Lezioni private

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di Mauro Baldrati

Con l’inglese proprio non va.

Il fatto è che alle medie, qua al paese, c’era francese, una lingua bella e facile, anche se bisogna storcere la bocca con quelle “u” e “ue”. Ma quest’anno all’Istituto Tecnico Cosmodemonico mi hanno appioppato inglese obbligatorio e, anche se ho frequentato un corso accelerato di recupero, non combino un accidente. Primo compito in classe: 4; secondo compito in classe: 4; interrogazione: 5 (“ma sarebbe un 4” ha sentenziato il prof, che mi ha pure messo un 3 sul registro perché mi ha beccato a fumare nel cesso).

I miei, manco a dirlo, si sono subito alterati. Ho già ripetuto la terza media per le assenze, con una nuova bocciatura la situazione si farebbe insostenibile. Così un giorno mia madre è uscita dal laboratorio di parrucchiera dove passa dodici ore al giorno in piedi dietro le teste delle clienti e ha fatto: “adesso te Toni vai a ripetizione. Ti mando dalla moglie di Stefanone lo speziale, la professoressa Giuliana, che delle volte viene da me per accomodarsi i capelli”. Hanno sempre fatto così i miei, appena c’era qualcosa che non capivo, anche alle elementari, subito a ripetizione.

Sono quindi andato a casa della professoressa Giuliana, una villetta coi muri rosa nel quartiere nuovo. Mi ha aperto il figlio, un ragazzo della mia età che conosco di vista, anche se non frequenta la nostra compagnia. Subito ha fatto, gridando verso la scala: “MAMMA C’E’… com’è che ti chiami pure?” Gliel’ho detto. “RINALDI!”. Dall’alto delle scale una voce lontana ha fatto: “VA BENE MANDALO SU!”

Sono salito al primo piano dove la professoressa Giuliana mi aspettava in piedi sulla soglia di una porta aperta. In effetti l’avevo già vista da mia madre, era una donna coi capelli neri pettinati gonfi, di corporatura opulenta. “Vieni, Toni” ha fatto, ed è entrata in una camera dove c’era un’asse da stiro con una pila di panni ammonticchiati, una credenza e un grande tavolo di legno scuro. “Questo è il mio ufficio e la mia stireria” ha fatto, con un sorriso. Poi si è seduta al tavolo, ha avvicinato una sedia e ha fatto: “Bene, vediamo un po’ cosa c’è di nuovo. Vieni, Toni, siediti qui accanto a me”. Ho appoggiato libro e quaderno sul tavolo e mi sono seduto. La sedia era molto vicina, e mentre la professoressa Giuliana guardava il libro la mia gamba sfiorava la sua. Sentivo un calore molto intenso, come se la sua gamba fosse bollente. Era una sensazione forte, e mi piaceva, così ho avvicinato ancora la gamba, e anche il fianco, tutto il corpo col pretesto di leggere con lei le frasi in inglese del libro. La professoressa Giuliana mi faceva leggere, mi interrogava, e d’un tratto qualcosa si è acceso, un lampo, una vampa improvvisa: quella bocca, com’era grande! Una bocca enorme, mobilissima, con le labbra scarlatte di rossetto; seguivo ogni guizzo, ogni contrazione, non ascoltavo le parole e la pronuncia ma contemplavo quelle labbra che ogni tanto la lingua inumidiva e da cui facevano capolino i denti perfetti e bianchissimi, mi perdevo in quella bocca smisurata con la testa vuota e il fiato sospeso, mentre il calore che si irradiava da lei mi travolgeva. Ho avuto un’erezione selvaggia, un pelo mi si è intrigato nella pelle e ho passato un’ora di sofferenze atroci, con le sue labbra che mi causavano allucinazioni, il calore del suo corpo che mi toglieva il respiro.

Sono andato a casa barcollando, senza avere capito un’acca e senza ricordare una sola parola di tutta quella roba inglese che avevamo letto.

Sono tornato dalla professoressa Giuliana quattro volte e la situazione si è puntualmente ripetuta: un’ora col cuore che batteva a martello, il pipiricchio eretto come un palo, tanto che prima di entrare cercavo di sistemarmi bene i peli per evitare la tortura dell’intrico, e un pensiero fisso su quella enorme bocca umida: introdurvi il mio pipiricchio palpitante, spingerglielo in gola, fino allo stomaco. Non seguivo, non capivo niente, tanto che la professoressa Giuliana mi guardava con aria strana e faceva: “Toni, mi segui?” Allora io mi scuotevo, guardavo l’asse da stiro, facevo “sì, sì”, ma il magnete della sua bocca larga tornava a inghiottire tutta la mia attenzione e il pipiricchio spingeva crudele contro i pantaloni. Poi ho iniziato a guardarle anche le tette, così grandi che mentre leggeva si appoggiavano sul bordo del tavolo e anche lì, tra quelle due colline misteriose, nascoste dalla camicetta, sognavo di introdurre il pipiricchio fremente.

Ogni volta uscivo stremato, con la schiena indolenzita. E non riuscivo a montare in sella alla bici, perché prima dovevo trovare un po’ di tregua dalla mia ostinata erezione.

Alla notte non riuscivo a dormire. Mi giravo nel letto bruciando di tensione, pensavo alla bocca della professoressa Giuliana e mi sembrava di sognare ad occhi aperti: diventava enorme, come le bocche degli anaconda quando ingoiano quei topi giganteschi, i capibara, e si protendeva verso di me, voleva inghiottirmi. Poi pensavo a quelle tette appoggiate sul tavolo, l’erezione mi batteva tra le gambe e dovevo masturbarmi due, tre volte, poi mi prendeva una frenesia alle braccia, come una corrente elettrica che correva sui nervi e li faceva vibrare, li tendeva fino a spezzarli; allora mi alzavo e facevo trenta flessioni, tornavo a letto ma non riuscivo a rilassarmi, dovevo masturbarmi di nuovo, fare altre flessioni, e finiva che accendevo l’impianto stereo e ascoltavo in cuffia Jimi Hendrix con la sua chitarra tesa come i miei nervi, alzavo il volume, sbarravo gli occhi, veniva mattina e balzavo in piedi col fiato corto, mi lavavo con l’acqua fredda e non mi asciugavo, scendevo a precipizio le scale e bevevo un caffelatte mettendo tanto zucchero fino a renderlo melmoso, uscivo nell’aria fredda del mattino coi libri sotto il braccio, prendevo a pugni l’aria, spalancavo la bocca e lanciavo un urlo silenzioso, inforcavo la bici e pedalavo a tutta velocità verso la stazione dove arrivava il trenaccio cigolante che mi avrebbe portato in città, all’Istituto Tecnico Cosmodemonico dove rischiavo una nuova bocciatura e, forse, la mia uscita definitiva dal mondo della scuola.

Un pomeriggio ero al bar dei flipper, sulla piazza vecchia, coi soliti defotronchi Beppe, Lo Svitato e Capocchione quando è passata in bicicletta una signora. Pedalava svelta, e la gonna le saliva leggermente sopra le ginocchia. Quel defotronco dello Svitato si è messo a indicarla col dito e a gridare: “Oi! Guardate quella sposa! Guardatela! Che sposa imperiale che è! Oddio! O mamma!”. Certo, era una bella signora, un sposa piuttosto bella, ma lo svitato era, come al solito, con la bava alla bocca. Non si vedeva niente, solo un po’ di ginocchio. “Che sposa imperiale, ci ha una baffiona di marca leone quella! Aiuto mamma, che baffiona che ci ha quella sposa là! Non ce la faccio, devo farmi una gnetta subito, vado a farmi una gnetta nel gabinetto, dai Toni te vieni con me!” Non so neanch’io perché lo seguito nel bagno, il fatto è che quando ha detto “la baffiona” mi è venuta in mente all’improvviso la professoressa Giuliana, e ho ricordato che, sul labbro superiore, aveva una leggera peluria nera, appena un velo, ma il cuore ha iniziato a battermi forte, ho tirato fuori il pipiricchio e me ne sono fatte due, mentre Lo Svitato continuava a gridare “oh mamma mia che sposa imperiale ci ha una baffiona che non finisce piùùù!”. Mi sono appoggiato al muro ansimando, pensando che tra un’ora dovevo andare da lei, dalla professoressa Giuliana, e il cuore mi è salito in gola.

Ho suonato il campanello della villetta coi muri rosa, mi ha aperto il ragazzo, ha gridato in direzione della scala, la professoressa Giuliana ha detto di salire. Sono entrato nella camera con l’asse da stiro, mi sono seduto accanto alla professoressa Giuliana, ho aperto il libro e la mia mente si è incendiata: guardavo le grandi tette appoggiate sul tavolo, seguivo in apnea la bocca orlata di peluria che pronunciava parole inglesi, la mia erezione mi svuotava lo stomaco. Dal piano di sotto il ragazzo ha gridato che usciva, la professoressa Giuliana ha fatto: “VA BENE!”. No. Non potevo più andare avanti. Non dormivo da molte notti. Non mangiavo quasi più. La sua bocca da anaconda mi seguiva ovunque, mi ossessionava. Vada come vada. Accada quello che deve accadere.

Mi sono alzato in piedi, calmo, mi sono sbottonato i pantaloni, abbassato le mutande e le ho esposto il pipiricchio eretto davanti alla faccia. Non era solo eretto: sentivo come una pressione, come se dentro vi fosse un altro organo che premeva per uscire, per lacerare l’involucro e vedere la luce.

La professoressa Giuliana l’ha fissato, immobile, a lungo. Sembrava pietrificata. Poi, con un sospiro, ha allungato le labbra in un sorriso e ha fatto: “Però!” La sua reazione ha intensificato la mia eccitazione fino al parossismo, guardavo la sua bocca aperta in un sorriso, i denti che biancheggiavano, la peluria sul labbro, il cuore mi saliva in gola, ho spinto in avanti il bacino, ho tentato di infilarle il pipiricchio in bocca; la professoressa Giuliana ha allungato una mano, me l’ha sfiorato in punta, e il contatto con la sua mano calda ha come scardinato una porta: le ho spruzzato un faccia un getto strafottente di spermaceti, sotto l’occhio sinistro, sul naso, sul labbro. La professoressa Giuliana ha spalancato la bocca, ha strizzato gli occhi e ha fatto: “Ehi! Ehi! Che forza!”. Ha riso, mentre io non ragionavo più, non sentivo, non vedevo, non capivo, e mi gettavo su di lei.

“Ehi, piano!” ha fatto la professoressa Giuliana, mentre si sistemava sulla sedia. “Vieni qui, Toni”, ha fatto, aprendo le gambe. “Mettiti qui, in ginocchio, dai”. Mi sono inginocchiato davanti alle sue gambe aperte, e sono entrato. Con la faccia, sono entrato sotto la sua gonna, nella sua baffiona. La baffiona gigantesca e pelosa della professoressa Giuliana. Lei mi teneva la nuca con una mano, con l’altra si spostava le mutande e scopriva la baffiona. Io entravo, con la bocca, la lingua, il naso, la sentivo che faceva “ahhh…” e “ohhh…”, spingeva con la mano sulla nuca, io grugnivo, la divoravo, entravo sempre più, come una nascita alla rovescia, come un’implosione del parto, andavo dentro, mi perdevo.

Non so quanto è durato, ore, giorni, mesi. Ma io volevo la sua bocca. C’era una forza in me che mi spingeva verso l’alto, che guidava la mia faccia che grondava degli umori della baffiona verso la sua. E il mio pipiricchio voleva, pretendeva di entrare in lei. Ero pronto, mi sono alzato, ho spinto il bacino. Ma la professoressa Giuliana mi ha fermato. Si è ricomposta di colpo, mi ha appoggiato una mano aperta sulla pancia. “No, questo no” ha fatto. “Adesso basta. E poi sta per arrivare mio marito”. Si è girata verso il tavolo, ha fissato il libro. “Rivestiti, Toni” ha fatto. “Subito”.

Io mi sono tirato su i calzoni, ho cercato di ricomporre il pipiricchio nelle mutande. I suoi ordini bruschi mi hanno paralizzato. Non mi sono seduto accanto a lei. Sono rimasto in piedi, immobile.

“Quanti anni hai Toni?” ha fatto la professoressa Giuliana.
“Quindici” ho fatto.
“Io quarantadue” ha fatto la professoressa Giuliana, che sembrava meditabonda. “Hai l’età di mio figlio.” Ha chiuso il libro, ha guardato l’orologio appeso al muro. “Ti farò pagare questa lezione?” ha fatto, e non riuscivo a non vedere la traccia di un sorriso sulle sue labbra. “Se ti faccio pagare sarei… una puttana. E se non ti faccio pagare… come lo dico a tua mamma?”. Mi ha porto il libro e mi ha sorriso. Ho avuto un tuffo al cuore. “Adesso vai a casa, Toni. Vai a casa”.

Le pensavo spesso, a scuola, a tavola, a letto, ma non era più come prima. Mi aveva guardato, mi aveva fatto entrare, mi aveva spinto dentro di sé, poi mi aveva spento, di colpo, come quando si soffia sulla fiammella di una candela. Un velo di serietà mortifera mi calava sul cuore.
A letto ascoltavo Jimi Hendrix in cuffia, pensavo alla baffiona della professoressa Giuliana, ma il sonno arrivava quasi subito e sprofondavo nell’oblio, spesso con la cuffia ancora in testa.

Fatto sta che quel pomeriggio dovevo tornare dalla professoressa Giuliana per la lezione.

Cosa sarebbe successo? Avrei fatto finta di niente? E lei? No. Ero deciso. Le avrei cacciato una mano sotto la gonna, lo avrei fatto senza chiederglielo, le sarei saltato addosso. Non m’importava delle conseguenze. La professoressa Giuliana aveva fatto entrare la mia faccia nella sua baffiona, era mia, la sua baffiona. E poi volevo anche le tette, quelle colline appoggiate sul tavolo che l’altra volta non avevo fatto in tempo a toccare.

Mentre scendevo le scale mia madre è uscita dal laboratorio. “Toni” ha fatto, guardandomi distratta, come se non mi vedesse, “ha telefonato la professoressa Giuliana. Ha detto che non può più tenerti. Mah. Aveva detto che non c’erano problemi, poi questa bella novità. Non ho capito perché. Ha degli impegni improvvisi, non so quali”.

“E dunque?” ho fatto.
“Dunque non vai. E’ un bel guaio. Se continui ad essere un asino in inglese dovrò trovare qualcun altro. Ma chi?”

Sono rimasto immobile sulla scala, col libro sotto il braccio.

Sono tornato in camera e ho acceso l’impianto. Mi sono steso sul letto e ho messo Electric Ladyland. La musica ha coperto le voci e le risate delle signore clienti di mia madre nel laboratorio sotto la mia camera.

La professoressa Giuliana mi aveva spento come una candela, non l’avrei mai più rivista.

Ho preso dal comodino il libro che stavo leggendo, di una scrittrice erotica che si chiama Anais Nin. Ho letto per l’ennesima volta un passo che avevo sottolineato: “Voglio sentire musica rauca, vedere facce nuove, strusciare contro altri corpi. Voglio ballare. Voglio conoscere gente perversa, frequentarla intimamente. Voglio mordere la vita, ed esserne fatta a pezzi. Sto andando all’inferno, all’inferno, all’inferno. Scatenata. Scatenata. Scatenata.”

Che m’importava della professoressa Giuliana. Che m’importava del mondo, dell’Istituto Tecnico Cosmodemonico. All’inferno, all’inferno.
La mia candela non era spenta.

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14 Commenti

  1. ciao,
    siamo cittadini italiani, blogger e abitanti della Rete.

    Abbiamo scritto una lettera aperta a Istituzioni, Giornali e Politici per agire attivamente nell’attuale contesto politico e sociale e ribadire il ruolo primario delle persone che pubblicheremo congiuntamente sui nostri blog domani 2 aprile 2008. Se vuoi partecipare all’iniziativa, vieni sul blog a prelevare il testo.

    grazie e buon lavoro

    francesca

  2. Ogni tanto, kualke sorpresa!

    Che parole, “ha fatto” inmvece di “ha detto”, “la baffiona”, “il defotronco”. originale!

    Bello e divertente questo racconto.

  3. Mi sembra di averlo letto da qualche altra parte, sul felliniano concordo.

    Complimenti all’autore

  4. certo la similitudine con gli anaconda che inghiottono i capibara non è male, ciao Mauro, bel racconto, a.

  5. Ho iniziato l’articolo ma il la voro mi aspetta. L’inizio mi piace molto.
    Basta la lingua inglese ( e perdono a mio padre, la mia sorella: teachers in english, e la mia nipote Iris : irlandese per il padre). Ho sempre adorato le lingue latine: spagnolo, e adesso italiano. La lingua inglese no va alla mia personalità. Primo l’accento non passa. Mio padre ha un accento molte forte di Tolosa, ma parla un inglese perfetto: mi chiedo come cambia con l’accento. Ho sempre parlato l’inglese con un accento terribile.

  6. Professori e letterati qui presenti, per favore.
    Non lasciate inascoltato l’appello della gentile véronique vergé.
    Sono talora così bislacchi i suoi commenti da far fatica a capirli bene.
    ;-)

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