Pergere in calchi
di Cosimo Ortesta
Il margine dei fossili
I
le acque provenienti dagli abissi si congiunsero a quelle,
dando luogo a crolli e al conseguente…
inondazioni derivarono e sedimenti
nel ripetersi della sovrapposizione. Non tutte le pietre
ma solo massi spezzati stettero alla base.
II
nell’ardesia si vedevano di frequente
forme di pesci esattamente come fra le mani
bocche si scolpiscono aperte nelle impronte schiacciate
III
è chiaro che i pesci dello stesso stagno
da un’unica massa sono stati schiacciati.
Le impronte dei pesci provengono dunque
da veri pesci.
IV
ossa raggruppate e disposte lungo la roccia
in piccole o grandi nicchie naturali
dal 1923 al 1925, senza mandibole,
numerose fra i crani a m. 1,20 dal suolo
orientale da est a ovest
V
per questa ragione il cranio e le ossa lunghe
sulle alture o su rami non portano
con sé
ogni mutamento di sede
VI
tranquilli nei giorni più frequenti
nella calma che preme al di qua
dei successivi movimenti, quasi incerti
i fossili verso il margine del bosco
meno denso
contro cui deboli perdendosi
gli occhi si rompono
VII
evitando che le ossa
siano dai cani divorate
ricoperte nuovamente di carne
di un giovane orso bruno,
gli si tagliano canini e incisivi
con sega sottile
VIII
è vietato spezzare le ossa di cui
si è mangiata la carne
sgozzata la sera:
bersagliate e legate le vidi
le une accostarsi alle altre
in festa echeggiante.
Su di esse muscoli e fiotti
fiorivano
IX
questi depositi, offerte di primizie
abbattute presso popolazioni artiche
resti di animale
nella limpida traccia del dio caduto
fra il cacciatore e la preda
X
su una placca di ardesia incisa
si distingue avvolto in una pelle
con coda di cavallo e corna
di cervo sulla testa
che finisce a becco
XI
i suoi vicini di parete
sono l’uomo e il rinoceronte:
la testa è priva di lineamenti
ma il ventre
si affaccia a proteggere
***
la mort atroce pour les fidèles et les amants
(Rimbaud, Illuminations)
È di nuovo qui, la spingo fuori della porta
l’ho scoperta qui contro la porta
sfatta dal sonno ed è cambiata
«ascoltami, non scenderò le scale
fèrmati, stammi a sentire.
Così è adesso, vedi tu quello che puoi fare:
la morte atroce per chi è fedele e per gli amanti»
«zitta! non così forte, ci sentiranno.
Crescendo accanita un ordine mai udito ti fu gridato
ma appena sveglia nella notte vivendo
col cuore che sbatte forte senza spavento
questo volesti e tu sai da quanto tempo
sorda che più non puoi parlare
ai morti ti afferri – spazio amichevole
alla morbidezza del tuo ventre»
tutto spende di sé fa troppa fatica
mai raccolte le braccia in riposo
sempre aperte a sostenersi per continuare
a dirsi che lui non la troverà
che lei non troverà l’amore
«ma qui ti piace? lo posso immaginare…
l’asilo è il tuo posto giusto»
«ci sono api in questo muro
disfatto e rifatto nella desolazione
– piccoli corpi testine feroci –
ma poi di notte o in una lunga pioggia
sento cose d’amore fino a spossarmi»
confondeva le cose ma era già avanti
molto avanti
con la pianta del piede indolenzita
su per la scala cominciando a oscillare.
Improvvisa spezza il legame
– ed era un modo di finire –
calata dalla fune, rapida e infame
è lasciata giù, messa a sedere, di nuovo interrogata
poi temendo lo spasimo
il numero delle volte che può essere ripetuto
vuol presto venire al dolore.
Alzata da terra intrecciata viva
viene alzata di più dopo essere stata tosata
rivestita e purgata perché nei peli e nei capelli
come nella pancia vuole essere
unta di veleno.
«ti voglio pensare ancora un poco
fino a domani contro di te
contro i tuoi colpi a tradimento
non ho fatto niente. Era una luce,
la mia, che allarmò la notte
e i suoi rumori. Perciò alla luna nemmeno
voglio affidare la neve sul mio tetto
il folto dei miei boschi
ma tu prendesti sonno»
«se questo succede a noi e non a me solamente
la calma torna indietro si fa semplice
bruciata mutilata
e non facciamo caso al filo di frescura
che da essa ancora proviene.
È il solo campo che ci resta
strappato appena ai bordi
da un’acqua troppo superba
che fa scoppiare l’anima mentre ancora t’imbocco
e gli occhi e il corpo cui manca già qualche osso
ti tocchi»
«ma non qui – qui non devi venire –
niente di quel che gridasti mai ti venne
e chiedi amore in cambio, amore corrisposto»
«stupita dolcemente al tuo male
ti accarezzi il ginocchio
e senti che i polmoni finalmente
ti si riempiono di miasma e fuoco.
Ma svégliati, lascia che ti spieghi
come senza memoria in questa tiepida stanza
senza altro soccorso possiamo salvarci»
«qui ci assalimmo di parole e silenzi
al quotidiano terrore crescendo due in uno
dentro il sangue ciascuno covava
una mostruosa rovina
io spodestata per sempre
tu ogni giorno più insolente:
adesso ti svuoti diventi ubbidiente
ubbidiente con me fino alla morte
ma conservi il tuo centro inviolato
perché ci sfidi a vivere in eterno»
si lasciò cadere e andò in pezzi
contro quel mucchio d’erba che imbianchisce
ingenuità che cresce dalla sua persona viva
abbandonata così deserta ma difesa
soglia visitata di rado che nessuno ripara
preferendo ciascuno il buio della notte
a quello della casa
ancora osservando dal bosco
soltanto i propri simili o se stessi
vivi o morti ma tutti chiedendo
che siano ricordati i loro nidi
innalzati o scavati
ignorando ciascuno
che in mezz’ora sarebbe caduta
così vicina alla sua casa,
che ancora più sola prima di cedere
a se stessa
comincia a fare paura
(Da Nel progetto di un freddo perenne, Einaudi, Torino 1988)
Cosimo Ortesta è nato a Taranto nel 1939. La sua opera poetica, segnata dalla tensione mentale di Mallarmé e dalla ferita malinconica della scrittura proustiana, comprende le raccolte di versi Il bagno degli occhi (Guanda, 1980), La nera costanza (La Nuova Guanda, 1985), Nel progetto di un freddo perenne (Einaudi, 1988), Serraglio primaverile (Empiria, 1999) e il recente volume La passione della biografia (Donzelli, 2006). Ha tradotto dal francese Balzac, Mallarmé, Baudelaire e Rimbaud. È di imminente uscita per la casa editrice Camera Verde la raccolta completa delle sue poesie dalla fine degli anni Settanta a oggi.
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