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La nonna di Davide (II)

di Giovanni Oliva

Clandestinamente, mi sono già autoinvitato sotto la tavola celeste, imbandita (con ognibendiddio) per gli oppressi, gli sfruttati, i sofferenti, i perseguitati a causa della giustizia, gli emarginati e gli esclusi (con una parola comune: i poveri). Mi accontento delle briciole che cadono a terra. E delle gocce versate.

Prestatemi ascolto. Questa è la storia di Pašana (si legge Pasciana) conosciuta anche come Anna e affettuosamente chiamata dai suoi innumerevoli famigliari Bica (nonna), madre prolifica con una discendenza che già supera il centinaio di persone (fra figli, nipoti e pronipoti sparsi in tutta Europa). Se ne è andata, vecchia di quasi ottant’anni, l’estate dell’anno scorso, all’alba, alla vigilia di ferragosto. Era da tempo malata. Non la vedevo da diversi giorni. La notte prima, a causa di un forte mal di testa, non riuscivo a prender sonno e, fra gli altri pensieri, rimuginavo un po’ di sensi di colpa. Negli ultimi tempi l’avevo trascurata. L’indomani mattina vado al “kampo” (è la parola con cui nella lingua dei romá si chiama l’accampamento) per farle visita. Incontro suo nipote Alexander . “Dov’è Bica?”. “L’ hanno portata all’Ospedale”. “Sta male?” “E’ morta” “Se ne è andata stanotte, ti ha cercato tanto, ieri mi ha fatto telefonare tante volte nel tuo studio, ma tu non c’eri”, mi dice una donna.
Se ne è andata senza ottenere la “pensia” (così chiamava la pensione) tanto attesa e che lei si era convinta le spettasse.

Pašana O. era nata nel 1927 a Zupa un paesino vicino a Niksic, nel Montenegro da una famiglia rom khorakhané. “Tessitrice”, così si legge nei suoi vecchi documenti jugoslavi, ancora giovane si era sposata con Muradif H. e si era trasferita in un paesino vicino a Mostar dove era vissuta fino agli anni ’70 quando emigrò per raggiungere una parte dei suoi figli in Italia. Ultima destinazione: la Sardegna.
Prima con un permesso di soggiorno concesso con la “Legge Martelli” (vi si leggeva: regolarizzazione per iscrizione liste di collocamento), Pašana era invecchiata senza trovare altro lavoro se non quello faticoso del mangel (si legge manghel e nella lingua dei romá significa chiedere, nel senso di mendicare), lavoro che la costringeva, in tutte le stagioni e con qualsiasi tempo, a girare per le città (soprattutto Sassari e Alghero), con il suo caratteristico sacco in spalla. Un lavoro che lei faceva con dignità e che mai le aveva impedito di mantenere, pur nella povertà dei mezzi materiali, quel suo portamento quasi regale che rivelava un animo forte, ricco di esperienza, saldo nei princìpi. In gioventù doveva essere stata una bellissima romní. Nonostante i disagi di una vita da accampata, amava i fiori, di cui la sua casetta (la barakkina) era circondata e di cui spesso mi faceva dono (mia moglie si farà gelosa, scherzavo, portali a lei, mi diceva, accennando un sorriso). Amava fumare, beveva vino rosso e quando arrivava Gugervdam, la festa grande, ballava, come una ragazzina. Abbiamo ballato assieme tante volte, al kampo, , máskar e borori, sollevando polvere e buon umore.
Era sorella di due partigiani iugoslavi, due giovani romá morti durante la guerra di liberazione contro il nazifascismo. Conservava con orgoglio un attestato nel quale erano riportati i loro nomi. Un foglio che sapeva di fumo, scritto in caratteri cirillici, con i simboli e le bandiere dello stato socialista (stella e falce e martello), ingiallito, ormai consumato dal tempo, bagnato dalla pioggia degli innumerevoli accampamenti di fortuna, asciugato davanti al fuoco benedetto dei bivacchi notturni (dove le scintille delle fiamme si confondono con le stelle). Me lo fece vedere e, commossa, me lo affidò chiedendomi di restaurarlo e incorniciarlo. Perché si conservasse quella memoria.
Guardando la televisione, alla vista dei bambini affamati del terzo mondo una volta mi disse, con la stessa infantile ingenuità di mio figlio, che avrebbe voluto adottarne qualcuno. Non capiva perché, la nostra società ricca e sprecona, non facesse tutto il possibile per aiutarli a vivere.

Anni fa Pašana iniziò a manifestare i sintomi di varie patologie (algie diffuse, cefalee, bronchiti) che a seguito di ricoveri ed esami portarono i medici a diagnosticare una “cardiopatia ischemica con prolasso valvolare mitralico ed enfisema polmonare”. Entrava ed usciva dall’Ospedale.
Mi informai presso gli uffici della CGIL se Pašana avesse diritto a una qualche assistenza pensionistica, almeno la minima, che le risparmiasse le ingiurie quotidiane di un lavoro itinerante esposto a tutte le intemperie. “Certo, mi risposero, alla sua età e nella sua situazione, ha diritto alla pensione sociale”.
Si fa la domanda all’INPS. Dopo nove mesi, nel dicembre del 2000, poco prima di Natale, la risposta: “la domanda di Assegno sociale non è stata accolta per i seguenti motivi: il permesso di soggiorno risulta scaduto alla data di presentazione della domanda”.
Ah, ecco, il permesso di soggiorno. Pašana ne aveva goduto per diverso tempo. Rinnovato negli anni, anche per motivi umanitari in corrispondenza della tragedia della guerra civile nei Balcani . Poi, per distrazione, a causa dei suoi ricoveri, le era scaduto, senza che provvedesse in tempo a chiederne il rinnovo. Né i suoi figli né io né gli altri amici, ce ne eravamo resi conto.
Si fa quindi subito richiesta per il rinnovo, convinti che non ci sarebbe stata difficoltà ad ottenerlo. Non potendo più giustificare la sua presenza in Italia per ragioni di lavoro, le viene chiesto di dimostrare come si mantiene. Ha diritto alla pensione sociale (se avesse il permesso di soggiorno). Ma senza permesso di soggiorno niente pensione. Niente mezzi di sussistenza dimostrabili, niente permesso di soggiorno. Il circolo è vizioso. Qualcuno suggerisce che potrebbe figurare a carico di uno dei figli, che gode già di un permesso di soggiorno e che può dimostrare di percepire un reddito. Va bene. C’è Elver (per i familiari e gli amici Ago, Agostino per i gagé, e poi Branko e chissà come ancora; ogni rom è ricco perlomeno di nomi): eccezionale e stimato artigiano del rame, un vero e proprio artista, titolare di una regolare attività di lavorazione di metalli, beneficiario di un prestito d’onore (primo rom in Italia). È figlio di Pašana, con la quale vive presso il kampo di Alghero. Ma Pašana può dimostrare di essere sua madre? Certo, c’è il certificato di nascita originale. Controlliamo e in effetti Elver risulta figlio di… Fatima ?!? La vita riserva mille sorprese. La carta scritta le moltiplica.
Come è possibile? Chi è questa Fatima? A chi appartiene questo nome? Come c’è finito nel certificato di nascita di Elver? Fatima era in effetti un soprannome di Pašana quando viveva in Jugoslavia (mi dicono). Qualche parente, magari ubriaco (mi dicono), è andato a registrare il nuovo nato nell’anagrafe del paese, rilasciando le generalità dei genitori ad un impiegato, magari ubriaco (mi dicono). Nessuno se ne era accorto, fino ad oggi. Così Ago (Elver) risulta figlio di Fatima (Pašana ). Briciole di allegria. Se non fosse per la burocrazia, che non ammette scherzi.
Pašana non capisce. Ma come, non riconoscono che Ago è mio figlio? Ma cosa vogliono fare? Ci prendono in giro? Perché ci trattano così, come bestie?

Per diversi anni si è cercato di trovare una soluzione a questo problema di ordinaria burocrazia. Senza riuscire a risolverlo.
Abbiamo tentato molte strade. Alcuni funzionari interpellati non capivano le ragioni dell’insistenza e dell’urgenza. A che le serve il permesso di soggiorno? Non deve temere. Nessuno la caccerà dall’Italia. Fra l’altro è nonna di giovani e bambini che sono cittadini italiani. Ah, è per la pensione? Una questione di soldi? Veramente sarebbe una questione di diritti. Alla fine, frustrato, anch’io ho abbandonato Pašana al suo destino. Veniva in studio, sempre più provata e mi chiedeva: Giovanni qualcosa di nuovo per il permesso di soggiorno? E la pensia, perché non mi arriva? Non sapevo cosa rispondere. Mi vergognavo per me stesso, incapace di dipanare l’imbroglio.

Presto, come tutti gli anni, l’acqua che viene dal cielo allagherà il kampo, máskar e borori, trasformandolo in un pantano.

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5 Commenti

  1. Bel testo intorno a un ritratto di donna ricerca la sua identità.
    Madre prolifica, ho molto ammirazione per queste madri che danno come un albero, molti rami.
    Madre che portano la stanchezza, l’amore, la cura.

  2. Giova’ e così anche Bica è approdata a Nazione Indiana.
    Non la conoscevo, ma conosco Ago – me l’hai fatto conoscere tu.
    Gli sono riconoscente perché la mia casa è allietata da due suoi lavori – il mio non me lo ha nemmeno fatto pagare – due “sculture” in rame: una disegnata da me e una da te.
    Ciao.

  3. Vedo che nemmeno i più felici commentatori i NI sono intervenuti su questo pezzo, che si configura come inziativa “pratica” per aggredire in qualche modo – a ognuno secondo la propria possibilità – il problema degli zingari.
    Questa serie di “biografie” farà parte infatti di un libretto che verrà distribuito gratuitamente agli abitanti di Alghero: SE LI CONOSCI NON LI ODI, perciò faccio questo che non so se è consentito o se risulta antipatico [nel caso prego Domenico di cancellare quest’intervento]:

    http://lalucedimizar.splinder.com/post/17296758/Zingari

  4. @Cossu
    sembri una freccia magica, che va al bersaglio facendo mille evoluzioni.
    Non ho neppure ben capito perché mi hai linkata, forse come esempio di ignoranza.

    Comunque, io temo che i libretti da soli servano a poco (da noi, poi, dove nessuno legge)
    In una situazione così grave la mobilitazione dal basso richiede troppo tempo, ci vuole una lobby rompiscatole, martellante, continua e autorevole per superare quelle “distrazioni” di cui ho letto qui sopra.
    Politica anche. Ma quale politico dell’opposizione, così timoroso, potrebbe correre il rischio di mettersi a fare lobby a favore degli zingari? Anche gli zingari dovrebbero fare forse di più, nel senso di più astuto, pensato, creativo, spiazzante, continuo, qua ci vuole il concorso di tutti perchè l’essere umano è come lo spettatore di Vermicino, che passa la notte a vedere come cercano di tirare un ragazzino fuori da un pozzo, e dopo che è morto e la televisione ha spento i riflettori, passa a Domenica In.

  5. @Alcor
    scusa, immaginavo che il mio gesto (link) non fosse del tutto ortodosso. Ma l’ho fatto per ragioni del tutto opposte a quelle che richiami tu. L’esempio, il tuo, è di coscienza, di turbamento, per un problema che coinvolge tutti noi, ma rispetto al quale nessuno di noi sa quale può essere il contributo positivo che può portare, mentre impazza il neofascismo istituzionalpopolare.
    L’intenzione era anche sollecitare interventi che portassero al mio amico fraterno Giovanni Oliva un po’ di solidarietà, in questa che è soltanto una delle infinite iniziative a favore degli rom, da lui da lui prese in tutti questi, lunghi, anni.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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