La sola dell’avvenire

di Christian Raimo

Come forse si poteva anche prevedere, il disastro elettorale di aprile (al confronto del quale lo sbandamento della “gioiosa macchina da guerra” appare oggi come un incidente di percorso) si è portato dietro anche un’implosione linguistica. Due aggregati pseudopolitici partoriti in fretta come il Pd e la Sinistra Arcobaleno si sono sbriciolati soprattutto contro se stessi, invalidando di fatto la possibilità di utilizzare anche in futuro il misero repertorio valoriale che avrebbero voluto tesaurizzare: cose come “il modello Roma” o un antagonismo di classe atomizzato. E quindi obbligando chiunque voglia riaversi da questo ground zero politico, a ripartire sicuramente non “da qui”, ma “da altrove”, a cercare qualunque altro tipo di riferimento ideale, di germe identitario per dare vita a qualcosa che possa chiamarsi sinistra.

Ma le colpe di Veltroni in questo senso sono state forse maggiori di quelle non piccole di Bertinotti. Nel suo progetto di suicidio morbido, l’ex-sindaco nel giro di pochi mesi è riuscito a segare prima il ramo su cui era seduto per poi sradicare direttamente l’albero. Non solo infatti ha fatto piazza pulita delle esperienze di governo esistenti, la sua e quella di Prodi, ma soprattutto ha eliminato – una pulizia etnica concettuale, si direbbe – almeno un secolo di pensiero e prassi politica in Italia. Il suo “shock di innovazione” ha funzionato sì, ma come l’ultima scossa di una sedia elettrica. Quest’eutanasia lampo è stata compiuta in nome di una battaglia contro un nemico esplicito: una militante campagna contro le identità.

Nel momento in cui Veltroni è diventato segretario del partito che lui stesso ha plasmato dal fango e ha avuto modo di chiarire quali fossero le basi della sua visione culturale e politica, si è subito affrettato a scagliarsi contro le tradizioni dei movimenti e dei partiti del Novecento, liquidandoli come blocchi sociali, abbarbicamenti nostalgici, pulsioni minoritarie. Parallelamente a quest’opera di repulisti, si è anche prodigato per una ridefinizione dei termini del conflitto con l’anomalia berlusconiana, di fatto legittimandola come mai prima. Scatola vuota per scatola vuota – qualcuno avrà pensato –, Forza Italia ha comunque quindici anni di storia. Questo è avvenuto secondo almeno due direzioni strategiche di comunicazione, forse veramente concepite da qualche spin-doctor.

La prima possiamo chiamarla “l’elogio preventivo del contesto”: in ogni occasione in cui Veltroni ha parlato da sei mesi a questa parte, le sue prime parole sono state un elogio incondizionato al contesto in cui il confronto avveniva. Con punte di quasi beatificazione della tautologia, ha lodato la piazza, lo studio televisivo, la pacatezza dei toni dell’intervistatore, il mero fatto che si fosse lì: “Innanzitutto fatemi dire come questa campagna elettorale sia migliore di tutte quelle precedenti”. Il risultato era che al di là del programma che andava sbandierando, chi lo ascoltava non ha mai avuto il minimo sentore di critica dell’esistente. Anche questo evidentemente doveva avere a che fare con quello che si intende per “vocazione maggioritaria”. Soprattutto se accostata alla retorica berlusconiana, che nei manuali di marketing di Publitalia passati in mano ai militanti di Forza Italia consigliava di relazionarsi nel pubblico confronto come Berlusconi aveva sempre fatto: lodare il sorriso della donna, lodare la cravatta dell’uomo, anche qui preventivamente.

La seconda arma del discorso veltroniano era più raffinata a prima vista. Seguendo forse le indicazioni del linguista George Lakoff, dalla campagna elettorale in poi il nuovo leader del Pd pareva aver deciso di evitare di “pensare all’elefante”. Come i democratici negli States rispetto ai conservatori, anche lui ha scelto di non nominare Berlusconi, ritenendo così di districarsi da quella che sembrava essere una delle tare più ingombranti della sinistra recente: la demonizzazione dell’avversario, l’antiberlusconismo fine a se stesso. Seppure l’intenzione poteva essere lodevole – togliere al contendente Berlusconi la possibilità di imporre sempre lui l’ordine del giorno del dibattere, sottrargli il fronte del palco –, la retorica sostitutiva è stata peggiore di quella da superare. Proponendosi di non stigmatizzare mai l’uomo col bandana, Veltroni e i democratici si sono però concentrati a non farsi sfuggire nemmeno uno degli argomenti della destra (dallo sprezzo dello stato sociale all’elogio dell’inesperienza), impiccandosi poi da soli col nodo scorsoio del “tema della sicurezza”. In un tentativo scomposto di farlo proprio, “rideclinandolo”, in contorcimenti, distinguo lessicali, aggettivazioni ad hoc, di cui gli elettori – più identitari forse? – hanno stentato a riconoscere la consistenza: perché per presidiare un luogo presuntamene pericoloso devo piazzare cinquanta telecamere se posso direttamente organizzare una ronda?

Ma l’aspetto meno evidente della prospettiva veltroniana è ancora un altro: la povertà di visione ideale. Nel momento in cui gli è toccato farsi carico di un progetto politico che andasse al di là di una plausibile agenda amministrativa, l’entusiasmo puff! si è dissolto. Anche questo trova il suo alibi sì, in un atteggiamento intellettuale fiacco: far coincidere la (supposta) comprensione sociale con il progetto politico. Il commento sui tempi spacciato per immagine del futuro. È indicativo in questo senso vedere come venga utilizzata, come strumento di analisi dei mutamenti del mondo, la vulgata sociologica di Bauman (anche nella lettera a Repubblica del 1 giugno): Veltroni ci aderisce in toto, e sembra che questo basti. Il mondo è liquido, il bisogno di sicurezza è legittimo, occorre disinnescare il clima di paura, serve solidarietà e severa certezza della pena. È permesso chiedersi dov’è la prospettiva teorica, progettuale, francamente politica, esemplare, simbolicamente efficace, personale?

E poi: in che modo il tema della sicurezza, con il suo portato semantico di evidente separazione – tutela di una parte della popolazione a scapito di un’altra – possa ancora essere rivendicato come un argomento di sinistra, è veramente difficile da capire; specialmente se lo raffrontiamo con quella che sembrava fino a poco tempo fa la vera parola chiave della sinistra: l’uguaglianza. Qualcuno ne ha sentito parlare negli ultimi tempi?

Certo questa svolta linguistica doveva portare i suoi frutti, nella fattispecie il più prezioso: il nuovo. Il nuovo, nella neo-lingua veltroniana (ossia nel tragicissimo esempio di una metamorfosi orwelliana perdente), era tutto nella “vocazione maggioritaria” che la sinistra atavicamente litigiosa doveva finalmente fare sua: “conquistare” – come si legge nell’ormai malinconico La nuova stagione – “i consensi necessari a portare avanti un programma di governo”.

Nel frattempo in cui però si sono rifiniti ogni giorno i dettagli di questo governo imminente, ci si è un po’ distratti dall’immaginare un diverso tipo di società. Certo, se si fosse vinto, poco male. Ma, alla luce del risultato, la strategia di comunicazione non è stata quel che si dice efficace e le prospettive oggi sono quelle di un orizzonte stampato su poster attaccato al muro di un loft. Non sapendo fare altro che governare, i rappresentanti del partito democratico si sono inventati quindi una lunghissima sessione del gioco di ruolo chiamato governo-ombra. Il tempo da passare sono solo cinque anni, ha giurato il leader. In attesa, aspettando la definitiva maturazione della politica italiana (forse il partito “a vocazione unica”), chi può si arrangia andando a rispolverare qualche minimo tratto distintivo. Dai radicali ai cristiano-sociali e addirittura un partito rabberciato come l’Italia dei Valori prova a dire che tipo di società vorrebbe, differenziandosi dall’orizzonte degli eventi del Pd, semplicemente affermando la propria esistenza in vita. In altri casi, più isolati, c’è ogni tanto qualcuno che tenta invece di difendere categorie ormai in disuso come la giustizia sociale, l’identità dei diritti, la critica al sistema economico, l’antifascismo… Del resto, la sinistra dovrà pur risorgere da quello che è diventata: una piccola simpatica sottocultura, come i fanatici di Star Trek o quelli del curling.

(scritto per il giornale online di DeriveApprodi: www.deriveapprodi.org)

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18 Commenti

  1. Cosa dire? Intelligentemente esplicita, ha sviscerato i problemi esattamente nella forma in cui ci si presentano. L’unico appunto possibile e’ che e’ stato fin troppo dolce nei confronti di colui che da referente principale del post-comunismo (veltroni) si e’ reso assassino di tutti i valori della sinistra. Serpe in seno. Ha reso i partiti antifascisti e antidemocristiani una semplice alternativa al centrodestra. Se voti me, e’ meglio; ma anche se voti berlusconi va bene comunque perche’ i suoi valori sono rispettabili (mafia, P2, corruzione, guerra, imprigionamento di chi emigra per fame).

  2. Copio, e incollo nella mia mente.
    Ma è una magra consolazione, di questi tempi, avere le idee chiare.
    Si tratta infatti, se vogliamo che il nostro pensiero abbia una qualche efficacia, di passare da un’esercito di pensieri a pensieri su un’esercito.

    La pena, il disagio, il disprezzo, è che, su questo terreno, ciò che è stato pensato nell’ultimo secolo è soltanto il ‘partito leninista’: l’avanguardia del proletariato: sappiamo com’è andata a finire.

    Niente prassi, quindi, per adesso.

    Potremmo però, per non stare con le mani in mano, tentare – è l’unica cosa che ci è rimasta – mettere mani alla mente.
    Tentare di riappropriarci di temi un po’ trascurati, ultimamente, come mette in evenza Christian Raimo nel suo bellissimo e chiarissimo articolo.

    Per esempio: seguendo indicazioni che sono venute anche da altre pagine di NI, sospendere, per un attimo, il nostro attaccamento alle porte occidentali del nostro pensiero politico – per es. le masturbazioni folliache di qualche vecchio papero ancora in vita anche se morto trent’anni fa, ma non per questo non esaltato dai più grandi e monopolistici strumenti di condizionamento informativo dell’Impero – e ritornare invece alle porte orientali della Rivoluzione Francese, con le due trimurti di personaggi e principi: Robespierre, Marat, Danton, Fraternità, Uguaglianza, Libertà.

    Lasciata la Libertà alla destra, che se l’è ben meritata, e la fraternità al privato e alla Chiesa, che invece non se l’è meritata per niente, fare dell’Uguaglianza il perno della nostra azione e del nostro pensiero.
    Ma siccome in un unico modo si può perseguire questo obiettivo, lasciare alla destra anche la definizione di Sinistra, prendendoci, noi, in cambio, quella di Destra, per pretendere e costruire uno Stato abbastanza forte e con un’autorità sufficiente a perseguire, per quanto è possibile, questo obiettivo egualitario.
    Nauralmente, in questo modo, verrebbe incorporato nell’uguaglianza lo stesso problema della sicurezza: perchè tra uguali nessun individuo può prevaricare, danneggiare gli altri. Se succedesse, questo andrebbe represso con forza.

  3. Non soltanto il suicidio della sinistra è linguistico prima di tutto, ma la deriva della società e della cultura sono derive linguistiche. Da “un attimino” a “mi auspico”, una mutazione socio-antropologica si è inverata nel modo di parlare e, per l’effetto, di pensare (?) della quasi totalità della brava gente italica. Banalità per banalità, luogo comune per luogo comune, stravolgimento sintattico per stravolgimento sintattico, la categorie concettuali che vagano nei pascoli mentali intorpiditi della tele-opinione pubblica si sono depauperate al limite della mutilazione. Qualche esempio: il “maggioritario” è inteso e apprezzato come negazione dei diritti delle minoranze, la cultura giuridica è un coacervo di “lacci e lacciuoli” che imbriglia la fantasia imprenditoriale, la “volontà popolare” è il lavacro di qualsiasi nefandezza, etc. Attraverso semplificazioni sempre più distorcenti, perfino il fascismo è diventato un’idea come le altre, lecita in quanto idea anziché illecita in quanto idea di morte. Alla nuova povertà lessicale, la cultura di sinistra (che era poi la cultura tout court) ha contribuito con acquiescenza modernista: a uno storico patrimonio di valori ha bellamente accettato di sostituire valori teleinculcati fondati sul successo mediatico, sulla primazia monetaria, sull’aggressività convivente con un pietismo ipocrita. Dallo sdegno anti-pedofili, ai rom che delinquono, alla retorica bolsa della patria e di Mameli, è un tutto un campionario di ideali unificanti, di assiomi dalla superficialità sconcertante ma unanimemente condivisi. “Cambiare le forme e le strategie della comunicazione” predicavano i cervelli PDS/DS/PD… Per comunicare che cosa? Se la quasi totalità della politica concepisce il capitalismo post-industriale come il migliore degli assetti produttivi e come unica forma possibile di società, a cosa servono parole nuove, parole critiche, o semplicemente parole?

  4. L’articolo di Raimo è bello, molto bello. I commenti all’articolo sono condivisibili, molto condivisibili. Ma, concedetemi di pensare, se siamo a questo punto è perchè noi di sinistra sappiamo solo parlare, arrovellarci in “considerevoli masturbazioni linguistiche pseudo-intellettuali che non giungono a nessun dunque”. Perchè? Perchè ci parliamo sempre addosso! Quanti siamo? Quindici, Venti? Centomila, un milione? Tre milioni? Noi di sinistra continuiamo a dirci cose che sappiamo, ma non riusciamo mai a divulgarle a chi già non le sa! Ė questo oggi un Paese in cui sono scomparse le figure intellettuali che riescono a parlare al Popolo, a urlare il disprezzo per la barbarie in cui sprofondiamo ogni giorno di più! Dove sono gli intellettuali di questo Paese? Dove sono? Dovrebbero urlare! Dovrebbero urlare! Se la risposta è che non ce ne sono, come già qualcuno mi ha risposto, a cosa dobbiamo prepararci? A sprofondare e poi riemergere dal fango piano piano? Ma non è quanto già accaduto? Non è quello che accadeva all’inizio del secolo scorso? Lottare contro la barbarie e l’addormentamento delle coscienze non è forse un dovere di chi possiede ancora spirito critico? Voglio solo dire, fuori dalle pagine su cui tanto ci piace scrivere, ci sono delle piazze che ci attendono. Non consegnamole agli eserciti!

  5. “Schifosi, tornatevene a casa”: era il titolo di un talkshow sugli stranieri in cui mi sono imbattuto poco fa su un’emittente televisiva regionale lombarda.
    Se non cominciamo a lavorare sul serio su questa teratogena stretta mediatica, la degenerazione di cui stiamo vedendo solo i prodromi sarà senza ritorno.

    Probabilmente si potrebbe cominciare con una grande manifestazione antirazzista, di quelle banali, di quelle proverbialmente inutili, di quelle vecchio stampo: ma grande, lunga, festosa e il più pop possibile, promossa a prescindere dai partiti e cercando di coinvolgere, per semplici ragioni di tattica comunicativa, personaggi famosi che aiutino a propagarne l’eco dentro il teatro dei media (che lo si voglia o no, è lì che si gioca e si giocherà quasi tutta la partita: non nel mondo ma nella su rappresentazione). C’è un disperato bisogno, credo, di un segno visibile che stoni nel lugubre coro narrativo che sta facendo marcire il paese.

  6. Voi di sinistra, caro Cigno Nero, continuate a dirvi cose che sapete, ma non riuscite mai a divulgarle a chi già non le sa, perché scegliete di frequentare solo persone che già sanno le cose che voi sapete. E Christian Raimo è così lucido perché non è di sinistra, non è laico, non è postcomunista, e frequenta anche persone che non gli somigliano. Non lo conosco di persona, ma questo si vede dagli articoli che scrive e dai suoi racconti.

  7. Analisi perfetta cara Valentina. Solo che mi sembrava di avere scritto proprio questo prima…
    Se parlo di “sinistra” è perchè la tematica dell'”anti-barbarie” è SEMPRE stata una bandiera della sinistra, bandiera che adesso è nascosta, se non addirittura bruciata, dai dirigenti dei partiti della sinistra parlamentare (ed ex-parlamentare). Non è che voglia necessariamente ridurre la questione ad una mera distinzione tra destra e sinistra.
    Inoltre, ma questo non puoi saperlo se non te lo dico, anch’io sono un sostenitore delle contaminazioni fra testoline, dei confronti, ma è proprio questo che manca oggi in Italia. Non prendiamoci in giro, oggi davanti alle grandi platee, che siano esse televisive e non, quando il livello rasenta il suolo, non c’è nessuno che interviene a rialzarlo. Nessuno punta il dito contro i colpevoli e nessuno vuole essere ritenuto responsabile di aver detto parole che infastidiscano il regime. Perchè è sotto un regime che stiamo vivendo.

  8. @ valentina. Essere laici non significa essere “atei” o comunque non essere cattolici, protestanti, cristiani in senso lato o di qualsiasi altra fede religiosa. Ergo una persona non laica è in genere un religioso (…). La laicità dello stato, teorizzata a partire dal tardo medioevo proprio in Italia (dove per ironia sembra non affermarsi mai), è semplicemente la volontà di dividere l’autonomia di una comunità civile da ogni condizionamento o potere morale o religioso stabilito da altri, maggioritari o minoritari che siano.
    Ma questo concetto molto semplice in questo paese viene poco compreso ed è uno dei problemi storici che ci portiamo dietro.

    Detto questo: l’articolo di Raimo è più che condivisibile, così come la paura reale di parlarci solo addosso, di cui dice Black Swan ed il desiderio che simili contenuti arrivino a più persone. Il fatto è, a me sembra, che in Italia manca l’educazione come valore – la volontà di educare, di iniziare non tanto dalle piazze e dal popolo, ma dal futuro, dai giovani, dai ragazzi, nelle scuole e altrove. A tutto ci si educa (non indottrina), specialmente alla libertà e all’uguaglianza. La nostra coscienza politica odierna è già molto confusa. Ma quella delle generazioni emergenti è quasi del tutto morta sul nascere. Questo a me dà i brividi.

  9. Purtroppo, caro Cigno Nero, il socialismo reale è stato una barbarie. Christian Raimo, cara Francesca Matteoni, è appunto un religioso: frequenta una comunità che propone una sorta di sacerdozio universale, ossia di tutti i fedeli.

  10. Un giorno, non so se c’è da sperarlo o meno, arriveremo a fare dell’agiografia di Walter Veltroni. E sarà sicuramente meno bella e vincente di quella di Berlusconi. Proprio perché l’agiografia di un Buono è più noiosa di quella di un Ganzo all’italiana (Berlusconi vince perché, inconsciamente, l’80% degli italiani pensa che sia un trickster degno di questa nazione) e solo “Cuore” ci riusciva a metterli sullo stesso piano.

    La chiusura di Christian rivela uno dei mali di questi anni: milioni di persone che pensano di essere e credere in questa sottocultura “di sinistra” solo perché usufriscono di status symbol della sinistra col trademark, accodandosi indifferentemente un tempo davanti al comizio della festa dell’Unità, con la sua griglia sfrigolante di salsicce, ed oggi davanti alla griglia di convenevoli del dibattito televisivo (o magari davanti al più contenuto brunch al loft, a cui però nessuno partecipa…)

    Come diceva Francesca, queste persone sono state veramente educate ai propri valori? Ed oggi interessa ancora, oppure i cosiddetti ggiovani del PD non sono altro che una schiera di nuovi imprenditori del Parlamento, disposti a lasciare da parte ogni valore per un posto al caldo? Che dalla kefiah si sia passati alla Fred Perry poco cambia in fondo.

    Quanto all’idea di una società nuova, credo che a questi signori della politica, portaborse della prima Repubblica entrati dentro attraverso la breccia di Mani Pulite (operazione legittima ma dai risvolti imprevedibili!) non possa fare che da intralcio: meglio una società a singhiozzo, che si disgrega e divide in quartieri, sette e etnie quando serve per attaccare il campo rom di turno (o la piazza gremita di giovani che “disturbano” la loro quiete) e si riaggruma ad uopo quando ci sia da votare il Partitone Unico.

    Un singhiozzo che mi pare però in discesa, che più che stantuffo è un ultimo singulto, degli italiani separati l’un l’altro, vicino contro vicino, ma terribilmente identici.

  11. @valentina – a posto, non lo sapevo. Mi premeva di chiarire il punto sulla laicità, a prescindere.

  12. Cos’è una “sorta di sacerdozio universale”? Lo dico senza ironia, con reale interesse.

    Bello il pezzo di Raimo. Ora aspetto il post di un Veltroniano.

  13. Valentina, per come la vedo io il socialismo reale viene applicato per la prima volta nella storia in Venezuela, in questi anni, da Chavez e con buoni risultati, credo. Se poi ti riferisci alle esperienze di Unione Sovietica, Cina, Cuba(?)… a dittature insomma, bè si, concordo con te, sono barbarie

  14. Vorrei fare solo un piccolo intervento … specioso (!)
    Il disastro di cui parli, Christian (certo è passato un po’ di tempo ma ho visto NI solo stamattina dopo parecchio tempo), è legato credo a una diffusa inconsapevolezza (…! – incoscienza?) linguistica, punta d’iceberg, direi SKYLINE, di ben maggiori ambiguità, di cui mi pare nessuno si sia accorto.
    I due ‘contendenti’ non sono repubblicani e democratici, conservatori e laburisti, destra e sinistra… MA: PDL e PDI – morfologicamente, fonologicamente, semanticamente, strutturalmente, linguisticamente, teoreticamente, logicamente, filosoficamente … NON CI SIAMO!
    Voi ci vedete qualche differenza, qualche pur formale contrapposizione?
    ……

  15. Walter Veltroni ha dichiarato a chiare lettere: il PD non è un partito socialista, è un partito di centro-sinistra. Mi pare, forse deraglio dall’oggetto però mi preme dire, che il fatto dirompente e importante, scardinante del nostro italico andazzo pluridecennale, nella rivoluzione pacifica innescata da Veltroni, stia nelle primarie, nella raffica di consultazioni preliminari che dovrebbero scremare, cioè via via individuare con larga adesione, chi è deputato a rappresentarci – MICA POCO!

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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