Vedi alla voce dolore. Mimmo Calopresti.

John Cage: 4’33” for piano (1952)

di
Carlo Grande

Un uomo urla, mentre sta morendo. Qualche strumento (un cellulare, una videocamera) Io registra: io – webmaster, regista, giornalista – in possesso dell’audio, ho il diritto di renderlo pubblico, di utilizzare il suo ultimo grido? Mimmo Calopresti, nel suo film-documentario sulla tragedia della Thyssen, in un primo momento ha detto sì. Ha ha inserito le grida di uno degli operai morti nella fabbrica torinese. Poi, di fronte alle proteste della madre della vittima, ha deciso di toglierle. Ha fatto bene.
Calopresti avrà agito con le migliori intenzioni: per denunciare le morti sul lavoro, per fini artistici, di cronaca. Ma quella voce corre il rischio di essere troppo simile ad altre che hanno dato vita a un’insopportabile giostra mediatica, a una partita di giro di emozioni digerite e sputate da radio, tv e giornali.

Prima fra tutte la voce di Alfredino, il bambino di sei anni caduto nel giugno 1981 in un pozzo artesiano a Vermicino, nei pressi di Roma. La sua agonia venne seguita in diretta, per giorni, dalla tv. Fu un Carnevale televisivo che riporta al capolavoro di Billy Wilder “The Big Carnival”, “L’asso nella manica”, film del 1951 nel quale un giornalista (Kirk Douglas) racconta in modo pelosissimo il salvataggio di un uomo bloccato da una frana in una caverna. La notizia attira il circo mediatico, frotte di turisti dell’orrore. Diventa un trampolino per la carriera del giornalista e una miniera d’oro per la moglie del poveretto, che gestisce una specie di autogrill lì vicino. “So chi siete, lavorate per un giornale”, dice lei al giornalista. “Vi importa assai di Leo. Volete un fattaccio da stampare. E quelle rocce fanno comodo a voi quanto a me”.
Billy Wilder ci andava giù pesante con il giornalismo: “I giornalisti! Quattro pezzenti con la forfora sulle spalle che spiano dal buco della serratura per un milione di commesse e di vecchiette, che poi ci piangono sopra… E il giorno dopo la pagina serve ad avvolgere un chilo di trippa” fa dire a Jack Lemon, in “Prima pagina”.

Ovvio, non per tutti è così. Ci sono giornalisti, artisti e scrittori straordinari, pieni di dignità. Ma ce ne sono altri, “morti di fama” disposti a tutto pur di stupire e far parlare di sé. Calopresti, che è persona intelligente e sensibile, non avrà voluto rischiare un’altra Vermicino, quando la tv italiana entrò in un pozzo, non solo fisicamente, e cominciò a titillare gli istinti più bassi del pubblico. La voce dell’operaio della Thyssen non era il suo “asso nella manica”. Non lo fu per il giornalista Kirk, che vedendo arrivare due turisti chiede alla moglie del sepolto vivo: “Avete visto quella coppia? Vi sembrano un paio di fessi, eh? Sono il pubblico”. E quello che vuole il pubblico Kirk glielo dà: scrive articoli compiacenti, retorici, perché il pubblico, dice, arrivato all’autogrill “divorerà tutto, emozioni e polpette”.

Quella non è arte, né giornalismo. Sono scorciatoie. Ci sono video amatoriali che riprendono quelli che si sono gettati dalle Twin Towers – ce n’è uno che si schianta a pochi metri da una cinepresa – esistono una quantità di cose kitsch e scioccanti, online e nella vita. Ma un artista – come un giornalista – non è tenuto a diffonderle, se non servono eticamente o artisticamente.
I grandi artisti stanno alla larga dalla logica dell’usa e getta. Werner Herzog – uno che rischierebbe la vita e farebbe l’impossibile per procurarsi scene o inquadrature – girando “Grizzly man”, la storia di Timothy Treadwell, il ragazzo sbranato con la fidanzata in Alaska da un grizzly, ha avuto tra le mani il sonoro della sua orrenda fine. E ha scelto, senza esitare, di non mandarlo in onda. Quando l’orso ha squarciato la tenda dei due poveretti ed ha attaccato Timothy, la videocamera del ragazzo era accesa, anche se il tappo copriva ancora l’obiettivo; quindi il microfono ha continuato a registrare, sei lunghi minuti di strazio: i ruggiti del grizzly, le urla dei ragazzi, i loro tentativi di salvarsi. Tutto su uno sfondo buio. Nessuna immagine, nero profondo.

“Tutti volevano che affrontassi quel fatto, nel film”, abbiamo sentito dire al mitico regista di Aguirre, Nosferatu e Fitzcarraldo l’autunno scorso a Torino, ospite del Museo del Cinema, in una memorabile “tre giorni” alla Scuola Holden. “Mi chiedevano cosa ci fosse sul nastro. Non ho mai pensato, nemmeno per un istante, di mettere in onda quella terrificante registrazione. Ho dovuto citarla perché il distributore il produttore e il canale televisivo mi avevano chiesto di farlo”.
Cos’ha fatto Herzog? Si è fatto inquadrare di spalle, mentre ascolta con le cuffie. Davanti a lui, seduta, la più cara amica di Timothy, che cerca di leggere sul suo volto quello che sente. Quando Herzog ha finito di ascoltare le dice: “Non dovrai mai, assolutamente mai, sentire questa registrazione”. Lei risponde che sì, non ne ha alcuna intenzione.

Ecco, questa negazione, questa sorta di tabù è di gran lunga più potente che non l’audio stesso. “E’ stato un momento molto tragico – ha detto Herzog -. Quello che ho udito è stato così orripilante che in quel momento ho deciso che non doveva essere udito. Mi è stato immediatamente chiaro che non doveva, in nessun modo, finire nel film. Non ci ho pensato su nemmeno cinque secondi. Piuttosto non avrei girato la pellicola. Perché ci sono limiti etici, esiste un confine che non va oltrepassato. Il confine è costituito dalla privacy e dalla dignità della morte di un individuo. Quello che ho sentito era orribile aldilà di qualsiasi descrizione”.
Quanto a Calopresti, è vero, la registrazione delle urla degli operai ustionati era già finita su Youtube, molti l’avevano udita. Ma utilizzarla nel suo film è diverso, specie se i parenti non sono d’accordo. La cosa ha analogie con il prelievo di organi, è eticamente assai discutibile.

Lo è anche artisticamente: spesso si può fare a meno di “documenti” del genere: come insegna Herzog con il suo divieto (“Non ascoltare”… “Non aprire quella porta…”) il terrore, il “frisson”, nasce più dal mistero che dall’ascolto o dalla visione diretta. La peggior paura è quella che proviamo per le cose che non conosciamo. Gli esempi sono tanti, da “Giro di vite” di James a quello che avvenne ai legionari di Caio Mario, che sulla montagna di Sainte Victoire furono costretti dal loro comandante a guardare i barbari sfilare davanti alle palizzate, quei barbari terribili che non avevano mai visto e dei quali avevano sentito solo parlare. Solo così furono “vaccinati” dal terrore dell’ignoto.
“Oggi è scomparsa la categoria dell’orribile, dell’inaccettabile assoluto – scrive lo psicoterapeuta Luigi Zoja in “Giustizia e bellezza” – la parola horror non ha più niente a che vedere con un moto interiore incontrollabile, è solo una categoria pubblicitaria, come commedia, poliziesco, ecc., per la vendita di intrattenimento a catalogo”. Quella porta l’hanno aperta, spalancata, nuotiamo in una melassa velenosa, in una zona grigio-noir spesso ultra pulp, che più pulp non si può.

Volevano convincerci che alla cattiveria umana non c’è limite? Per carità, ne siamo convinti. Lo sappiamo, anche troppo.
Basta cose esibite, urlate. Ci annoiano, non ci attirano più. Ci hanno serrato l’anima, hanno creato un’intossicazione psichica permanente, hanno ristretto la nostra esperienza. Proviamo “angoscia” (dal latino angustia, “strettezza”) per le urla, per la tripla esse cucinata come spettacolo, come “notizia”: sesso, sangue, soldi.
Oggi, dice Zoja, che siamo affamati di bellezza, si diffondono forme estetiche malate, come il grottesco, lo choccante, l’orripilante, l’osceno. Sempre più inconsce, nevrotiche, perverse. “Oggi il male non è uno sciacallo che si aggira di notte nelle nostre periferie, abita in piena luce, nel suo palazzo”.
La tentazione del kitsch, del cattivo gusto ci compenetra, ci assedia. Riguarda tutti noi, anche i migliori come Mimmo Calopresti. Rischia di corromperci, come ha rischiato di sputtanare Nanni Moretti (altra persona che stimiamo): la mitologia e il chiacchiericcio sul suo sedere hanno quasi prevaricato il film “Caos calmo”.
E’ questo che voleva Nanni? Non credo. E nemmeno Calopresti.
Esistono escamotage artistici, narrativi o pubblicitari meno rischiosi. Magari il semplice ritorno a un dignitoso silenzio, a un misterioso sussurro.

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27 Commenti

  1. E’ tutto vero. Ma nel caso della Thyssenkrupp si dimentica che quell’episodio ha un valore sociale enorme. Quel grido di dolore assume un valore simbolico per le generazioni future, come certe immagini mito (il cinese a davanti ai carrarmati a Tienammen, i morti nei lager nazisti ecc.) e in questo senso sono documenti altamente educativi, che hanno e avranno lo scopo di scuotere le coscienze, e far riflettere. Beninteso, di fronte al dolore e alle proteste della madre, Calopesti ha fatto bene a togliere le urla di Giuseppe Demasi. Ma quel documento sonoro ha valore per il futuro, altro che kitsch!

  2. Capisco il progetto, ma non posso sopportare. Faccio parte delle persone ( che non sono megliore, ma più fragile) che non sopportano il dolore.
    Leggendo solo l’articolo , il mio sguardo incontra l’urla, la grida di un operai morto, lo sento e non posso andare avanti. Forse è “il mistero” che mi fa immaginare l’orribile, so che devo trattenere la representazione al rischio di sentire l’ angoscia.
    Non capisco l’attrazione per l’orrore. L’esempio più sottolineato è l’interesse del guidatore spettatore per l’incidente. Se passo davanti un incidente, sono assallita dall’angoscia tutta la giornata.
    Ho letto il romanzo Caos calma, non ho visto ancora il film. Il romanzo mostra il fascino degli altri per la morte. Il personaggio principale Pietro osserva e non riusce a provare il dolore del lutto, perché mi sembra che gli altri afferrano il suo dolore.
    “Oggi il sciacallo abita in piena luce, nel suo palazzo.” Vero.
    In definitva, il giornalismo di denuncia è diventato il giornalismo di “circo romano.”

  3. molto chic invece la tua nota, Sergio. Se entri nel merito poi magari mi fai capire un po’ meglio :
    a) in cosa sia kitsch
    b) in cosa sia Holden
    c) cosa sia per te un pezzo pura scuola Holden

    effeffe

  4. Scegliere.
    Io non credo che le emozioni sputate da radio, tv e giornali, siano state da loro digerite. Se radio, tv e giornali digerissero emozioni, non le sputerebbero così. è ciò che è indigesto, che si sputa.
    E nessuno dovrebbe essere tenuto a diffondere certe cose, ma dipende dalle persone. Persone che, artista o meno, giornalista o meno, fanno scelte. Oggi non si esiste, sembra quasi, se non si finisce su uno schermo, o parte di esso.
    Ritorno ad un silenzio che sia dignità, e non omertà. Ma dov’è la dignità? Oggi al tg1, durante un servizio, un tipo si è messo dietro il giornalista che parlava ed ha fatto le corna. Che cosa poco dignitosa. Il servizio è stato interrotto, poi mandato, ma le immagini erano di repertorio. Perché il tipo dava noia. Aveva fatto le corna. E non era nessuno.
    Eppure, la Ventura ha fatto lo stesso gesto.
    Il nostro Premier, fece lo stesso gesto.
    Ma queste sono cose divertenti, ahahah! Dignitose, eh.
    Ma c’è mai stato un silenzio dignitoso? Chi ne parla dei silenzi dignitosi? Delle persone che non gridano, degli artisti che non urlano?

  5. ciò che ci salverà sarà quella mimica immediata, quel gesto automatico, che ti viene dal più profondo te e la cui didascalia sarebbe:
    ecchè cazz!
    effeffe

  6. il rischio è l’assuefazione, assuefazione a quanto di più kitch, osceno ed orripilante abiti in noi.
    questo appiattisce i limiti abbattendo i confini del lecito.
    per non parlare del buon gusto.

    articolo scritto con semplicità e scorrevolezza, veemenza e logica, esemplari.

    grazie N.I., Natàlia

  7. E’ un linguaggio da Italia sul 2, quelle trasmissioni pomeridiane in cui ci si indigna come piovesse. Gli stessi luoghi comuni, il perbenismo, il parlare a nome di tutti, son talmente tante le manchevolezze di questo pezzo, e talmente evidenti, che se uno non le vede è inutile star lì a spulciare. Un brano come questo: “Volevano convincerci che alla cattiveria umana non c’è limite? Per carità, ne siamo convinti. Lo sappiamo, anche troppo. Basta cose esibite, urlate. Ci annoiano, non ci attirano più.”, è qualcosa di più che brutto. In più c’è il tocco Holden, l’infiocchettamento delle banalità, il packaging del vuoto pneumatico. Dio ci scampi e liberi dagli scrittori torinesi.

  8. Ma com’è che siete così litigiosi tra voi, ultimamente?
    A me “nazione indiana” piace moltissimo. Certe volte mi piace altrettanto il testo che leggo, altre no, e allora una scorsa e via. Non intervengo, se non nel mio cervello. Il conto è cmq in attivo. Nazione Indiana quasi sempre mi fa pensare, o conoscere cose nuove.
    Ma questo tagliarsi le giacche in diretta, vi assicuro, non serve affatto.
    E’ imbarazzante per chi legge, non mi diverte e non mi migliora. Non con questi toni. Grazie

  9. Non si deve mai perdere di vista il rispetto per le persone: rispettare chi è morto, chi è rimasto e chi soffre. Il resto, l’informazione, l’etica, l’insegnamento, lo spettacolo, viene tutto dopo.

  10. sono dell’opinione che le cose vadano dette quando si sentono, e argomentati gli attacchi. Nell’ordine, dal basso verso l’alto.

    @giocatore d’azzardo
    pessimo gusto dici tu a proposito dell’uno, Calopresti e dell’altro, Carlo Grande. Io ci aggiungerei anche colui che l’ha postato. va bene. Del resto come si dice dalle vostre parti, les jeux sont faits, rien ne va plus. Appunto.

    @Capitan Feendos
    la penso come te. Lo capiranno?

    @Magda
    non siamo litigiosi tra noi ultimamente. Qui non c’è un noi. non mi diverte il tono, neanche a me di certi scambi, ma non li ricerco, o almeno non mi sembra ora, più in particolare con questo testo e con questo autore. Che vale forse la pena ricordarlo ha più anni della scuola Holden, scrive libri misurati, ed ha uno stile gentile nel raccontare le cose. E’ uno che le cime le percorre per amore della montagna ed è per questo che seppure “scosso” , interdetto da un evento- si può mostrare (fare sentire) la voce di colui che muore? – non mette in mostra l’altitudine dei ragionamenti e dei pensieri, si interroga sulle cose, senza smanacciare, fare la voce grossa.

    @ sergio
    Dio ci scampi e liberi dagli scrittori torinesi.
    dici tu. che detto da te non mi fa ridere, così senza stile. Uno stile, il tuo, che il più delle volte mi affascina, un po’ meno le cadute. Di stile.

    effeffe
    ps

    a proposito di morte, perché di morte si parla, come mi ricordava l’amico Lucio Saviani oggi fa dieci anni che Pasquale Panella scrisse una memorabile invettiva contro Gianni Boncompagni che l’indomani della morte di Lucio Battisti, parlando di una prima morte del cantante avvenuta con la collaborazione di Panella, ebbe a dire “dio prima li fa e poi li accoppa”

    “Permettetemi di essere il teppista che sono, signori vivi a sbafo, vivi inutilmente E tu, che ti permetti? Fuori dallo studio, vieni a dirmelo in faccia cosa hai detto. E cosa hai detto? “Dio prima li fa e poi li accoppa”? E questo è! Che hai detto? E presumendo quale impunità? Vieni fuori che facciamo un po’ di letteratura con le mani… Ballerinette cionche dei miei coglioni che non siete altro… Siete morti in vita e credete di poter ballare sopra un morto, avete una testa di cazzo e non sapendo cosa farne, la utilizzate per perdere i capelli o per pensare. E voi, voi siete i nuovi intellettuali, quelli che buttano in calembour un’agghiacciante offesa. Che la vita privata sia pubblica ma sia però la vita. Io non voglio annodare in segreto un rodimento, spezzare la mia spina e basta, fine. Qualcuno deve farlo e io lo faccio. Non te lo permetto di avere la parola e dopo nulla più.. Non uno schiaffo, dopo. Falla finita. Occhio! Ti parlo da teppista, basta con la manfrina populista, con al comprensibilità popolare mista a merda. State mettendo un popolo di spettatori sotto le spiritosaggini dei vostri livori. Per una battuta da non perdere, sottratta persino alla mannaia di un finale di trasmissione, per una battuta da porco uccidete per la seconda volta chi, dopo la prima, non può nemmeno più morirne, mai più segretamente. Queste parole io non le sto scrivendo, le dico a voce alta. Tutto questo non è l’analisi di nulla e non è nemmeno l’edera di una polemica che io non voglio poi mi cresca addosso (anche quello è spettacolo a catena, troppo comodo.. E io non sto nel comodo né ci voglio stare), tutto questo è solo quello che è, una invettiva, ossia è l’unica letteratura che in questo momento sento di fare. Altri pratichino il loro rachitico salto in lungo sulle bare, parlo al plurale a un singolo stronzo perché se ne risentano in parecchi.. E se la vedano poi ognuno tra sé e sé, si tocchino con mano, con dita, come tra lo stipite e la porta sbattuta da me, con tutta la mia forza, così s’illividiscono a ragione non perché c’è qualcuno al mondo che ancora non esiste e qualcuno no (finalmente per loro, lo so, forse contenti). Con te ci vediamo fuori, perché io sono un teppista e vado fiero della tua imbecillità. Io sono Pasquale Panella.”

  11. 1)Condivido il commento di Magda.
    2) Non ho ben capito che è la scuola Holden. Se puo spiegare. Ho capito che ha una relazione con Torino, il cinema…
    3) Non vedo il rapporto con il 11 settembre ( eccetto l’abbondanza oscena delle immagini) e se deve sussurrare silenzio, perché evocare la date.
    Ho l’impressione a volte che i commenti partono verso tutte direzioni.

  12. L’urlo dell’operaio come il famigerato “carrello di Kapò” (chiedi chi erano Rivette e Daney), inutile aggiungere altro. Specie non un post peloso che giustifica Calopresti e l’abiezione che lo aveva portato a includere quel materiale. Toglierlo dopo è anche peggio.

    Sono più di sinistra, operai nel loro fare cinema, i Vanzina che questi intellettualini arroganti promotori del “Nuovo Ordine Vittimale” (v. Baudrillard, “Il delitto perfetto”).

  13. ciao Veronique,

    l’invito a “sussurrare il silenzio” era un riferimento all’ultima frase del testo di C.G., questa precisamente: “Magari il semplice ritorno a un dignitoso silenzio, a un misterioso sussurro.”
    Non aveva alcuna intenzione polemica, anzi, tutto il contrario…
    la citazione dell’undici settembre è scattata per una semplice osservazione dell’orario e del fatto che era iniziato un novo giorno, l’11 sett. appunto…
    a quel punto il pensiero è andato per naturale collegamento al ricordo di altri morti innocenti, anch’essi magari sul posto di lavoro, morti per altri tipi di interessi, ma sempre morti innocenti.
    tutto qui Veronique…

    a volte basta un niente per fare collegamenti e voli pindarici, a me succede spesso.

    buona giornata Veronique.

  14. Grazie per la risposta. A volte sono un po’ nervosa, o troppo veloce.
    Il problema è che provo compassione per vittime morte nel 11 settembre, ma chi parla delle morte in Spagna?
    L’America è toccata, allora il mondo crolla?

  15. Non so se riuscirò a vedere il film di Mimmo Calopresti, ho conosciuto i bambini di uno dei morti della Thyssen. Lo so bene che esiste un diritto di cronaca, ma a questi bambini cosa lasceremo!

    Gena

  16. Alcune precisazioni, poiché mi pare di aver toccato un nervo scoperto e di aver generato alcuni equivoci

    a) Non ho detto che l’urlo sia kitsch in sé, ma che potrebbe diventarlo, alla lunga, per come viene usato. Il kitsch è nel come si usano le cose, nel loro contesto. Volevo semplicemente dire, e l’ho detto, che Werner Herzog non ha usato un grido come quello perché ha rispettato fino in fondo la morte. Altri non lo hanno fatto: non Kirk Douglas-Charlie Tatum in “L’asso nella manica”, non quelli che stavano attorno ad Alfredino a fare spettacolo. Tutto qui. E’ così scandaloso? Evidentemente per qualcuno non è così assodato.

    b) Ho il massimo rispetto per l’urlo dell’operaio, se non si capiva lo ribadisco: ho scritto per “difendere” (si fa per dire) quell’uomo e il suo ultimo momento di vita dalla spettacolarizzazione, portando ad esempio Werner Herzog e Billy Wilder. Qualche giornalista si è offeso? Il bello è che sono Anch’io giornalista.

    c) Vorrei parlare di etica, non di stile. Si capirà la differenza? Certo. Per questo – forse – dà fastidio quello che ho scritto. Del mio stile, però (detto per inciso) vado fiero: non scrivo per far vedere quanto sono bravo, o intelligente, o pieno di citazioni ma per manifestaRe > dubbi, interrogarmi sulle cose.. Cerco di farmi capire da tutti, senza fare il cervellotico. Uso parole da 5 cents, come diceva Hemingway, lascio ad altri quelle da 10 dollari. E lascio anche una frase di Bukowski, a uno che aveva poco da dire ma parlava di stile: andate cortesemente a leggerla in “Urla dal balcone” (Minimum fax) , pagina 117, riga tredici: “”Lo stile è uno strumento utile…. ” eccetera. Non completo la citazione perché ho troppo stile.

    d) Io non giustifico Calopresti, sennò non avrei sottolineato quello che ha fatto. Però è vero, forse sono stato troppo educato. Devo chiedere scusa per non aver forzato i toni? Sono sicuro che chi voleva capire ha capito.

    e) Garufi, perdonami il fatto di essere di Torino e collaborare con la Holden. E per non avere lo stile di Gadda. Ma né io né te siamo Gadda, grazie a dio.

    Carlo Grande

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Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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