Ai miei amici patrioti che sono stati messi in carcere

di Angelo Maria Ripellino

[ Si pubblica l’eccezionale testimonianza di Ripellino sull’invasione della Cecoslovacchia, apparsa nel servizio Dietro il muro di Praga («L’Espresso», XIV, 35 – 1° settembre 1968), adesso raccolta nel volume L’ora di Praga. Scritti sul dissenso e sulla repressione in Cecoslovacchia e nell’Europa dell’Est (1963-1973). A cura di Antonio Pane, Le Lettere, Firenze 2008. ]

Sono tornato da Praga con disperazione e con rabbia. Dopo aver vissuto per due mesi le speranze e le apprensioni di un popolo, alla cui cultura ho dedicato gran parte della mia esistenza. Tanto più amaro è il mio ritorno in quanto questo magnifico popolo è stato offeso e schiacciato dall’esercito di un altro paese, della cui letteratura io sono da lunghi anni testimonio ed amico in scritti e lezioni. È tempo di liberarsi ormai di tutte le illusioni e di tutti gli inganni nei riguardi della Russia. È chiaro che la presente avventura sovietica, coperta del solito leucoplasto ideologico, con le sue brutalità e i suoi colpi di teatro, questo miscuglio asiatico di truculenze e di falsi e di minacce e di beffe e di abbracci e di parolone, si inquadra logicamente nella cornice secolare della storia russa, come se nulla fosse cambiato dalla sanguinaria e crudele epoca di Ivan il Terribile e come se i cecoslovacchi fossero i tartari della città di Kazan’, da lui conquistata.
Del resto sia pure così: Kazan’, dicono le cronache del Cinquecento, era una marmitta dentro cui il popolo ribolliva come acqua.
Ho trascorso dunque questi due mesi nel Castello degli Scrittori vicino Praga, in continuo contatto coi redattori di Literární Listy, e devo dire che, nonostante l’ottimismo di alcuni corrispondenti occidentali, le brevi schiarite non hanno mai dissipato dagli animi cecoslovacchi la pesante inquietudine, specie dopo il prolisso ed ambiguo documento di Bratislava. Un orecchio attento coglieva nel tono vagamente rassicurante dei discorsi di Svoboda, Dubček, Smrkovský reticenze e circonlocuzioni pervase di angoscia. Ci si aspettava da un giorno all’altro l’invasione, e lo scetticismo non si offuscò nemmeno quando fu annunziato dalla stampa che le truppe straniere venute per le manovre se ne erano andate definitivamente. Ci pareva, la notte, riuniti nella sala da pranzo del Castello, di udire un infausto rotolìo di carri armati nel silenzio sulla provinciale che lo costeggia. Specie dopo il 18, quando si sparse la voce che i cosiddetti ‘alleati’ preparavano nuove manovre in territorio cecoslovacco, eravamo certi che una notte ci avrebbe svegliati una nera realtà senza scampo.
E infatti così è avvenuto: nella notte tra il 20 e il 21, appena si seppe che lo straniero avanzava con tutta la sua mostruosa ferraglia e calava dal cielo sull’aeroporto praghese, gli amici mi convinsero a partire in fretta, prima che fosse troppo tardi, e a dirigermi per strade marginali e poco battute verso il valico di Rozvadov, che porta a Norimberga. Mi dissero: vattene subito, è meglio per tutti noi, potrai meglio aiutarci di fuori che restando qui, in gabbia.
Sembra di fare del pathos, ma il congedo dagli scrittori che erano allora al Castello in subbuglio, pieni di astio per la tracotanza dei falsi ‘alleati'[,] è stato infinitamente triste, e indimenticabile. In soli trent’anni la seconda occupazione, con lo stesso fragore di carri pesanti e la stessa tecnica che russi e tedeschi si trasmettono in una gara di emulazione, e questa volta in nome di una ‘fratellanza’, su cui è ormai posta dai cecoslovacchi una croce. Fratelli: ho finito per odiare questa parola. Correndo in macchina tra le fitte spalliere di boschi della Boemia occidentale, ripensavo alle lunghe, estenuanti discussioni al Castello, durante le quali cercavamo di spiegarci l’insania sovietica; ripensavo agli intellettuali a me cari, che avrebbero ora subìto nuove persecuzioni; ripensavo alla solitudine di questo popolo nel cuore dell’Europa, spezzata in due da una lacerazione irrimediabile. Mi tornava in mente un passo di Jan Procházka nel libro Politica per ognuno, uscito da poco: «Ci dicono che stiamo turbando i rapporti con l’Unione Sovietica e le altre nazioni socialiste, come se contraddicesse il socialismo il fatto che non vogliamo esser sudditi di alcun padrone né padroni di alcun suddito, ma libera terra tra popoli uguali in un mondo giusto. Solo reggendoci sulle nostre gambe, diritti e liberi, possiamo esser buoni amici di amici buoni e disinteressati alleati di alleati disinteressati».
Ma a che è servita questa ininterrotta sequela di assicurazioni, di formule cerimoniali, di asserzioni di fede, di ammansimenti? Tutta questa strategia di cautele e di attese e di reiterate profferte di amicizia? Aveva avuto ragione il caricaturista di Literární Listy a raffigurare, in un disegno non pubblicato, Brežnev come un rapace Nembo Kid, che si avventa su Praga. Con la ripresa degli attacchi sui giornali della Santa Alleanza marxista si erano accresciute la diffidenza e l’inquietudine. Il giorno prima dell’invasione correvano oscure notizie sui movimenti degli aggressori ai confini e sul fatto che Dubček era stato convocato d’urgenza da Brežnev e che gli alleati tornavano a esigere che il governo cecoslovacco imbavagliasse la stampa e la televisione, spauracchi dei miopi gerarchi, persuasi che l’umanità debba essere una torpida accolta di servi. È ricominciata, affermavano gli amici, la politica dello spianatoio e del ferro da stiro che livella tutto, risparmiando magari gli anticomunisti, per dissolvere i comunisti dissidenti.
Ciò nonostante, e con l’ansia di far presto, mi ero ingegnato di avere un incontro col capo del governo Černík, e questi mi aveva promesso di concedermi un’intervista per L’Espresso. E una vaga promessa avevo ottenuto anche dal segretario di Dubček per un colloquio, se Dubček, dopo la partenza di Ceauşescu da Praga, avesse avuto un momento di calma. A Černík il suo consigliere culturale, uno studioso mio amico, aveva trasmesso le quattro domande che qui riporto, come testimonianza di un’intervista mancata:
1. Ho ascoltato alla tv alcuni suoi discorsi, signor Primo Ministro, e ne ho ammirato la tagliente freddezza e il tono concreto. Eppure molti documenti cecoslovacchi di questi mesi peccano di vuota fraseologia. Non le sembra, signor Primo Ministro, che uno dei principali problemi della nuova società cecoslovacca sia quello di liberarsi dalle vuote frasi roboanti?
2. Gli ultimi avvenimenti hanno rimesso in luce le connessioni europee della Cecoslovacchia. Qual è la sua opinione, signor Primo Ministro, sul problema Cecoslovacchia-Europa?
3. Dallo scorso gennaio il socialismo cecoslovacco sembra riprendere i temi masarykiani dell’umanità e della tolleranza. Vede lei, signor Primo Ministro, un nesso tra la dottrina di Masaryk e il nuovo corso?
4. Durante la prima Repubblica i rapporti culturali tra Cecoslovacchia e Francia furono più intensi che tra Cecoslovacchia e Italia, soprattutto a causa del fatto che nel nostro paese regnava il fascismo. Pensa, signor Primo Ministro, che la rinnovata Repubblica, nel clima di libertà, cercherà un avvicinamento più stretto con la Repubblica italiana?
Come sembra ozioso tutto questo dinanzi al precipitare delle circostanze. Del resto tutti sentivamo nell’aria che le cose stavano precipitando. Tra i ‘misteri’ della città d’oro c’è anche questo: che le notizie e gli indizi vi si diffondono magicamente, in un attimo. Si sussurrava che i russi, aizzati da Ulbricht e da Gomułka avrebbero fatto di tutto per ostacolare il congresso straordinario del partito. Ci si lamentava che Dubček, troppo fiducioso, non curasse di più la sua incolumità personale: quando si recò a Čierna, gli fu chiesto da redattori della tv di farsi proteggere, date le tradizioni sovietiche, ma egli rispose che gli sembrava superfluo, era pronto a tutto. E come lui il popolo, quasi per scaramanzia, voleva evitare ogni misura precauzionale. D’altronde la coscienza del pericolo non è mai così assoluta, da cancellare del tutto la speranza di salvezza.
Ora lo sdegno verso i russi (gli altri occupanti sono considerati cani al guinzaglio) avrà toccato le stelle. Ma già negli ultimi giorni della mia permanenza in Cecoslovacchia si veniva mutando in sordo astio l’indignazione del popolo, sospeso nel vuoto dopo il documento di Bratislava ed esposto, come su un calvario, a salve di calunnie e menzogne. E l’indignazione è macchina di saldezza per questo popolo, un tempo considerato un’accolta di piccoli uomini birrosi e tranquilli, da Biedermeier, di figurette da racconti di Čapek, e oggi interprete di un dramma eroico che desta lo stupore del mondo e maestro nella tecnica della pazienza e della difesa non violenta. Un popolo che gli aggressori tenteranno di sfaldare, giuocando sui vecchi rancori di famiglia tra cechi e slovacchi, rancori che tuttavia si sono assopiti d’incanto nell’ora della minaccia.
Ricordo alcune conversazioni del giorno 20, le ultime. Un amico scrittore paragona il comunismo sovietico a una cipolla: «L’abbiamo sfogliata per vent’anni, nonostante il cattivo odore e fingendo che fosse un aroma paradisiaco, nella speranza di giungere un giorno al bulbo, poiché sotto le apparenze negative volevamo toccare la sostanza. E alla fine, con le lacrime agli occhi, ci accorgiamo che anche il bulbo è rozzo e disgustoso». Un romanziere asserisce: «Non tarderanno a lungo, vedrai. Gli ultimi articoli nei loro giornali sono trombe di guerra. Del resto il meccanismo della dittatura totalitaria non ha altra via d’uscita. Un regime-laboratorio che estingue l’intelligenza, riducendo l’uomo a un numero obbediente, come nel romanzo utopistico Noi di Zamjatin, non può consentire che un piccolo popolo, pur restando fedele al socialismo, deragli dai dogmi e dagli schemi di pietra. E, presumendo di essere l’eletto, manipola la verità a suo piacimento e offende ogni diritto e vuol essere per di più riconosciuto protettore e fratello. Che differenza c’è tra Brežnev e Hitler? Ti dirò di più: Hitler ha appreso la tecnica da loro, dai sovietici, i quali furono i primi ad aprire i lager e a far professione di intolleranza».
Un poeta mi espone nervosamente una sua forse assurda teoria: «Non mi garba», dice, «questo andirivieni dei capi di paese in paese; questa continua locomozione non promette nulla di buono. Finiranno col prendersi noi e la Jugoslavia e la Romania, giungendo sino ai confini albanesi. Risolveranno tutto in una volta. E sarà la loro fine». Un altro scrittore mi cita un passo profetico d’un giornalista ceco del secolo scorso, Hubert Gordon Schauer, il quale, chiedendosi che cosa sarebbe avvenuto se l’impero austriaco si fosse frantumato e se i tedeschi avessero minacciato la Boemia, scrisse nel 1886 le parole seguenti: «Molti dicono che ci salverebbe la Russia. Ma la Russia è davvero uno Stato amico, sono i russi davvero nostri fratelli, disposti a difenderci ad ogni costo? E se invece ci sacrificassero al germanesimo, se ci barattassero con assoluta freddezza in cambio della Galizia o dei Balcani? E se, per un curioso corso della sorte, fossimo loro assegnati e, come fanno ora coi polacchi, ci russificassero o, come coi bulgari, ci privassero dell’autonomia politica? So che vi sono alcuni, i quali gioiscono a questo pensiero, ma altri che rifuggono dalla russificazione così come dal germanismo, e per i quali il giogo fraterno è altrettanto sgradevole e forse anche più ripugnante di quello straniero. Vi sono uomini i quali, se si presentasse il dilemma: tedeschizzarsi o russificarsi, rifletterebbero con sangue freddo da qual parte verrebbe maggior giovamento culturale…».
Il problema è certo cambiato e, dopo l’invasione sovietica, si pone in termini nuovi: né con gli uni né con gli altri. Ecco perché dall’inizio delle manovre e ancor più negli ultimi giorni i cecoslovacchi, con risoluzioni e dibattiti, insistono sulla totale neutralità del paese. Fatto è che per almeno cento anni il ricordo dei russi (per non parlare dei bulgari e dei polacchi) sarà equivalente a quello dei nazisti, e la stella rossa uguale alla croce uncinata: l’inconsulta goffaggine dell’impero sovietico, che si regge sui cingoli e sui cannoni, fingendo di essere eternamente insidiato da eterne controrivoluzioni, ha messo in forse l’esistenza stessa del comunismo in un paese che poteva diventare il modello di una moderna società comunista. A meno che non si debba concludere che democrazia e comunismo siano inconciliabili.
Ma, in questo duello tra Davide e Golia, la corazzata ottusità dei sovietici si è scontrata con l’inerme tenacia di un popolo che sa essere saldo e compatto come un muro di piombo, uno dei più caparbi popoli della terra, che non tornerà indietro in nessun caso. C’è da augurarsi che il Golem sovietico dai piedi ferrati abbia il buon senso di ritirarsi e che non perda del tutto la ragione. Se lo straniero dovesse restare nel territorio cecoslovacco, si troverà come nel deserto: la capacità di sabotaggio e di difesa passiva della nazione cecoslovacca è infinita.
Siamo agli inizi di una nuova resistenza: scioperi, ostentato disprezzo per gli occupanti, caccia spietata ai collaborazionisti, proliferazione di libere trasmittenti. Una resistenza che si vale delle risorse dei tempi dell’Austria e del periodo del protettorato nazista e si arricchisce di nuovi trucchi e di strabilianti invenzioni, come il colloquio coi carristi stranieri, per insinuare nei loro animi il dubbio, la distruzione di sigle, targhe, numeri e nomi di strade e cartelli, la segnalazione delle auto degli agenti segreti, e riesce talvolta, con una tecnica collaudata nei giorni del nazismo, persino ad avvisare coloro che stanno per essere arrestati. Nella sua Idea di uno Stato austriaco lo storico ceco Palacký (1865) affermò: «Siamo stati prima dell’Austria, saremo ancora dopo di essa». Potremmo sostituire alla parola ‘Austria’ la parola ‘Unione Sovietica’.
E tutta la fede nella durata e nella rinascita di questo paese, che non vuol vivere, come diceva Masaryk, «sul conto degli altri, dell’altrui coscienza», non attenua l’angoscia per una situazione che, se durasse troppi anni, farebbe della Cecoslovacchia una muta ombra, uno stagno insidioso ma spento, riducendo la sua vita a parvenza di vita, tarpando i suoi impulsi e immiserendo ancor più la sua economia già immiserita da vent’anni di disastri. Senza pensare ai massacri che deriverebbero da eventuali scoppi di disperata rivolta. Ascoltando ora ogni sera la meravigliosa catena di stazioni cecoslovacche che oppongono la voce della libertà a quella nauseante delle stazioni ‘collaborazioniste’ e ‘piratiche’, ripenso agli amici[,] alle loro parole: «Tu tornerai in Occidente, ma noi… chissà che cosa ci aspetta». Vorrei nominarli ad uno ad uno, tutti coloro vicino ai quali ho trascorso i mesi più caldi della loro rivoluzione, giornalisti e scrittori, quelli che già lavorano nel sottosuolo e organizzano la lotta clandestina e quelli che sono stati rapiti con metodi da Gestapo. Vorrei rassicurarli del nostro affetto e della nostra ammirazione, dir loro: voi siete la coscienza del mondo. Ma so che le parole, guaste e caricate da troppi abusi, non valgono più nulla.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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