Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro

Welders- Berkley Lib

di Sandra Burchi e Teresa Di Martino

Il testo riportato qui di si seguito è l’introduzione al libro collettaneo Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro, Iacobelli Editore 2013.  Le curatrici ed altre studiose  ne discuteranno questa sera, mercoledì 18 dicembre dalle 18.30 alle 21.00 in un incontro organizzato da Agorà del lavoro-Primum Vivere presso la Sala Vitman, Acquario Civico di Milano viale G. Gadio 2 – MM2 Lanza

Sui temi del lavoro negli ultimi anni si sono dette molte cose. E’ stato normale a un certo punto sentire il bisogno di fare un po’ d’ordine, portando nel desiderio di ordine teorico la memoria di quel “mettere in ordine” femminile che serve a rendere vivibile uno spazio. Cosa possiamo prendere e tenere fra i tanti discorsi che si sono prodotti sul lavoro negli anni, cosa ha preso la forza di segnalarsi come punto di riferimento e di orientamento? Pensare la questione del lavoro – come esperienza del lavoro, secondo la pratica femminista del partire da sé e del personale che è politico – è diventato gesto di distribuzione dentro uno spazio, uno spazio che è fatto dei suoi tanti strati temporali, come un paesaggio. La Giornata di studi della redazione Iaph Italia – tenutasi il 21 marzo 2012 nella Sala del Parlamento Europeo a Roma e intitolata “Lavoro o no? Crisi dell’Europa e nuovi paradigmi della cittadinanza”, – è stata una prima occasione di composizione e ricognizione.
Questo volume prende le sue mosse da lì.


La proposta che portiamo avanti – ne abbiamo discusso a lungo cercando materia per sostenere questa svolta epistemologica e politica – è quella di considerare la posizione di una donna come la posizione da cui pensare una giustizia per tutti, ovvero le forme delle relazioni pensate su grande scala. La posta in gioco non è quella di trovare misure di inclusione, di considerare le donne come uno specifico, ma di partire dalle caratteristiche della vita e della memoria storica di una donna, per produrre un’idea di società per intero, proprio a partire dalla sua posizione strategica, ma anche per la complessità di questa vita. Provare a giocare in positivo lo strano vantaggio di una cittadinanza mai compiuta fino in fondo e di un adeguamento al mondo del lavoro che ha sempre prodotto degli scarti, dei residui di non appartenenza. Quando il modello di cittadinanza che ci è stato proposto comincia a scricchiolare, quando il sistema del lavoro si rivela incapace di fare da perno alle esigenze di benessere di una società, pensare dalla nostra posizione di migranti, cittadine mai veramente compiute ed eternamente in divenire, può dare risorse di analisi e politiche anche agli «esuli sociali involontari» (Pateman 1989, p. 209), i cittadini espulsi dall’equazione lavoratore-cittadino dotato di diritti.
Questo è uno dei punti di orientamento più consistente, un punto di partenza di cui riconoscere  – e molte che qui scrivono lo fanno –  la capacità di scombinare alcune equivalenze che, pur non essendosi mai realizzate nella storia, hanno dominato il campo del discorso: cittadinanza-lavoro, denaro-lavoro, presenza nel mondo-lavoro.

 

Oltre la cittadinanza. Le relazioni generano anche i diritti

Un’idea della democrazia che non si accontenti di un sistema di diritti ma che individui nella  possibilità di poterli esercitare le condizioni individuali di libertà. Venticinque anni fa Pateman scriveva: «un ordine sociale libero non può essere un ordine contrattuale». Oggi torna sul nesso tra contratto, libertà e democrazia rivendicando come necessario un discorso alternativo sulla libertà, che presupponga l’esistenza di pratiche e relazioni sociali.

Ecco allora l’idea che i diritti nascano dall’esperienza – Lessi li definisce in queste pagine «diritti generativi», in sintonia con il pensiero di Federica Giardini sui beni comuni – dal qui e ora di donne e uomini, di chi non è stato pensato o previsto dal diritto vigente, o da chi eccede il sistema dato. E’ la storia delle donne, soggetto “imprevisto” di un ordine patriarcale che ha tentato, e lo fa tuttora, di rendere l’esperienza delle donne invisibile (Gissi) – sia quando pratica la via dell’inclusione che quella della sovraesposizione. Quando Pateman torna sul tema del contratto e ne mostra le ambivalenze – «quando gli individui decidono volontariamente di sottoscrivere un contratto hanno esercitato la loro libertà, ma la conseguenza nel caso dei lavoratori e del contratto di impiego è la loro incorporazione al rango di subordinati» -, sta cercando di indagare i meccanismi necessari per mantenere l’efficacia sostanziale dei diritti. Quali sono le condizioni – di vita materiale e sociale – che permettono di esercitare i diritti come relazioni che «riducono al minimo la subordinazione e aumentano la libertà individuale?».
Il percorso tracciato dalla giuslavorista Maria Pia Lessi incrocia le figure femminili della mitologia, della storia, del femminismo in una pratica relazionale e regolativa che proprio nella «forzatura del diritto vigente» va a colmare vuoti normativi, non contro bensì oltre la legge: «contratti di convivenza, testamenti, procure, tutte le pratiche dell’autonomia privata che attraverso il sapere giuridico consentono alle persone di trovare espressioni valide di libertà […] pratiche diverse che generano giustizia e che, in ogni caso, al di là dei risultati giudiziari, si traducono in un incommensurabile “di più” di libertà per chi le agisce».
Pratiche, punto di forza dell’operazione di messa in ordine che è anch’essa una pratica di rilancio. Pratiche, che si assumono la responsabilità di pensare ed agire un altro ordine, lontano dal paradigma dell’inclusione e dalle rivendicazioni che a tale paradigma si legano. E’ il caso del rinnovato mutualismo, associazionismo di lavoratrici e lavoratori che – in una lotta per il riconoscimento di una soggettività negata – disegnano collettivamente la misura di un diritto mancante (Doria). La condizione di apolide (Simone) che molte donne e molti uomini occupano nel mercato del lavoro attuale, accentua la distorsione dell’equivalenza lavoratore-cittadino, fondamento dello “stato sociale patriarcale”.

Alla luce della decostruzione del binomio cittadinanza-lavoro, rileggere oggi i diritti slegati dalla produzione si trasforma in un atto rivoluzionario. Sappiamo che avere un corpo fertile è un serio intralcio a far coincidere diritti e produzione. Ripensiamo allora ai diritti a partire dal corpo – di tutti – che non è sempre e solo produttivo. Si parla in queste pagine di diritti sessuati. Riconoscere un diritto sessuato – «perché parla di “mettere al mondo” progetti, esperienze, pensieri, idee, pratiche, spazi, creazioni, figl*» – come il diritto universale alla maternità, significa «riconoscere un tempo ed uno spazio non produttivi nel senso capitalistico del termine: è riconoscere un tempo riproduttivo, generativo, dedicato alla cura, di sé, dell’altro. È riconoscere a donne e uomini il tempo della rigenerazione dei corpi. È riconoscere politicamente che il paradigma della produttività a tutti i costi ha fallito» (Diversamente occupate).

 

Oltre il denaro. Ripensare l’economia

Riappropriarsi degli spazi e dei tempi dell’esistenza di donne e uomini, è la condizione per creare i requisiti di una libertà che prescinda dal contratto e quindi dal denaro. Ma per fare questo è necessario scombinare anche un altro binomio dominante: il nesso denaro-lavoro. «Cosa ci impedisce di liberarci dalla coppia scontata denaro-lavoro, una coppia che nella storia non ha mai avuto luogo veramente?», si chiede Praetorius facendo riferimento a tutto quel lavoro necessario e non remunerato (storicamente preso in carico soprattutto dalle donne) che serve per mandare avanti una collettività e una società.

Se il denaro è un’invenzione umana, è un mezzo/misura di scambio che ha anche una storia diversa per i due generi. Una donna elabora ancora il fatto che, come il denaro, è stata mezzo di scambio. Da questa diversa storia nascono rapporti differenti con il denaro. Da una parte quella difficoltà femminile di prendere distanza dalle misure di valutazione di quel che fa,  perché quel che la misura è lei stessa. E’ la difficoltà di dare un prezzo a quel che fa, compiere quell’operazione di taglio, cedere una parte – non se stessa – in cambio di denaro. Ecco allora che molte auspicano uno sviluppo della capacità femminile di monetizzare, prima tappa di un percorso di riconoscimento (Falquet, Méda). Tuttavia, abbiamo presente anche che il denaro non è per le donne misura del valore di quel che fanno. E’ questo un tratto di incredulità femminile che può essere custodito come un elemento prezioso di civiltà: non stimiamo una donna perché è ricca, non appartiene alle donne la sequenza mentale: ricchezza in denaro-valore sociale. Come possiamo ridire allora l’esperienza di avere soldi in cambio del lavoro che facciamo?
Se avere denaro significa avere accesso a una serie di possibilità/necessità – se ho soldi posso comprare libri, andare in vacanza, provvedere ai figli, e via dicendo -, il denaro non misura il valore di ciò che faccio, ma è piuttosto il segno della possibilità di accesso e di uso. Piuttosto che ricollocare la questione del denaro tornando a valorizzare la gratuità dello scambio, ciò che in questo libro si propone da più parti (Pateman, Praetorius, Forenza, Pizzolante) è che al denaro si sottragga ciò di cui è mezzo per ricollocarlo conflittualmente: l’accesso, l’uso.
Da qui la proposta di un reddito di base: «cruciale per istituire e mantenere un’autonomia individuale perché offre la base materiale necessaria alla partecipazione sociale, alla stabilità in quanto cittadine e cittadini e alla sua affermazione simbolica. Il diritto al reddito di base è analogo al diritto di voto – un diritto democratico di tutti i cittadini» (Pateman).
Un reddito incondizionato come primo – e non esclusivo – passo verso un ripensamento dell’economia nel suo insieme, a partire dai bisogni, da ciò che è necessario alla vita del corpo e della mente umani. Reddito di base dunque per creare le condizioni di “nutrire ciò che ci nutre”, al fine di ristabilire un’economia funzionante nel sottosopra post-patriarcale, per recuperare il senso originale dell’economia: spazio, attività e relazioni volte a provvedere ai bisogni materiali e immateriali.
Un tema – quello del reddito di base (Pateman, Praetorius), reddito minimo (Pizzolante), reddito di autodeterminazione (Forenza) – che più che volgersi alle teorie del dono, riconosce con forza che il principio “denaro in cambio di lavoro” è fallito rispetto alla sopravvivenza umana e che diventa necessario «ridistribuire il denaro in modo che aiuti a compiere in libertà quanto è necessario per nutrire l’insieme degli esseri umani che vivono nell’habitat comune» (Praetorius).
C’è, nel pensiero femminista contemporaneo sul lavoro, non solo un superamento del mito del lavoro come liberazione – «la globalizzazione neoliberale (il capitalismo), lungi dal liberare le donne, si limita a riorganizzare gli equilibri tra appropriazione e sfruttamento» (Falquet) -, ma anche l’individuazione di un sistema che procede per inclusioni e orientamenti eterodiretti: «si può anche avere presente come non sia una qualsivoglia “natura” e nemmeno processi sociali sedimentati nei secoli, che spingono la manodopera verso un impiego piuttosto che verso un altro, bensì un insieme di leggi, di istituzioni e l’esercizio di una violenza calcolata, che permettono di orientarla alla bisogna, o di lasciarla fluttuare in un sistema a circuito chiuso di appropriazione e sfruttamento, con quanto basta di aria per respirare e con quell’inquietante impressione che “tutto cambia perché nulla cambi”» (Falquet).

Anna Simone ne parla nei termini di una «inclusione differenziante»: «Oggi ci si ritrova dinanzi al proliferare di ordini discorsivi paradossali tesi a pensare il lavoro delle donne solo come “utile ai fini della crescita del paese”, come un plusvalore del capitale, una variabile dello sfruttamento […] azioni mirate all’empowerement femminile, sempre con discorsi e pratiche finalizzate a rendere le donne un perenne “non ancora” dinanzi all’establishment. Per non parlare del proliferare di carte, convenzioni, dichiarazioni di intenti, linee guida, che hanno come “oggetto” le donne. Se prima si escludeva, oggi si include, ma la stessa inclusione non prevede alcun cambiamento di sistema, il post-patriarcato ovvero il paternalismo è diventato esso stesso un livello della governance?».

Quali pratiche e parole allora per rendere visibile l’invisibile lavoro delle donne evitando la trappola dell’inclusione e della monetarizzazione?
«I sistemi nazionali di statistica – scrivono Jany-Catrice e Méda – fondati su molte convenzioni spesso non esplicitate, hanno la caratteristica comune di lasciare nell’ombra numerose  attività e di non tenere conto del contributo di quelle realizzate all’interno dell’ambiente domestico – attività quasi sempre prese in carico dalle donne – facendole valere zero». La proposta delle autrici è entrare nel movimento dei “nuovi indicatori di ricchezza”, mettendo al centro un approccio sessuato, sviluppando le misure che mettono in evidenza le differenze di accesso ai beni, alle risorse, ai diritti, alle responsabilità secondo il sesso. Prendendo sul serio l’ipotesi che proprio nella riduzione della disparità di accesso ai beni e alle risorse fra uomini e donne (disparità che rappresenta una triste costante su scala globale) si creino le condizioni per uno sviluppo umano sostenibile. Spezzando l’abitudine mentale e culturale a considerare “produttiva” ogni attività che passa per il mercato e irrilevante per l’economia il lavoro necessario per la riproduzione del mondo o la redistribuzione della ricchezza prodotta.

 

Oltre lo spazio pubblico. Tra relazioni e riconoscimento

Rendere visibile il lavoro delle donne, oltre l’inclusione differenziante e sganciandolo dalla misura unica del denaro, permette non solo di ripensare un’economia che parta dalle vite materiali di donne e uomini, ma anche di prendere le distanze da quel sistema che pone oggi il lavoro come unica via di acceso allo spazio pubblico. L’idea, ereditata, del lavoro come luogo di realizzazione nello spazio pubblico sembra subire degli smottamenti: «Per noi il lavoro non è una scelta, è necessario quanto scontato; eppure quando ne parliamo non partiamo mai dalle condizioni di bisogno e dal “dover essere” con cui dovremmo fare i conti (collettivamente), ma da quell’idea del lavoro come luogo di realizzazione nello spazio pubblico che abbiamo ereditata. Un’idea che fatichiamo a contenere, anche quando si tratta di spazi di competizione e di sfruttamento, o di luoghi che attraversiamo soltanto, oppure quando, abitandoli più a lungo, ci rendiamo conto che quel desiderio va a tutto vantaggio dell’impresa e mai nostro» (Diversamente occupate). Una tensione che si gioca sul piano del riconoscimento: «Il lavoro è non solo condizione inaggirabile, ma tutt’uno con la vita: non c’è progetto di autodeterminazione, non c’è processo di soggettivazione che non debba misurarsi su questo piano, anche nel momento in cui lo si relega ai margini e perfino quando il lavoro non c’è» (Diversamente occupate).

Se stiamo alla genealogia femminista, se assumiamo cioè che viviamo il presente elaborando una memoria di genere, allora appare con evidenza che attribuiamo al lavoro la capacità di immetterci in un tessuto di relazioni complesse, quale dimensione necessaria del vivere. Avere un lavoro, per le donne, ha significato uscire dal confine del domestico, in un forte intreccio tra lavoro, relazionalità e riconoscimento – un intreccio testimoniato anche dall’evoluzione del diritto del lavoro sulla questione di genere (Faucci) – uscita per cui la necessità del lavoro svolto viene riconosciuta da altri e da altre, restituendo così senso e identità.
«Riconoscimento, relazionalità, accesso alla sfera pubblica sono dimensioni inscindibili dal valore che attribuiamo al lavoro. Non è un caso che il lavoro delle donne possa essere stato e sia tuttora spesso sottopagato: che venga ancora detratta dalla busta paga il prezzo dell’accesso alla sfera pubblica» (Forenza). Dimensioni queste che ritornano nella politica delle donne più giovani, che hanno consapevolmente dirottato altrove il carico di investimento previsto per lo “spazio-lavoro”, togliendo il lavoro dal centro per potenziare “tutto il resto”, per giocarsi la forza delle relazioni e il senso di sé in percorsi condivisi e collettivi. Ma le contraddizioni riemergono nella fatica delle vite, in quel frammentato, precario e instabile equilibrio tra lavoro necessario – alla sopravvivenza – e lavoro politico, che riporta a un doppio lavoro di non lontana memoria e che mette, ancora una volta, in scacco un ordine che fonda sul lavoro la cittadinanza e la presenza nel mondo di donne e uomini.

 

Politica e pratiche

Per dare forma a questo paesaggio abbiamo scelto – come pratica di pensiero e di scrittura – di partire dall’esperienza, dalle vite al presente delle donne, donne che parlano da una posizione incarnata, donne che si lasciano ispirare dalle “personagge”, in un rapporto che tiene insieme gratitudine e rivendicazione (Lessi), donne che trovano il percorso per districarsi tra i labirinti di un mondo del lavoro che fa rima con precarietà, esistenziale e sociale (Murgia), donne che ri-nominano il lavoro a casa, tra autosfruttamento e trasformazione degli spazi, dei tempi e delle relazioni (Burchi-Bruno), donne che partono da un posizionamento che fatica a diventare modello – la “lavoratrice precaria” – per ridefinire la relazione tra lavoro e capitale (Forenza), donne che ridefiniscono concetti cari alle femministe, come il tempo per sé, in un passaggio che è insieme riconoscimento di una genealogia e orizzonte lungo di relazione con le nuove generazioni (Piazza).
Qui cominciano a delinearsi dei dettagli: la realtà concreta delle esistenze delle donne, dentro e fuori il mondo del lavoro, realtà da cui si parte per fare pensiero, il «pensiero dell’esperienza», precisa ulteriormente il paesaggio.
C’è in questa presa di parola un riconoscimento, dato e preteso, che racconta di una relazione conflittuale e generativa insieme tra diverse generazioni di femministe e femminismi. Pina Nuzzo torna al tema del lavoro a partire proprio dall’incontro con donne più giovani, e lo fa, in una pratica che nomina le condizioni al presente, ripartendo dalla propria esperienza politica, con l’energia e la speranza di chi ha visto – artefice e testimone – alcune lotte ottenere giustizia: «Per la mia esperienza, nella politica, o almeno quella che interessa a me, è superata la fase delle azioni parziali, a tema – rappresentanza, lotta agli stereotipi e perfino il contrasto alla violenza – perché quanto abbiamo fatto, in termini di leggi e di campagne, cammina sulle gambe delle donne e le istituzioni sono sempre più costrette a farci i conti per il buon motivo che le cittadine votano».

L’idea che le donne parlano a tutti e per tutti accompagna questo lavoro fin dalle prime pagine. Ed è nelle pratiche che raggiunge la sua valenza politica: non si tratta del lavoro delle donne, ci dice Masotto, ma del «pensiero delle donne sul lavoro che cambia».
E’ uno spostamento politico importante: partire dalle donne, da una parzialità, da un margine potente, per parlare a tutti, donne e uomini. E’ il gesto di una piazza pensante come l’Agorà di Milano (Masotto), è l’azione di un’associazione politica come TILT (Pizzolante), è la pratica di un sindacato come Strade (Doria), è l’elaborazione di un collettivo femminista come Diversamente occupate.
E’ da queste esperienze ed analisi che vogliamo ripartire, rifondare, rinominare. Perché «il dibattito per produrre uno scarto, non dovrebbe fermarsi ai contratti, né annidarsi attorno al contratto a tempo indeterminato o alla conciliazione “tempi di vita/tempi di lavoro”, ma “scoprire quello che già c’è in una società complessa, molecolare, diffusa, nei tanti lavori o non-lavori che molte e molti svolgono ogni giorno, nelle idee che non hanno ancora trovato strade per camminare, nelle capacità di mettersi in gioco e in discussione ogni giorno» (Pizzolante).
Se oggi è la richiesta di senso che mobilita i soggetti, in un passaggio da lavoro-diritti-salario a lavoro-tempo-senso (Masotto), le donne possono mettere al centro di questo spostamento l’esperienza di un corpo fertile, generativo, che si espande, e non solo nel senso della maternità ma nel generare una politica all’altezza di un “soggetto imprevisto” che oramai nella Storia c’è e si fa sentire.

Bibliografia
Giardini, Federica (2012) “Politica dei beni comuni. Un aggiornamento”, DWF n. 94
Giardini, Federica (2012) “Fare comune, rigenerare cultura” in La rivolta culturale dei beni comuni a cura di Teatro Valle Occupato, Roma: DeriveApprodi.
Pateman, Carole (1989) The Disorder of Women, Cambridge: Polity Press.

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Maria Luisa Venuta
Maria Luisa Venuta
Maria Luisa Venuta Sono dottore di ricerca in Politica Economica (cosiddetto SECS-P02) Dal 1997 svolgo in modo continuativo e sistematico attività di ricerca applicata, formazione e consulenza per enti pubblici e privati sui temi della sostenibilità sociale, ambientale e economica e come coordinatrice di progetti culturali. Collaboro con Fondazione Museo dell'Industria e del Lavoro di Brescia e Fondazione Archivio Luigi Micheletti. Sono autrice di paper, articoli e pubblicazioni sui temi della sostenibilità integrata in lingua italiana e inglese.
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