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Victor Baruch, La poetessa diffamata

Intervista di Angelo Petrelli a Fabrizio Lelli.
La poetessa diffamata di Victor Baruch, Besa 2009.

Tradotto in italiano da Alexandrina Djeneva, La poetessa diffamata di Victor Baruch è stato recentemente pubblicato dalla casa editrice Besa. Il romanzo, ambientato nella quiete solenne del Monastero di Latrun, presso Gerusalemme, è la storia di uno scrittore ebreo bulgaro che s’interroga sulle questioni fondamentali dell’esistenza. S’immerge così in una conversazione con quattro personalità intellettuali dell’Italia seicentesca tra cui spicca la poetessa ebrea veneziana Sara Copio Sullam. L’esperienza di queste anime immortali si sviluppa in una complessa narrazione d’amori carnali e spirituali, intrecciandosi con quella autobiografica dello stesso Baruch, vissuto durante la generazione della Shoà e testimone di quel tragico momento della storia occidentale.

Abbiamo colto l’occasione per intervistare il curatore del volume Fabrizio Lelli, docente di Lingua e Letteratura ebraica dell’Università del Salento.

Professore, è possibile considerare Victor Baruch scrittore sottovalutato da critica e pubblico fuori dai confini bulgari?

Baruch è considerato uno dei principali scrittori bulgari contemporanei. Purtroppo la letteratura bulgara è ancora grandemente ignorata in Italia. Qualche anno fa, mentre con Alexandrina Djeneva tentavamo di fare una stima delle traduzioni di autori bulgari nella nostra lingua, non siamo riusciti a reperire in commercio più di tre o quattro versioni di prosatori del paese balcanico; nessun poeta, nessun drammaturgo. Si trattava oltre tutto di traduzioni spesso obsolete di autori “classici”, realizzate in una lingua italiana non solo arcaica ma inesatta. La lingua bulgara è estremamente complessa e presenta problemi di resa sintattica notevoli: per questo è stato necessario un intervento di traduzione e di revisione in più fasi. Oltre al problema della lontananza linguistica, la lontananza culturale dell’Italia dalla Bulgaria si è rivelata quando i lettori “cavia” delle prime versioni italiane del romanzo ci hanno segnalato unanimemente che i frequenti richiami nell’opera a personalità sconosciute della cultura bulgara erano poco pertinenti alla narrazione. Quello che noi trovavamo affascinante, il rapporto istituito dall’autore tra la Venezia del ‘600 e la Bulgaria della fine dell’800 o dei primi decenni del XX secolo, per i lettori italiani rappresentava un grave difetto. Alcuni ci consigliarono addirittura di apportare pesanti tagli al testo. Abbiamo invece pensato di inserire una serie di note esplicative sia degli aspetti meno conosciuti della cultura bulgara sia di alcuni aspetti del giudaismo che possono sfuggire al grande pubblico. Abbiamo raccolto questa sfida, d’intesa con l’editore, proprio per rovesciare le prospettive culturali più comuni. Invece di guardare con occhi italiani a una cultura straniera, abbiamo voluto far conoscere al pubblico italiano un autore che guarda alla nostra cultura e alla sua eredità giudaica da una prospettiva particolare, quella di un ebreo bulgaro erede della tradizione sefardita balcanica e che, affascinato dall’Italia, rielabora una vicenda realmente accaduta nella Venezia del primo ‘600 con l’animo di chi ha vissuto in una società multiculturale e multireligiosa occidentale e si è sentito tradito. Tradito per la tragica fine di numerosi suoi correligionari in altre parti d’Europa (in Bulgaria gli ebrei sono stati salvati, per intervento diretto del sovrano, poco prima di essere deportati), tradito per l’obbligo imposto nel lungo periodo del regime comunista a non praticare alcuna forma di culto, tradito perché, dopo una vita passata a sperare nella possibilità di una convivenza pacifica, si è dovuto tristemente rendere conto che tanti sforzi per conseguire il bene universale sono valsi a poco. È come se, attraverso la sua opera, l’autore volesse chiedersi qual è il prezzo della libertà di pensiero oggi e si rispondesse che non è certo più basso di quello richiesto all’epoca della Controriforma, delle dispute ecclesiastiche e rabbiniche dal sapore ancora medievale sull’immortalità dell’anima.

La fabula del romanzo si basa sulla ricostruzione delle dinamiche intellettuali e sentimentali che intercorrono tra i quattro personaggi principali immersi nel dibattito sull’immortalità dell’anima. Di quale umanità possono dirsi rappresentanti?

Come nella grande tradizione ebraica, dall’antichità ai nostri giorni, i personaggi di Baruch sono metafora di diverse categorie umane. Questo aspetto, che a mio parere permette di considerare La poetessa diffamata, benché opera bulgara, nel contesto più ampio della letteratura ebraica, è a mio parere significativamente sottolineato nella narrazione stessa, in cui più volte sono richiamati i Caratteri di Teofrasto, opera greca del IV secolo a.C. in cui – come è noto – sono classificate varie tipologie umane. Il poeta genovese Ansaldo Cebà, teologo cristiano, è affascinato dal trattatello dell’allievo di Aristotele, che egli tradusse in italiano: a ciò è indotto anche dal pensiero dell’epoca contemporanea improntato all’enciclopedismo di matrice aristotelica e alla classificazione della psicologia umana. Mi pare che Cebà rappresenti l’uomo che vorrebbe non dubitare mai delle proprie convinzioni di fede, mosso da una riflessione razionale sulla realtà che lo spinge ad attribuire ogni male e ogni imperfezione all’attività degli uomini; il suo “antagonista” cristiano, il vescovo Bonifacio, coprotagonista principale della storia insieme alla poetessa Sara Copio, è invece l’uomo di fede continuamente assalito dai dubbi, dai rimorsi, l’uomo che sa di essere sempre prossimo al cedimento morale e che per questo reagisce con asprezza contro se stesso e gli altri. La poetessa ebrea è una donna di grande intelligenza, che forse dà troppo peso all’interpretazione razionale anche nell’esame della propria fede: il problema del dissidio tra ragione e fede, largamente dibattuto ancora agli inizi dell’età moderna soprattutto dall’ebraismo italiano, è alla base della complessa riflessione del quarto personaggio, il rabbino Leone da Modena, una delle personalità più significative della storia del giudaismo della nostra penisola. Novello Giobbe, come egli stesso amava definirsi, Leone è il primo ebreo a comporre un’autobiografia nel senso moderno del termine, in cui il grande predicatore si mette a nudo, rivelando gli aspetti più terreni della sua condizione umana. Aldilà della lettura metaforica, si deve ricordare che nella finzione narrativa i personaggi appaiono nelle vesti di anime immortali – non più creature in carne ed ossa – che rielaborano il loro passato sub specie aeternitatis. Dal riesame costante delle loro vite, confrontate con quelle dei posteri, le quattro anime non possono fare a meno di osservare che la società umana è sempre funestata da conflitti spesso originati da futili motivi: dissidi di ordine religioso, morale, politico, etnico sono assurdi se valutati con il senno di poi. Lo stesso problema dell’immortalità dell’anima, vissuto dai quattro come soggetto di conversazione e di disputa religiosa e filosofica durante la loro esistenza terrena, assume un valore dopo la morte che sfugge alle misere capacità razionali degli uomini.

E nello specifico, qual è insegnamento che si può apprendere attraverso la figura (tra realtà e fiction) dell’ebrea veneziana Sara Copio Sullam?

Si deve considerare che l’eroina del romanzo è una donna che vive nel ghetto di Venezia e che, per poter esprimere le proprie idee, proprio perché donna, oltre che rappresentante di una minoranza perseguitata, deve combattere costantemente l’ostilità palese o velata dei suoi contemporanei. Forse con ingenuità, Sara vorrebbe risolvere ogni dissidio con l’esame filologico della parola divina originale o con il ricorso all’idea di amore universale, comprensibile a tutta l’umanità. In altri termini, secondo la Copio i concetti di base sono semplici, ma sono resi complessi dall’uomo: per essere accettata nella società dotta dei suoi giorni, anche Sara si deve dunque sforzare di contorcere parole e pensieri per piegarli alle mode retoriche del tempo. Si tratta – è ovvio – di una lettura del personaggio storico influenzata anche dalle trasposizioni letterarie della sua biografia diffuse in età romantica. Mi preme precisare che, nella realtà letteraria, Sara Sullam fu emula delle grandi poetesse petrarchiste italiane del Cinquecento che rielaborarono l’ideologia dell’amore del poeta trecentesco alla luce del rinnovamento del pensiero religioso contemporaneo. Nonostante Baruch si avvalga anche di riletture romantiche e che il suo fine sia ovviamente quello di dar vita a un personaggio letterario, mi pare di poter intravedere, qua e là nella finzione narrativa, la Sara Copio Sullam più attinente alla realtà storica.

Il vissuto dell’autore è d’estrema importanza per comprendere questo romanzo: secondo Lei, che ha avuto modo di conoscerlo personalmente, come si potrebbe descrivere la figura intellettuale di Victor Baruch?

Baruch ha molto sofferto nella sua vita e, come ho detto in precedenza, si è forse sentito tradito, come tanti suoi correligionari, dall’umanità. Diversamente da altri autori, però, mi pare che dalle sue sofferenze egli sia giunto a elaborare una serenità esistenziale che traspare nel romanzo.

Soprattutto, qual è l’approccio narrativo di Baruch nei confronti della terribile esperienza della Shoà di cui è stato testimone?

L’intera opera può dirsi una rielaborazione del lutto per le vittime innocenti della Shoà. Le vicende personali di Baruch s’intuiscono soprattutto in alcuni momenti salienti della narrazione e in genere danno il via ai temi principali trattati o sono frutto di un intrecciarsi di spunti di discussione con le quatto anime del passato: ad esempio, all’inizio del romanzo, il canto nella chiesetta di Latrun, presso Gerusalemme, ricorda all’autore il cerimoniale ebraico nella sinagoga di Sofia prima della Guerra e dà l’avvio a penosi ricordi di un mondo di tradizioni famigliari perdute per sempre a causa della Shoà; così il processo intellettuale intentato dal vescovo Bonifacio alla poetessa richiama alla mente dell’autore il celebre processo tenuto in Israele nel 1961-62 contro Adolf Eichmann, evento epocale nella riconsiderazione della Shoà da parte dell’ebraismo contemporaneo, al quale Baruch partecipò in veste di corrispondente della stampa bulgara.

Il romanzo storico ha trovato nell’ultimo decennio una sorta di rinascita, specialmente in seno alla letteratura anglosassone. Pubblico e critica sono sempre più vicini a questo genere letterario: a quale, tra i titoli più conosciuti, accosterebbe questo di Victor Baruch?

Quello di Baruch è un romanzo storico sui generis. L’autore non è estraneo alla storia ma interloquisce con i personaggi storici, come se un giornalista contemporaneo intervistasse celebri personaggi del passato. Inoltre, come si è detto, i personaggi non sono descritti nella loro fisicità, ma nella loro condizione oltremondana di anime, anche se rivelano pensieri e sentimenti estremamente concreti dei quali spesso si pentono, perché ritenevano fino a pochi momenti prima di aver superato la dipendenza dalla vita terrena. Più che al romanzo storico occidentale, condotto in apparente distanza dalla dimensione dell’oggi (o al massimo realizzato muovendo i personaggi in trame parallele che si svolgono in tempi diversi e che solo raramente si incrociano), forse si può pensare alla storia di Ponzio Pilato ne Il maestro e Margherita di Bulgakov, dove il grande autore russo mette a frutto una profonda conoscenza storico-documentaria per tratteggiare una narrazione che si interseca a più livelli con la trama principale del romanzo, tra i cui fili conduttori si osserva soprattutto quello del dissidio tra bene e male nel mondo e quello dell’incapacità dell’uomo – nel passato e nel presente – di accettare l’amore.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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