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Libri segreti

di Daniele Giglioli

Colpisce nei saggi di Andrea Cortellessa la totale complanarità, l’appassionata complicità tra l’autore e il suo oggetto. Un oggetto che, quale che siano gli autori di cui parla, è sempre lo stesso: il Novecento, una certa idea di Novecento. A quell’idea Cortellessa aderisce senza riserve, ripensamenti, rimorsi di coscienza. Il suo Novecento – il Novecento manierista, intransitivo, difficile, quello che si crocefigge e si delizia con la sperimentazione formale e ha come corrispettivo una critica intitolata all'”infinito intrattenimento” – non ha nulla da farsi perdonare. Non ha nemmeno bisogno di spiegarsi (o di essere spiegato): non deve lottare, perché ha vinto; non comunica perché è. In Cortellessa trova esito la grande tradizione del critico novecentista. Ma se nella vocazione di quei critici, da De Robertis a Garboli, da Gargiulo a Guglielmi, entrava un elemento di contingenza – si era novecentisti perché si faceva critica militante nel Novecento -, la vocazione di Cortellessa è monda di ogni accidentalità cronologica: il suo è un novecentismo d’elezione, un novecentismo al quadrato.

Lo si vede bene in quest’ultima raccolta di saggi, Libri segreti. Autori-critici nel Novecento italiano, dove Cortellessa si intrattiene appunto sulla critica di autori come Cecchi, Longhi, Fortini, Zanzotto, Calvino, Celati, Sanguineti, e su tutti Giorgio Manganelli, cui dedica pagine di una penetrazione e di una felicità stilistica assolute. Scrittori che hanno fatto della critica un mezzo per conoscere e conoscersi (lo stile, scrive Cortellessa via Contini, “è un modo di conoscere le cose”), depositandovi non tanto un catalogo di idee, teorie e giudizi di valore, ma il rovescio segreto di quel conglomerato di potenzialità, sempre imperfettamente passate all’atto nelle opere “creative”, che chiamiamo convenzionalmente autore. Convenzionalmente perché, come mostra Cortellessa, buona parte della ricognizione d’identità dei suoi scrittori è fatta di un dialogo incessante, ansioso, insieme solidale e rivale tra di loro: Cecchi e Longhi, Calvino e Manganelli, Calvino e Celati, Fortini e Zanzotto, Manganelli e Celati, più altri di contorno (e che contorno: Gadda, Savinio, Landolfi, Pasolini…), che si spiano, si confessano, si leggono, si scrivono, si recensiscono, si capiscono e si fraintendono, si delimitano e si definiscono a vicenda. Più che autori, figure di un unico tappeto che Cortellessa ricostruisce seguendone accanitamente l’intreccio fino alle occasioni più minute – consonanze sottili, analogie segrete, microspie impercettibili.

Sta qui la sua sfida – e il suo rischio: quello di ricomporre, al di là delle divergenze occasionali, un ventaglio di alternative che furono drammatiche nell’amorosa fusione di quell’uno-tutto che è appunto il Novecento, il suo Novecento, il secolo antimimetico e antirealistico della forma straniata, della frammentazione, dell’avanguardia latamente intesa (da cui la centralità di Manganelli, che ne è stato il cantore insieme più consapevole e più candido, perché il motto “Morte alla Vita e Lunga Vita al Libro” era già vecchio dopo Mallarmé). Un Novecento inteso come una categoria stilistica, che Cortellessa riproduce nella sua scrittura proliferante, interpolata da parentesi, e incisi, e incisi negli incisi, e costellata di lunghissime note in cui si aggiunge altro testo, altre citazioni, altri riferimenti, nell’aspirazione consapevolmente impossibile di dire se non tutto almeno di più, come nel Gadda dell’Adalgisa o nell’Arbasino dell’Anonimo Lombardo: testimonianza di fede e tributo d’amore lontanissimi dalla rancorosa inflazione di note che affligge la critica accademica (“ho dovuto leggere tutta questa roba, ma ve la farò pagare”). Dalla lettura del suo libro si esce perciò esilarati e un po’ soffocati; si esce alla lettera, come da un teatro in cui regista e attori hanno fatto di tutto per costringerci a dimenticare che esiste ancora qualche cosa fuori, l’ombra di una realtà che aduggia la scrittura e le conferisce con la sua pressione forma e forza (o gliele toglie): la sua violenza, il suo silenzio, il suo frastuono senza stile. Anche questo è stato il Novecento, di cui però, salvo forse per bocca di Fortini, nel libro di Cortellessa non c’è traccia. Di qui, da questo limite, traggono origine la coerenza e la bellezza della sua operazione.

Ma che importa poi che di Novecento ce ne sia più d’uno se ormai, come dicono tutti, ne siamo fuori? A meno che… Delle due l’una, infatti. O lo intendiamo storicisticamente come una maniera che si avvicenda con le altre (il barocco, l’arcadia, il postmoderno). O lo pensiamo invece come una sorta di pienezza dei tempi, come il venire alla luce di una possibilità necessaria, di una promessa di felicità insita non solo nel fatto letterario in sé, ma nel modo di intendere la convivenza e la comunicazione tra gli umani. Al netto di ogni filologia, sta qui il punto d’onore della sua rivisitazione. Ma non comporta questo ammettere, anche per Cortellessa, non tanto la precedenza della famigerata “realtà” sulla scrittura, quanto piuttosto l’idea di uno stile che non faccia più della chiusura su se stesso il suo blasone, nella consapevolezza che è ciò che ne sta fuori a conferirgli, insieme alla sua contingenza, anche la sua necessità? È la domanda che ci poniamo, e gli poniamo.

[L’articolo è apparso in una versione ridotta su «L’Indice», numero di maggio 2009, con il titolo La forma straniata.]

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5 Commenti

  1. Ora io non so una mazza del Novecento, tranne per quel tanto che ne ho vissuto e già il Novecento nostro, quello dei baby boomers, differisce dal Novecento di quelli che avevano già visto due guerre mondiali, che s’erano buttati nella avanguardie, che avevano lavorato per il Moderno, cioè per il binomio Forma-Riforma o con maggiore articolazione alla continuazione del Rinascimento come sintesi di giustizia sociale/purezza formale, come annientamento della ridondanza… quelli che erano approdati al dopoguerra consunti dalle troppe sigarette, dal mangiar male, dallo smarrimento del dover ricominciare senza sapere bene da dove, del doversi trascinare in piena luce ancora per un po’.
    Non ne so una mazza come accade a tutti quelli che ci sono nati e vissuti e che sono stati sbattuti qui, sulle battigie dei Duemila, e lasciati in secca in questa fanghiglie dall’esaurirsi delle correnti novecentesche, intese come ideologie e crolli di muri e gulag e San Francisco e Valle Giulia e Via Fani e Compromessi Storici mai realizzatisi, e «valori della Resistenza» e Fenoglio e Pasolini naturalmente, senza che ce ne sia fregato mai più di tanto di Calvino, per esempio.
    Leggo le cose di Corty e non solo le sue e vedo come tutto il mio così-detto vissuto, tutto quello che mi pareva di aver esperito nella complessità sanguinosa del quotidiano sopraffarsi e persino uccidersi, appare inscritto in un quadro coi suoi tasselli e i suoi rapporti di causa effetto e derivazione.
    Ma soprattutto di effetto-causa, quando dato un certo esisto di una certa cosa serve una causa che l’abbia prodotto, serve un antecedente cui ricondurlo, serve un phylum in cui dargli un senso e una cognitio, se in latino esiste questa parola.
    Il Novecento della generazione sopravvenuta e poi quello dei post-sopravvenuti, sembrerà strano, ma non riesce a risalire a Prima del Settanta, come se il Settanta costituisse il limes invalicabile oltre il quale sunt leones (Gadda a parte, di cui a dire la verità poco ci importava, perché erano altre le cose interessanti e si disceva «hai letto il Pasticciaccio?» molto più di rado di «hai letto Adorno?», «hai letto la Monthly rewiew?», «hai letto Marcuse?»), mentre prima del Settanta c’erano per esempio Miles e Coltrane e Rollins e persino Gino Paoli, per non dilungarsi sugli Altri…
    Il Settanta come orizzonte ultimo oltre il quale non esiste alcun evento davvero significativo e davvero percepibile, ma solo fatti riassumibili rapidamente in quadri convenzionali, mentre furono carne e vita e tutto viene da lì, tutto comincia dalla fine dell’era post conflitto del dover ricostruire, nel passaggio dal dover sopravvivere all’essere sopravvissuti, nell’accorgersi che tutto ma proprio tutto era come prima che si nascesse, perché anche per noi esisteva un orizzonte invalicabile degli eventi ed era il limite superiore della Guerra, la superficie storica di eventi che mai capimmo e mai ci interessarono davvero…
    Il libro di Andrea non l‘ho letto, queste sono solo echoes di evocazione dei testi suoi e dei suoi coetanei che ho avuto modo di scorrere, ammirato.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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