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McCarthy, ancora

di Marco Rovelli

Cormac McCarthy lo amo alla follia. Di lui ho letto tutto quello che è stato tradotto in italiano. Credo che abbia un senso del “tragico” che ne fa un classico. Non so quanti riescano, come lui riesce, a raffigurare personaggi che escono dall’eterno presente del mito, figure di meravigliosi chiaroscuri che si stagliano sul nero di un cosmo segnato dal male – e talvolta queste figure sono trapassate da una grazia fuggevole (la fragilità dell’assoluto, scrive Zizek, l’assoluto che si manifesta “in un frattempo”). Nell’immensità del male, compaiono come fragorosi lampi di luce gesti pieni di grazia. La strada è il culmine di questo fragore.

Prima de La strada, il mio libro preferito era Il buio fuori. In quelle pagine, avevo annotato all’indomani della lettura, si trova mitologia al più alto grado di intensità. Le figure di McCarthy sono vivide, vibranti, carnali, sanguinanti rappresentazioni delle forze primarie del cosmo. Si potrebbe vederla anche come una vera e propria cosmogonia. McCarthy mostra, con una smisurata potenza visionaria, l’eterno divenire di un Cosmo in dissoluzione, votato all’Apocalisse già da sempre. Una paradossale cosmogonia apocalittica, dove le potenze della generazione sono le medesime forze della degenerazione. Potenze che fingono un Cosmo là dov’è solo Caos. Quello di McCarthy è una sorta di sguardo gnostico che contempla l’universo: se l’universo si muove in un indifferente fluire (che per l’uomo assume le sembianze, e il nome, del Male), l’occhio di McCarthy saetta della stessa indifferenza. Con la stessa indifferenza racconta le infinite erranze di personaggi alla ricerca di un qualcosa (di una qual cosa: laddove, al limite, non è la cosa ad importare). Una ricerca che non può che fallire il suo scopo, votata al fallimento, un itinerario che non può che concludersi – come si conclude Il buio fuori – in acque paludose, e nello sguardo cieco che non sa di averle davanti. Anche ne Il buio fuori McCarthy racconta quest’itinerario desertico con icone cinetiche di incomparabile intensità. Come la sequenza della furiosa, inarrestabile, letale corsa di uno sterminato branco di maiali nel deserto, tra la gola ed un burrone. Una legione di maiali,imprevedibile irruzione del Male, sublime ipostasi del Maligno. O con le mute sagome d’ombra della trinità sterminatrice che percorre il libro, segnandone le stazioni con le sue morti, elargite gratuitamente.

Adesso, La strada. Dove l’Apocalisse è giunta, finalmente. E nell’Apocalisse si mostra il Senso, nella sua nudità, nella sua verità. La strada è una meditazione profondissima sull’esserci dell’uomo. L’esserci alla fine. Dopo tutto, che cosa resta? – ecco la domanda che muove la narrazione di McCarthy. Quando un romanzo mi piace davvero, finita la lettura resto qualche istante con la mano sulla copertina del libro appena chiuso, come a sacralizzarlo, e a costituire un resto, un “resto che resta” – e nel contempo a farmi benedire. Da La strada non riuscivo più a staccare la mano.

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28 Commenti

  1. rendi sapientemente onore alle parole di Cormac
    caro Marco
    condivido il tuo sentire.

    e farò di più…
    leggerò “il buio fuori”.
    :-)

  2. Anch’io. Da come ne parli credo mi piacerà quanto La strada. L’aspetto che hai messo in rilievo, il mito non più celebrativo ma come ostinata configurazione dell’errare umano, ne La strada è palpabile, anche se nel dono della vita dal padre al figlio vedo un superamento dello gnosticismo.

  3. Ok, bisogna leggere qualcos’altro di McCarthy. Il romanzo è forse quello che mi ha arrichchito di più fra quelli letti negli ultimi dieci anni. Soprattutto i dialoghi pelle e ossa tra padre e figlio sulla spina dorsale del proprio amore reciproco. In sintonia con Marco sul paragrafo finale. Anch’io ho una ritualità simile con i libri che mi sono piaciuti molto. Talvolta rileggo la bandella, o emetto un sospirone prima di riposare il libro sul comodino, e riflettere sul posto giusto da assegnargli in libreria.

  4. Hai ragione, Valter, la fuggevole e fragile grazia che di tanto in tanto compare (e che si mostra nel suo, sempre fuggevole, compimento alla fine della strada – una strada che però sta per reiniziare) è davvero come se incrinasse il cielo delle stelle fisse, come se mostrasse, ogni volta, un totalmente altro da quel ciclo immutabile di figure votate al fallimento.

  5. McCarthy è uno dei tanti autori che ho in lista d’attesa ma che non ho ancora avuto modo di leggere. Così mi invogli ancora di più.

    Già che sono qui volevo complimentarmi con Marco. Sto leggendo i racconti de I persecutori, che mi ha dato Giulio, e L’oroscopo di Vlad è, tra quelli fino ad ora letti, uno dei miei preferiti.
    Andrea.

  6. Grazie, Andrea. Io e Giulio ci abbiamo investito molto su quel libro. E nonostante l’assenza di promozione non ne abbia fatto un successo commerciale (grosso eufemismo), la qualità dei lettori ci ha confermato di aver costruito un buon libro.

  7. @ David. Ho letto il tuo pezzo. Sulle cose che dici di Matheson e compagnia probabilmente hai ragione – a cominciare da me, io non ho mai letto di niente di costoro, e me ne dolgo. Sull’ateismo di McCarthy non sono d’accordo, il suo in realtà è un romanzo profondamente disperato e insieme profondamente religioso (dunque radicato nella speranza): lo Spirito c’è eccome, e adempie al suo ruolo: Spira continuamente dal padre al figlio.

  8. @marco
    “Sull’ateismo di McCarthy non sono d’accordo, il suo in realtà è un romanzo profondamente disperato e insieme profondamente religioso (dunque radicato nella speranza): lo Spirito c’è eccome, e adempie al suo ruolo: Spira continuamente dal padre al figlio.”

    concordo.

  9. Concordano tutti, caro Rovelli, e concordo anch’io, almeno su due punti (il terzo non è un concordare, ma un partecipare l’emozione di un “rito” che mi accompagna da quando ero ragazzo):

    1) “La strada” è un capolavoro;
    2) è uno dei libri più profondamente “religiosi” che abbia letto nell’ultimo decennio (un giorno, magari, ci metteremo d’accordo sul significato del termine);

    3) “Quando un romanzo mi piace davvero, finita la lettura resto qualche istante con la mano sulla copertina del libro appena chiuso, come a sacralizzarlo, e a costituire un resto, un “resto che resta” – e nel contempo a farmi benedire.”

    Quando ho letto la chiusa del tuo pezzo, ieri sera, sono rimasto annichilito di stupore per parecchi istanti e, pur essendo da solo, mi sono sentito all’interno di una comunità di senza nome e senza volto, lontani per sempre, forse, ma vicini in un gesto che ho ripetuto, senza potermelo impedire, allungando la mano verso lo schermo del computer.

  10. Non so ragazzi, davvero. (Sto parlando della religiosità de La strada).

    Bisognerebbe chiedere al buon Cormac per essere sicuri, io come contributo alla discussione posso portare solo

    1) un’intervista in cui lo scrittore dice che il rapporto padre-figlio del romanzo vuol richiamare il suo (a più di 70 anni ha un figlio di 8) e a domanda “Lei crede in Dio?” risponde “Dipende da quale giorno me lo chiede”. Boh, non so (letteralmente).

    La trovate a: http://www.newwest.net/topic/article/oprah_interviews_cormac_mccarthy_a_play_by_play/C39/L39/

    2) l’informazione che il romanzo è idolatrato da numerosi blog cristiani destrorsi di quelli americani, per capirci, che ne parlano manco fosse la Bibbia. E questo parrebbe dare ragione a voi.

    3) ATTENZIONE SPOILER NON LEGGETE SE NON AVETE LETTO IL LIBRO. Molte recensioni ‘spiritualiste’ che leggo puntano molto sul fatto che il finale del libro trasuda speranza. Io francamente nel fatto che il padre muoia disperato, stanco e malato e il figlio – che pure ha l’appeal del piccolo messia, a tratti anche in modo caricaturale – finisca in mano a un gruppo di altri sopravvissuti dei quali nulla sappiamo ma che non promettono nulla di buono non è che ci veda proprio tutta ‘sta speranza!

    Per carità, magari questa è una potente allegoria del Verbo che si fa carne, per dire, ma mi pare solo una possibile interpretazione. Ce n’è anche una disperata, materialistica, atea.

    Ma magari è un periodo mio che vedo tutto nero, eh :)))

  11. @ David Frati

    Parlare di senso “religioso” del libro, virgolettando il termine, oltretutto, non significa per forza ricondurre “quella” dimensione nell’alveo delle sue manifestazioni storiche, in particolare di quella cristiana, della quale, personalmente, ritrovo comunque ben poco nel romanzo, forse solo il riutilizzo in chiave narrativa di alcuni archetipi facilmente identificabili.

    “Un giorno, magari, ci metteremo d’accordo sul significato del termine”, era, appunto, una chiara presa di distanze dalle attribuzioni/appropriazioni indebite, e non solo quelle di parte americana.

    E, comunque, la caciara fideistico-propagandistica del destrume, non può impedirmi di ritenerlo, come lo ritengo, un autentico capolavoro.

    Buona notte.

  12. erano anni che i miei informatori di fiducia mi parlavano di mc carthy e finalmente, forse attratto dalla bandella che parlava, signorbonaventurescamente, del milione di copie vendute americane ci sono cascato. e in effetti è il miglior romanzo, tra i contemporanei, che ho letto dai tempi della trilogia della kristof. la strada è un romanzo in cui, sebbene sia stato tolto quasi tutto, c’è ancora tutto. incoraggiato dal capolavorismo mi sono buttato a pesce su altri romanzi del nostro ma meridiano di sangue mi ha dato un’impressione molto diversa virtuosistico eccessivo e barocco com’è. potete aiutarmi a muovermi nel di lui universo pregresso ?
    luigisocci

  13. Che bella questa comunità di gesti. Tino, il tuo gesto proteso allo schermo mi ha emozionato…
    Luigi, io ero partito proprio di Meridiano di sangue, e mi aveva conquistato, dunque è difficile consigliarti. Leggo una continuità, pur nelle forti differenze: da un esodo interminato a un esodo interminato… Prova comunque Il buio fuori di cui scrivevo nel pezzo, è più vicino come stile, c’è la madre alla ricerca del figlio… Oppure Figlio di dio, l’innocenza di un unverso sadico… Poi c’è l’intera trilogia, a partire da Cavalli selvaggi (che sta, rispetto all’eccesso del meridiano di sangue, all’opposto, direi): lì lo Spirito spira tra il protagonista e il suo cavallo…un mega-romanzo di formazione sulla frontiera.

  14. “Mi ascolti? Lo sai come si fa. Te la metti in bocca e la punti in su. Veloce e deciso.”
    “Si era preparato a morire, e ora che non sarebbe più morto ci doveva riflettere su.”
    “Dove gli uomini non riescono a vivere, gli dei non se la cavano certo meglio.”
    “Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto? […] Alzarmi stamattina, disse.”
    Oddio (!), scusate tanto, ma non riesco, non riesco proprio a trovare nulla di attinente al religioso in questa grande, bellissima, commovente opera letteraria.
    Sono io che non capisco, molto probabilmente. L’avrò letto superficialmente. Ma, rimanendo abbracciato alle parole del romanzo, non ho trovato nessun indizio, tantomeno nessuna prova a sostegno di un’interpretazione religiosa delle pagine di McCarthy. Il sole è sparito, piove, fa freddo, i protagonisti soffrono la fame, camminano sulla cenere, si devono difendere dai predoni, alberi e piante sono morti. E non raccontiamo il finale, nel rispetto di chi lo vuole ancora leggere. Dov’è Dio in queste pagine?

  15. Plessus »

    Ti rispondo, da ateo mistico, che Dio è lo Spirito che corre tra le labbra del padre e le orecchie del figlio, la Forza che perpetua la Vita nonostante tutto – nonostante il Tutto, forse: ché Dio è proprio quell’eccedenza, quel Totalmente Altro, quel rischio paradossale di giocarla la Vita nonostante tutto. Dio è questo scandalo che tiene in piedi nonostante ogni Ragione sia contraria. E compare in quel finale ineffabile, dischiudendosi, dalla morte del padre, e tra/spirando oltre, dopo il compimento, in un nuovo inizio.

  16. si può avere quell’impressione, in effetti, dovuta al linguaggio scarno e diretto….ma se ti lasci andare, se assorbi ogni dettaglio, sfumatura, poesia che traspare, se ti immedesimi nei panni del padre e del figlio, se soffri con loro, allora senti – anche – quella presenza.

    capita, quando si leggono certi libri, di trasferire una figura nella figura….
    a me è successo con il padre.

  17. Nina, con La strada anch’io ho trovato un’osmosi con il romanzo che erano anni che non provavo, dai tempi antichi di Asimov e Tolkien. La manifesto con l’entusiasmo con cui sostengo le mie riflessioni. In questa storia ho cercato di individuare lemmi contenenti segnali contrari alla disperazione e lumicini di speranza in qualche aggettivo. Non ne ho trovati. E qui mi ricollego al senso del tragico richiamato all’inizio del post da Marco Rovelli. Il viaggio del padre e del figlio è in realtà una tragedia, figlia della più grande tragedia che possa capitare alla terra: l’annientamento dell’umanità. E del sole, la più potente assicurazione della speranza stipulata dal pianeta per i suoi abitanti umani, animali, vegetali e minerali. Il cammino e i dialoghi del padre e del figlio li vedrei, da ateo e materialista, come le uniche cose a cui si possono dedicare, le uniche due forme di sopravvivenza riservate ai due. L’alternativa è lasciarsi morire da fermi, di freddo e di inedia. Una rappresentazione mistica, non religiosa, dei dialoghi tra padre e figlio? Non so, non ci arrivo proprio. Ho sentito solo odore di essenza vitale e di morte totale. Non vedo neanche possibilità di sequel, al libro, nè di futuro civile. Se dovessi proprio immaginarmene uno, rappresenterei l’umanita più vicina ai selvaggi de La possibilità di un’isola descritti nelle ultime pagine di Houellebecq, che non a piccole comunità organizzate autosufficienti che coltivano il proprio orticello all’interno di recinti di difesa. Visto che senza sole le piante non crescono. Ciao

  18. @Plessus, ciao

    non è semplice spiegare qualcosa che si sente forte e che si vorrebbe trasmettere nella stessa misura….

    ci sono dei passi nel libro che invitano a una profonda meditazione…
    ti riporto questo che si trova a pag.25:
    Su questa strada non c’è benedetta anima viva. Sono scomparsi tutti tranne me e si sono portati via il mondo.
    Domanda: che differenza c’è fra ciò che non sarà mai e ciò che non è mai stato?

    ma questo è solo un’esempio di quanto ci sia da riflettere in ogni frammento di verità contenuti nel libro in questione.

    i momenti che ho sentito più forti sono stati la ricerca affannata, la ricerca dei beni primari per sopravvivere, il calore del fuoco, il cibo, l’acqua.
    qui mi sono molto immedesimata nel bambino, il bambino che si aggrappa al padre come un Dio, ha bisogno di lui per la sua salvezza….
    e quì si sente quella spiritualità che non si vede forse, ma proprio nella sua assenza si fa luce.

    e viene spontaneo un confronto
    con la nostra società di sprechi e consumi
    viene da riflettere sul bene della vita
    quello essenziale, quello del bambino che non conosce il male
    ma che il male circonda.

    questo è un libro che insegna il bene.
    e se non è religioso, fa si che si cerchi una luce,
    perchè un buio totale incombe sul mondo.

    ciao
    nina

    p.s.
    non smetterei mai di parlarne….

  19. e aggiungo…

    anche la tenacia del padre tradisce una fede profonda, quella di salvare suo figlio

    e quindi ci si ritrova in entrambi!

    ripeto, la sua non è semplice scrittura, è poesia nella scrittura….

  20. Il momento più commovente per me è stato quando hanno trovato cibo, coperte, sapone e spazzola dentro al bunker. L’unico, breve ritorno del padre e del figlio ad una quotidianità perduta per sempre (ciò che è stato e non sarà più). La risposta alla tua domanda, Nina, la lascio volentieri a menti più attrezzate della mia. Dici che questo è un libro che insegna il bene. Sono d’accordo, ma non potrebbe essere altrimenti, non vi sono opzioni, manca la possibilità di scelta nel mondo di McCarthy. Sarebbero inimmaginabili padre e figlio che dialogano o si comportano in maniera diversa da quella raccontata. Proprio qui credo risieda la grandezza del romanzo: il modo con cui è raccontato il rapporto tra padre e figlio è l’unico modo con cui poteva essere raccontato. Altre ipotesi appaiono, semplicemente, sbagliate. Quanto a riflettere sul bene della vita, al buio che incombe sul mondo … beh, potremmo veramente parlarne a lungo. Ma ho letto molta (secondo i miei modesti parametri) fantascienza, e potrei essere troppo dogmatico e poco obbiettivo sul tema. Ringrazio te e tutti gli altri per gli interessanti spunti di discussione. Salute e saluti

  21. Ho dovuto assentarmi, ma la discussione è andata avanti in maniera feconda… Se dovessi dire che cos’è il Bene (leggibile tanto in chiave trascendente quanto immanente) in quest’opera di McCarthy, è lo stesso perpetuarsi della Vita. Il suo conatus, in termini spinoziani.
    ciao, alla prossima

  22. Proprio perché non consente interpretazioni univoche, è un capolavoro. Anche ermeuticamente perfetto, oltre che narrativamente riuscito, direi. Un vero libro-buca in cui cadiamo dentro, magari per caso, come è capitato a me (veramente dopo aver letto la recensione di Rovelli). Asciutto non meno che ispirato, essenziale quanto profondo, astratto e materiale. Proprio come un pensiero filosofico alto, cerebrale e viscerale. Se lo vuoi cogliere, non sfuggi agli ossimori. Appunto, imprendibile, come un vero capolavoro.

  23. Dimenticavo la cuspide + alta su cui mi sono trovato leggendo il libro: uno dei passi citati da Plessus del 15 dicembre. “Qual è la cosa più coraggiosa che tu abbia mai fatto? […] Alzarmi stamattina, disse.”
    In questa frase trovo l’irresoluta alfa e omega del senso, con cui conbattiamo ogni giorno scrivendo, pensando, vivendo. Come dicevo, pensiero filosofico alto. Mi fa pensare al campo tensivo che apre l’incipit del Mito di Sisifo di Camus, a quello che chiama “l’unico problema filosofico veramente serio”.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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