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Andrea Melone: Giardini di loto

[Si pubblicano due estratti dal romanzo Giardini di loto, Gaffi, 2010.]

di Andrea Melone

Eravamo seduti a tavola. Mi pareva di sentire nel mio ventre le cellule schiantarsi e moltiplicarsi. Era come ali che battono appena, e non so bene se stavo piangendo o godendo.
Entrò in sala Piergiulio, mi salutò tastandomi le spalle, baciò mia madre. La sua bocca era piena di insoddisfazione. Si sedette con precisione di collegiale: scansò la sedia con le mani, se l’avvicinò. Dopo un tempo considerevole sollevò il capo. Mia madre gli accarezzò il dorso di una mano e gli domandò: «Tutto a posto all’università?», voleva ascoltare un effetto nuovo del genio di suo figlio. «Ma sì, in fondo», informò con un tono alterato e un rossore che aveva portato da fuori.
Papà li ascoltò parlare come l’arbitro di un agone bucolico. Agnese annunciò che avrebbe servito a tavola. Cercai di condurre altrove il mio pensiero, ma non avevo un luogo dove andare, nessuno da visitare se non il mio ventre che non era più io, era sedizione. La voglia di piangere mi salì fino in gola come mare orribile che viene e risucchia al largo, ma non avrei avuto nessuna giustificazione da addurre. Per questo decisi di trattenermi con tutte le mie forze. Io sapevo qual era la volta nella quale Gilberto mi aveva fecondata. Provai un piacere acuto, mi fece lacrimare. Mi aprii a lui che mi amava con lena, accoglievo il seme turbinante in me. Lo covai tutta la notte, sapevo che lievitava.
«Ho da dirvi due cose» rivelò mia madre ed era un astro zuppo di luce maligna.
«La prima è che Marialuisa è uscita di senno. La seconda è che ha deciso di sposarsi!».
Lasciò intercorrere una pausa di scherno, poi riprese:
«Si sposa Marialuisa, Marialuisa! Oh, Dio, non ci posso credere, Marialuisa si sposa davvero!».
Marco posò le mani sulla tavola, si domandava che cosa era potuto accadere. «È uno scherzo», ripeteva Piergiulio come l’eco di mia madre, ma lo diceva con disprezzo: intendeva compiangere la dissennatezza di quell’uomo, chiunque fosse.
«Un insopportabile politicante», confermò mia madre.
Un flusso di sangue mi ricolmò il cranio. Gilberto ha portato mia madre sul mare incolore, in un luogo nel quale si raccolgono le case in mezzo alle nebbie, un paese straniero di malinconiche pianure imbevute d’acqua e rosse costruzioni svettanti alle quali gli elementi erodono pietrisco. Mi ha giurato che avrebbe sbrogliato questa briga. Mi ha giurato che gli sono necessaria. E se l’avessi io trovato un modo? Proclamare a mia madre, a Bruno, a Deborah, a Marco, a Lorena, a Piergiulio, a Marialuisa a mio padre con le braccia incrociate, un muso da fiera che abbiamo fatto un figlio e che vogliamo andarcene al Nord nel mare incolore in una rada battuta da un vento mortale dove si stringono le case attorno al porto come animali assiderati? Che direbbero? Ora, a questo tavolo.
Mia madre parlava e rispondeva:
«Me l’ha detto lei. Mi ha chiamato stamattina al telefono».
Ora ne parlava come se si trattasse del matrimonio di una figlia. Con Marialuisa mia madre aveva vissuto, era diventata una donna, una madre.
«Quando si sposa?», chiese Marco.
«L’ultimo sabato del mese prossimo, il ventinove».
«Così presto?».
«Mi sembra un’occasione meravigliosa per dimostrare a Marialuisa quanto le vogliamo bene», intervenni trattenendo a stento un altro penoso arpeggio di commozione.
«Si sposa a mezzogiorno nell’abbazia di San Nilo a Grottaferrata, vicino Roma. È amica dei frati e le fanno un favore».
Conoscevo quel tono e quell’eloquio di mia madre: era infelice, e mi raccontò una volta che sua nonna, quando la vedeva piangere, la caricava sul mulo e andavano insieme alla gora per dare la potassa alle lenzuola: quella bimba dai fiduciosi occhi azzurri è mia madre, e non ricordo niente di così puro.
Squillò il telefono.
Marco s’era quasi alzato dalla sedia mentre il telefono aveva già fatto il quarto squillo, ma Agnese gli fece un cenno, e asciugandosi le mani tagliuzzate nel grembiule andò a rispondere. Prese la cornetta, scansò i capelli dall’orecchio.
«È Bruno», annunciò inespressiva. Mi alzai con ritardo, passai le mani nei capelli come se fossero infiniti. Piergiulio aspettò che fossi di spalle per esprimere un ghigno.
Rimasi poco al telefono. I miei giudicarono il caso inconsueto, ma non commentarono. Bruno avvertì che sarebbe venuto poco dopo le quattro. Un capello precocemente bianco spicca sulla superficie della sua chioma. Mi adopero ogni volta per nasconderlo fingendo di accarezzargli il capo, ma ritorna a galla. Posso trovare un uomo più intelligente, pensai, un musicista, uno scrittore, un potente, oppure un amatore impareggiabile, o un uomo più raffinato, che abbia una posizione migliore, una macchina più comoda, una casa in montagna dove sdraia le amanti. Ma non troverò un altro uomo che mi sia più familiare di Bruno, vivessi mille anni.
Dopo pranzo mio padre e mia madre ci salutarono e uscirono insieme. Mia madre scese abbigliata con un’elegantissima giacca grigio scuro e un delizioso motivo carminio, scarpe con tacco non alto, i capelli raccolti. Anche mio padre era impeccabile, ma una donna non l’avrebbe guardato. La bellezza di mia madre, invece!: il suo volto era di pietra dilavata. L’amava Gilberto?
Io, Marco e Piergiulio uscimmo in giardino. Mi sedetti sul dondolo, Marco e Piergiulio su due sedie. Mio padre e mia madre s’incamminarono, lei gli si mise sottobraccio. Camminarono per il viale con passo diseguale, lo percorsero insieme fino alla macchina davanti al cancello. Solo allora si separarono
ed entrarono ognuno dal proprio sportello. Concepirono la medesima amorevole speranza: che li guardassimo camminare sottobraccio lungo il viale, uniti in mistici sorrisi come sui sarcofagi etruschi, salire sulla stessa macchina e non ce ne dimenticassimo. Poi, come a un crocevia, i loro pensieri si divisero, così, insensatamente e liberamente.

[pp. 77.80.]

Cominciava a piovere piano e poi sempre più forte da un cielo che s’era fatto nero con deboli capillamenti azzurrini. Uno scroscio inconsueto. Esso amplificò, invece che lenire, il rumore di un’automobile che si avvicinava coi fari accesi: una luce untuosa, lutea. Come un dolore antico che torna, dalla massa del tempo, acutissimo: così la pioggia lo amplificò. I due sportelli si aprirono, uno in anticipo dalla parte alta del poggio, e recise lo spazio unanime. Si affrettavano due figure, una, quella di una donna. Raggiunsero il portone. L’uomo l’aspettò impalato senza ombrello, che inutile galanteria. Scomparvero alla vista.
La porta fu aperta. Espressione espiatoria dell’uomo. Accanto a lui la donna riponeva il mento nelle scapole prendendosi i gomiti coi palmi. L’acqua scendeva in falde ampie. Il monaco guardiano li fece entrare senza proferire parola. Era alto: un profeta. Li condusse in una sala d’aspetto. La donna era una giovane donna raffinata: ognuna appena segnata le linee delle sopracciglia, naso acuto. Bocca ben tracciata nel giogo superiore. Il tratto dell’ovale leggero. L’uomo lasciò che il monaco si congedasse, e questi lo fece: disse pace con umiltà e dedizione simili a demenza. Pace, risposero.
La donna si lagnava dell’acconciatura. Malediceva il mondo che si preoccupa dei bruchi e dei ragni e di lei non aveva memoria, del suo dolore non aveva rammarico.
Cercava uno specchietto nella borsa, affaticava il suo tagliente occhio cilestrino. L’uomo, espressione neutra, si mostrava osservatore astratto, esterno anche a se stesso, ma esatto, puntiglioso. Osservava il profilo della donna come avrebbe fatto con una carta geografica.
È una figura d’uomo delineata attorno alla preminenza degli occhi, scuri, dubbiosi; sguardo materiale pieno di enzimi. Le mani tenevano unito il cappotto sull’epigastrio, poi con esse lisciava anche lui i capelli neri, lustrati dalla pioggia.
La donna non si curò dell’impudica posizione, prona, con le mani nella borsa. L’uomo se n’avvide e s’accigliò invece che goderne. Distolse gli occhi da lei con un’afflitta eccitazione che gli risalì il torace. La donna abbassò le ciglia, serrò la bocca, poi, mentre si umettava le labbra. «Sono inguardabile», intonò. Acconciò i capelli a bulbo sopra la testa: «Come sto?» moina; testa inclinata verso la spalla, mano al fianco. L’uomo la guardava. «Stai molto bene», rispose.
La donna allargò le braccia. Imbronciò, s’abbandonò a una risata dal tono materno, simile a un abbraccio, e poi mostrò distrazione oppure insofferenza.
L’uomo fissava la porta con apparente impazienza. Il priore entrò. Senza porgere la mano salutò. I due risposero. L’uomo era fascinoso, il viso ben rasato o glabro, polito come avorio o lucidi scogli. Un segno di inutile incertezza poi l’uomo si presentò: «Raffaele Mensi. La signora è Serena Bentivoglio». La donna si accostò al Mensi, gli cinse la vita con un braccio, sorrise e subito ritornò seria, poi sorrise ancora quando colse l’involontaria benevolenza del religioso. Così tra le nuvole appare una stella e scompare di nuovo.

[pp. 108-110.]

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3 Commenti

  1. Quando lo lessi per la prima volta non ero molto convinto, ma ora dopo averlo riletto diverse volte devo ammettere che mi ha stregato. Questo autore farà sicuramente parlare di se.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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