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L’energia del cinema maghrebino

benaissa_khaled

[ricevo dall’Africa e volentierissimo pubblico. G.B.]

di Giulia Marchi

All’occasione dei 40 anni del Fespaco, il festival cinematografico panafricano di Ouagadougou, i registi maghrebini hanno partecipato in modo importante con lungometraggi, corti, documentari e video. Tra polvere e proiezioni, nella capitale burkinabè si incrociano personaggi di tutti i tipi. Un algerino, in particolar modo.

Nella stanzetta in cui stampano i bagdes, si è messi ad incastro. Tra tavoli e computer, gli addetti alla comunicazione cercano di destreggiarsi nonostante il ritardo accomulato nella stampa delle accreditazioni. Chi necessita del pass a breve però, ha capito la tecnica da utilizzarsi: fare pressione. Sono incastrata tra altri giornalisti che richiedono insistentemente la carta. Non respiro, ed ho fretta. Tra un’ora, la cerimonia di apertura del festival. Entra qualcun altro nella stanzetta già satura. “Buongiorno, buongiorno. Allora, è qui dove si può fare pressione per avere un badge?”. E’ un tipo smilzo, giovane, capelli neri, e fare accattivante. Nel giro di poco, con una certa scioltezza e simpatia forzata, riusciamo ad avere il nostro pass. Il tipo smilzo, infine, lo scopro essere Khaled Benaïssa, un giovane regista algerino con un cortometraggio in competizione. Mi dà gli orari delle proiezioni del suo corto, “Sektou! Ils se sont tus!” (“Si sono zittiti!”). Lo reincontro solo alcuni giorni dopo. In realtà, di formazione, è un architetto. Ha svolto la professione per un anno, ad Algeri, ma nel mentre bazzicava già nell’ambiente cinematografico. « Nell’architettura posso utilizzare solo una parte di me stesso. Nel cinema, posso mettermi in gioco al cento per cento. Utilizzo il mio corpo, la mia testa, la mia voce… ». Ha fatto l’attore, e poi è passato alla realizzazione. Pubblicità, qualche corto. Per sperimentare.
Giovedì 5 marzo, ore 14, cinema Neerwaya. Khaled è con il suo gruppo di amici. Qualche regista maghrebino, tra cui il tunisino Malik Amara (“Le poisson noyé”), il marocchino Mohamed Nadif, de “La jeune femme et l’instit”, e un critico cinematografico piccoletto e superattivo, di Rabat, chiamato Eljaouhary Abdelilah. La proiezione della serie di corti deve cominciare. Oltre a Khaled, si presenta al pubblico in sala un altro algerino. Samir Guesmi. Il suo corto: “C’est dimanche!”.
L’atmofera è promettente, i personaggi sono apparentemente interessanti e di una certa fibra. Le luci si spengono, e le proiezioni cominciano. Nonostante il passaggio delle sagome nere dei ritardatari, i corti eccitano il pubblico, e un certo piacere visivo si mescola alla dolcezza delle storie. “C’est dimanche!” è l’ingenuità di un ragazzino algerino che cresce a Parigi. Una sorta di Romain Gary e il suo “La vie devant soi”. Freschezza, leggerezza, e vita. “Le poisson noyé”, è un’overdose di colori. Rapido, incalzante. Alla Kusturica. E infine “Ils se sont tus!”. Questo, non ricorda nulla. O forse, richiama tutto. Benaïssa gioca con la telecamera, con lo spazio, con il sogno, con la realtà, con il silenzio, con i rumori. Mescola i contrasti con una certa consapevolezza. Il suo personaggio è solo un espediente. Lavora alla radio, ha un’emissione notturna, e rincasa la mattina. Si mette a letto, chiude gli occhi. E al tempo stesso, la vita in strada comincia ad animarsi, miscelandosi al sonno del nostro personaggio. Un quartiere di Algeri che prende vita. Il mio quartiere, dice Khaled.
E con quest’onirismo, racconta la storia della ferita dell’Algeria, in modo burlesco. Sembra voler mettere in scena il surrealismo che ha caratterizzato quel periodo, in quei pochi minuti di sogno. Ma soprattutto, in quel sogno, è la destrezza tecnica, e la lettura dello spazio che attira. D’altronde, Khaled, è un architetto. La telecamera si muove dall’alto al basso degli edifici, percorre la via come fosse un volatile. La prende dall’alto; ed è sempre in movimento. Alcune riprese poi, si ha l’impressione siano state fatte da un buco. « E’ il rapporto tra l’interno e l’esterno che mi interessava in particolar modo. Ci avevo riflettuto molto durante i miei studi di architettura. E c’è una sequenza nel film, che credo mostri quello che volevo trattare. Si vede il mio personaggio entrare nello stabile… », poi, l’inquadratura si sposta all’interno, guardando la strada, si sale, si vede il balcone, si esce in balcone, ed è di nuovo la strada. Lo spazio, il dentro e il fuori, dialogano, in una serie di riprese borrominiane.
Spazio effimero nel cinema, spazio eterno in architettura. « Di tanto in tanto ho ancora occasione di esercitare l’architetto che è in me. Gli amici, tutti nel campo, mi chiamano quando hanno un progetto da fare, e sono bloccati. Io arrivo come sguardo fresco, esterno, e il che porta a delle soluzioni. Mi permette di fare dell’architettura a delle condizioni che mi piacciono. Perchè quello che mi infastidisce di media sono i limiti che impone. L’architettura è dell’arte, dell’espressione, della follia, ma bisogna che stia in piedi. Quando si ha un film di cattiva qualità, non si deve far altro che uscire dalla sala. Se peraltro è uno stabile ad essere di cattiva qualità, si rischia di non uscirne più… ».

Sta preparando il suo primo lungometraggio, Khaled. Anche se il suo produttore non vuole che ne parli. Ma Khaled ne sta scrivendo la sceneggiatura, e dice d’immaginare molto, di produrre, di scrivere parlando. Quindi, ne parla. Non sarà più una riflessione sullo spazio. Lo spazio è uno degli elementi da sfruttare per potersi esprimere al massimo quando si ha poco tempo, spiega. Un corto, una pubblicità, van bene. Ma per un lungometraggio, è difficile lavorare solo sullo spazio. Il suo obiettivo, è di mettere in scena il cinema stesso. Il mestiere. E’ questo che lo incuriosisce e sul quale vuole lavorare ora. Sarà la storia di un’équipe de tournage, che seguirà, interrogandosi su pellicola, video, documentario, fiction… dove comincia il film? dove si ferma la realtà? E’ la telecamera a parlare? Tutte le questioni che avevano rimesso in discussione i francesi con la Nouvelle Vague… questioni che da allora han cambiato forma più volte, e che quindi vale la pena di riprendere in mano.
Questo trentenne, dall’energia di un algerino istruito, ha il sangue caldo, e uno spirito critico piuttosto puntuto. Quand’era giovane, in casa era continuamente a contatto con attori, gente di teatro, completamente immerso in discorsi su sceneggiature, sulla messa in scena… e veniva portato spesso a seguire spettacoli. Suo padre, è Slimane Benaïssa. Uno scrittore e drammaturgo algerino piuttosto conosciuto, che nel corso della sua vita, è stato costretto a trasferirsi in Francia per dei problemi nel paese a causa di quel che scriveva. Ma Khaled non ama parlare di suo padre. E’ abbastanza orgoglioso da voler affermare la sua persona senza contornarla di presenze. E’ indubbio che abbia inciso sulla sua formazione e sul suo modo di percepire la realtà, ma mi cita anche Belkacem Hadjadj e Mohamed Chouikh, come figure portanti nel suo percorso cinematografico. Due registi algerini, anch’essi attori alla base. Poi si parla di Coppola, Scorsese, Godard… Ma quelli forse, sono un po’ come i Nirvana in ambito musicale; tutti ci devono passare.
« So che il mio lungometraggio sarà un flop, perchè devo sperimentare, e perchè ora mi sto esaltando con “Ils se sont tus!”… » Ci lavorava dal 2006, a questo corto, mentre ne faceva degli altri; per provare, sperimentare, capire. Ha vinto due premi al Festival del cortometraggio di Taghit il dicembre scorso, il suo “Ils se sont tus!”. E il Puledro d’oro per i cortometraggi al Fespaco di Ouagadougou, che è appena terminato. E chissà se vincerà qualcosa anche al prossimo Festival del cinema africano, d’Asia e d’America Latina che si terrà a Milano dal 23 al 29 marzo, e al quale partecipa.
Khaled, stuzzica di continuo i suo ‘fratelli’. Vuole che l’Africa si smuova, o che l’Africa smuova qualcosa. Le generazioni precedenti erano come intimorite, a suo dire. Noi, abbiamo l’energia e forse i mezzi per guardare in faccia quello che un tempo era chiamato ‘l’uomo bianco’.
Di sicuro, il giovane Benaïssa non resterà seduto a guardare. Qualsiasi cosa ci sia da guardare.

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8 Commenti

  1. ..ed io, volentierissimo!! leggo!
    in breve, sapevo del fermento che da tanto esisteva in quei lidi, ma ringrazio per averne avuto certezza, ora.
    come posso fare per conoscere ancora, di più, questi lavori? grazie per lo spazio, api.

  2. scusate ancora, sono entrata nel sito e ho fatto tutto da me.
    potete pure escludere i miei commenti, ma vi ringrazio in ogni caso per lo spazio e la proposta. antonia p.

  3. scusate, ero fuori sede e per ragioni imperscrutabili i commenti sono andati in moderazione…

  4. bè, i miei due “commenti” potevano essere anche cancellati…ho fatto tutto da me, nel mentre che si era fuori sede (come si fa, col coso, a metterci un sorriso?)
    qualcuno ha nominato Vauro? c’è giusto una cosina mia sul blog di Fernirosso, giusto in tema di battute!
    un caro saluto, api.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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