciona che pare tristemente autentica.
Scusi, dice lui. Avanza nel corridoio e si accomoda due o tre file dopo di me.
Prima che il pullman parta mi alzo per riporre la borsa sulla rastrelliera e incrocio il suo sguardo.
Gli angoli esterni dei suoi occhi sono piombati di nuovo verso il basso, e ha una faccia da cinese triste.
Hai imparato, poi, l’inglese.
Lo dice con la stessa intonazione con cui uno sconosciuto in ascensore, per spezzare la monotonia dello scorrere dei piani, butta lì: che freddo che c’è fuori.
Sorrido a me, e a lui.
Ho passato una bella giornata oggi.

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Maria Luisa Venuta
Maria Luisa Venuta Sono dottore di ricerca in Politica Economica (cosiddetto SECS-P02) Dal 1997 svolgo in modo continuativo e sistematico attività di ricerca applicata, formazione e consulenza per enti pubblici e privati sui temi della sostenibilità sociale, ambientale e economica e come coordinatrice di progetti culturali. Collaboro con Fondazione Museo dell'Industria e del Lavoro di Brescia e Fondazione Archivio Luigi Micheletti. Sono autrice di paper, articoli e pubblicazioni sui temi della sostenibilità integrata in lingua italiana e inglese.
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