Nagasaki

di Marco Belpoliti

[il 29 di questo mese esce, per i tipi di Guanda, il nuovo libro di Marco Belpoliti, del quale ci aveva già anticipato un testo circa un anno fa, qui. Oggi ci regala un altro capitolo in anteprima. G.B.]

La città della bomba atomica per antonomasia è Hiroshima. Di Nagasaki, la sua sventurata gemella, se ne parla molto meno, forse perché rare sono le testimonianze del suo annientamento.
Alle ore 11.02 del 9 agosto 1945, tre giorni dopo la distruzione di Hiroshima, un aeroplano americano sgancia su Nagasaki una bomba due volte più potente della precedente. L’ordigno è in realtà destinato a un’altra città, Kokura, ma le condizioni meteorologiche conducono l’aeroplano con la bomba su un bersaglio alternativo. Arriva su Nagasaki in tarda mattinata, ma anche qui ci sono nuvole troppo spesse: non si vede niente. L’equipaggio sta per rinunciare, per tornare indietro, dato che il carburante scarseggia, poi, all’improvviso, il cielo si apre. Una schiarita che quel giorno deve aver rallegrato gli abitanti della sfortunata città . I piloti inquadrano le case sotto di loro e sganciano.
Lo scoppio avviene a un’altezza di 500 metri dal suolo. L’area colpita è vasta 7 chilometri quadrati, e nel suo epicentro si sviluppa un vento esplosivo della velocità di 440 metri al secondo, che trascina ogni cosa o persona. Resta in piedi solo il torii del santuario di Sanno, il portale sacro scintoista, disposto parallelamente alla direzione da cui proviene l’onda d’urto, che anticipa l’esplosione vera e propria.

Un fotografo di ventotto anni, Yosuke Yamahata, aggregato alle forze armate giapponesi, a sua volta figlio di un fotografo, viene inviato dai comandi militari a Nagasaki insieme a un pittore e a uno scrittore. Hanno il compito di documentare l’avvenimento, anche se in seguito non si saprà nulla dell’opera degli altri due. Yamahata è l’unico ad aver scattato immagini di questo immane disastro, le uniche che si conoscano.
Arriva da Hagata, non molto distante da Nagasaki, dopo dodici ore per via della confusione e delle comunicazioni interrotte. Alle tre del mattino del 10 agosto è alla stazione di Michino-o. Sono trascorse sedici ore dall’esplosione della bomba al plutonio. Yamahata vede ardere numerosi fuochi fatui sul terreno mentre sulla sua testa splende la volta stellata di un meraviglioso cielo estivo. La terra, ha raccontato in seguito, è come febbricitante ed esala un terribile puzzo. Lo scopo del suo reportage è propagandistico: mostrare la distruzione compiuta dal nemico. Al momento nessuno sa bene cosa sia una bomba atomica, e quale tipo di conseguenza comporti la sua esplosione. Ha ricevuto solo l’istruzione generica di coprirsi il capo. Durante la notte domina un silenzio irreale; chi è sopravvissuto e si trova sotto le macerie ha smesso di urlare.
A partire dalle prime luci dell’alba, Yamahata inizia a scattare con la sua macchina, una Leica, e continua fino alle tre del pomeriggio: in totale 117 scatti percorrendo avanti e indietro sei chilometri, a nord e a sud dell’epicentro. Alla fine di quel lavoro riprende il treno e ritorna alla propria sede di partenza. Nessuno sa ancora quanti siano i morti: probabilmente settantamila. E nei cinque anni seguenti altrettanti, per via delle radiazioni. Le foto vengono consegnate ai militari che le hanno commissionate. Rimarranno inedite a causa della censura sino al 1949: prima le autorità militari giapponesi, poi, dopo la resa, gli occupanti americani, le proibiscono. Una vergogna troppo grande per entrambi.
La vergogna che genera nei vincitori, ma anche negli sconfitti, la repulsione verso la verità traumatica di quell’avvenimento così grande, così terribile, così assoluto. Gli americani, in particolare, devono provare un sentimento incerto tra vergogna e paura. Sanno, i vincitori, le autorità militari e il presidente Truman, che la bomba di Nagasaki è inutile, doppiamente inutile; già lo era stata la prima, quella di Hiroshima, ancora di più la seconda.
Sin dalle settimane precedenti il Giappone è pronto ad arrendersi. Esausto, prostrato, demoralizzato, il paese vuole darsi ai vincitori. Altro che difesa all’ultimo sangue, e un milione di soldati americani – questa la stima della propaganda – possibili vittime dell’invasione delle isole dell’Impero del Sole, contese palmo a palmo da un esercito di aspiranti suicidi. Gli storici ci dicono che la bomba fu sganciata per altri motivi, ovvero guardando alla prossima guerra, quella contro l’alleato di ieri, l’Unione Sovietica. Ecco dunque la vergogna che induce al divieto di pubblicare le foto scattate da Yamahata nella città disfatta.
In verità , come ricorda lo scrittore Philippe Forest, su alcuni dei principali giornali del paese apparvero le immagini dell’esplosione: l’«Asahi», il «Mainichi», il «Toky », lo «Yomiuri». Ma poi le pellicole vengono sequestrate dagli statunitensi; e sono vietate anche le visite ai luoghi della Bomba; nelle tipografie vengono portati via persino i caratteri di piombo degli ideogrammi che si riferiscono al vocabolario dell’atomo, quelli che possono, anche solo indirettamente, ricordare l’avvenimento.
Le fotografie di Yamahata sono state dunque pubblicate, almeno in parte nel 1952, su un numero speciale di una rivista giapponese, e un’istantanea è selezionata tre anni dopo per la celebre mostra aperta al MOMA di New York, The Family of Man: un bambino con una palla di riso in mano.
Lo sguardo che trapela dalle istantanee prese nel corso di quell’interminabile giorno è attonito, al limite dell’indifferente. Non mostra alcun sentimento di pudore o, all’opposto, nessuna provocatoria volontà artistica. Ritrae la distruzione delle cose e degli uomini: corpi feriti, ustionati, cadaveri anneriti, sopravvissuti ulcerati, persone adagiate sotto carri, semisepolte dalle macerie, una tabula rasa attraversata da impassibili processioni di uomini e donne. Lo stupore di Yamahata, come dirà lui stesso, è il frutto di uno stordimento che non si fatica a capire.

Anche adesso che sono trascorsi oltre sessant’anni da quel giorno, adesso che le fotografie sono state raccolte in un sobrio ed essenziale libro in bianco e nero, intitolato semplicemente Nagasaki, ora che anche il lettore occidentale lo può sfogliare, non si può fare a meno di provare il medesimo sentimento: sorpresa e ottundimento, fino all’angoscia ammutolente delle istantanee che ritraggono i corpi carbonizzati d’infanti e donne mescolati alle macerie.
Lo spazio della città è una tavola piatta: gli edifici appaiono sbriciolati, e ogni cosa catturata dall’occhio stranito e fisso di Yamahata appare un frantumo. È come se un dio dispettoso avesse voluto ridurre ogni cosa in piccoli pezzi, sminuzzando non solo le suppellettili delle case, ma anche le case stesse, come se fossero piatti, bicchieri, vasi, calici, su cui, poi, ha sfogato la propria insensata rabbia.

Nelle foto dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale gli edifici sono cumuli di macerie, piccole collinette; qui invece tutto è raso, al livello del suolo, e i pochi edifici ancora in piedi sono accartocciati su se stessi poiché attraversati dall’onda di un terremoto particolarmente cattivo. Dappertutto pendono fili e ci sono tralicci e pali ancora in piedi, così da suggerire l’idea che ciò che è sottile, e stava in alto, non è stato decapitato dalla falce atomica. Terra riarsa, rade ciminiere, scheletri di capannoni industriali, fabbriche incenerite.
Le foto più terrifiche, quelle che scuotono anche l’occhio stordito di Yamahata, ritraggono donne e bambini. Le due più famose, riportate anche nei libri di storia americana, raffigurano una donna che cerca di allattare a seno nudo il neonato ustionato in viso, e una madre con il suo bambino, entrambi vestiti con gli abiti tradizionali. Qui il fotografo tradisce un’emozione e con essa anche un senso estetico, come se per qualche istante il suo occhio avesse rotto la lastra di ghiaccio che lo paralizza e comunicato attraverso l’obiettivo la parvenza di un larvale sentimento: pietà, ma anche il piacere della composizione, ovvero l’inscindibile coppia di etica ed estetica.
Nella gran parte di queste fotografie, che appartengono al museo dell’orrore dell’umanità, l’indescrivibile è guardato con sguardo liquido, attraverso la lente distante della macchina fotografica. Il clic dello scatto trasforma tutto in cosa, proprio come ha fatto la bomba che non distingue tra un manufatto e un corpo, tra un animale e una roccia: tutto è egualmente inerte, tutto è pietrificato, tutto è nulla e vale nulla. Di questo nulla il fotografo ha contemplato l’insondabile entità: « ero completamente calmo e composto – ha detto in seguito – forse tutto ciò era troppo, troppo enorme per essere assorbito ».
Che sia la vergogna, sotto forma di Medusa, ad avere reso distante e indifferente Yamahata? La calma del naufragio vista da dentro, dalla barca che si è infranta sugli scogli? Oppure, al contrario, lo sguardo di Yamahata rende palese ciò che nei soldati sovietici descritti da Primo Levi all’inizio della Tregua sui loro cavalli davanti al Lager non riusciamo a vedere? La vergogna possiede uno sguardo vuoto, calmo, inespressivo? Difficile dirlo, e tuttavia in questo caso, nel disastro immane di Nagasaki, tra le sue macerie, noi vediamo non solo la tragedia nel suo aspetto terribile, ma anche lo sguardo di chi l’ha guardata. Sul rettangolo della fotografia è impresso l’occhio della vergogna. O almeno una sua possibile visione. La vergogna non si fa vedere o, se la vediamo, è per traslazione, attraverso i movimenti del corpo. Noi non sappiamo come guarda, come ci guarda la vergogna stessa. Yamahata ci offre questa possibilità . Un’ipotesi, non la certezza, qualcosa qui ci avvicina davvero a quello sguardo.
Philippe Forest, nel suo ritratto del fotografo, mette l’accento sulle dichiarazioni del giovane giapponese. A distanza di tempo Yamahata ha detto di non aver provato nulla nel deserto fumante di Nagasaki, niente davanti ai morti e ai vivi di quel giorno: nessuna pietà , nessuna emozione. Solo a distanza di anni sarebbe stato assalito dalla sofferenza e dalla vergogna. Può essere così. Ma accanto all’ipotesi che lo spettacolo fosse così tremendo da renderlo catatonico, quasi un automa che inquadra e fa scattare meccanicamente la sua Leica, c’è anche la possibilità che la vergogna fosse già lì, dentro l’obiettivo, che stesse guardando attraverso di lui lo spettacolo della morte e della distruzione totale.
La vergogna può non pensare a nulla, avere l’aspetto di Yosuke Yamahata, il suo vuoto nel cervello? Chi scende nell’inferno, dice Forest, non è sensibile alla sofferenza degli altri: «E ` tutto preso dalla vertigine della sua caduta, spettatore sbigottito precipitato all’improvviso in una realtà che l’orrore ha destituito di significato trasformandola nel semplice posatoio di una stupefazione irrilevante ». Così è capitato ai corvi del crematorio, ai membri del Sonderkommando, di cui ci parla Levi in I sommersi e i salvati. Lì la vergogna è assoluta e scompare: vergogna di se stessi, di quello che si sta facendo, vergogna verso gli altri di cui si spogliano i corpi morti, si tagliano i capelli, s’estraggono i denti d’oro, si eliminano come deiezioni inutili nel crematorio. Tutta la vergogna e nessuna vergogna.
Sicuramente è così. Ma in Yamahata, nel suo meccanico e automatico scattare di ventottenne fotografo militare c’è dell’altro. C’è appunto quello sguardo, lo sguardo stesso della Vergogna. L’immagine, scrive Forest, ci dà la cosa, ma in quanto perduta. E ` la lezione di Roland Barthes, della sua Camera chiara: la verità patetica dell’immagine. Forest ha «visto» Yosuke nella sua camera oscura, mentre sta sviluppando i rullini dei suoi scatti. Lì l’immagine si forma a poco a poco nelle bacinelle degli acidi e delle soluzioni. Si tratta del suo secondo sguardo, quello che segue lo sguardo dello scatto, lo sguardo, suppone Forest, della coscienza.
Nel racconto-riflessione dello scrittore francese, Yamahata non avrebbe reagito a ciò che vedeva. Egli sarebbe solo un fotografo pragmatico, uno che capisce che « se l’immagine è più vera della realtà , è perché solo l’immagine permette di cogliere in tutta la sua pienezza il pathos di quella realtà, perché ci costringe a guardarla una seconda volta, perché ce la restituisce ». E qui il fotografo giapponese riuscirebbe finalmente a vedere ciò che il suo occhio non ha saputo vedere sul campo di sterminio di Nagasaki. Ora, nel buio della sua camera nera, egli vedrebbe la scandalosa bellezza di ciò che ha scattato, qualcosa che è rimasto celato alla catatonia dello sguardo.
Nella fotografia, anche nella più terribile, ci ricorda Forest, c’è sempre qualcosa di artistico, qualcosa che si fonde, ora, qui, nella camera oscura di Yamahata, con la testimonianza che le fotografie stesse rappresentano. Ma non è così. Di tutte le fotografie, dei 117 scatti, solo pochi restano legati a un elemento estetico. Di certo, il volto sorridente della ragazza che esce dal suo rifugio; qui trapela la necessità che il fotografo ha sentito di opporre al nulla di Nagasaki un’immagine costruita ad arte: l’arte contro il Nulla. Ce ne sono altre, ma non sono la maggioranza. Nella maggior parte degli scatti noi vediamo l’immobilità pietrificata di Vergogna, il suo restare fissa e immobile di fronte alla catastrofe. Un movimento immobile è quello compiuto dall’aprirsi e chiudersi dell’occhio di vetro quel giorno di agosto del 1945.

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10 Commenti

  1. OT MA NON TANTO

    DI PAOLO BARNARD
    paolobarnard.info

    Al IV Festival del giornalismo di Perugia, Al Gore, l’ex vice presidente USA di Bill Clinton, ha detto: “Se avete un’inchiesta che nessuno vi vuole pubblicare, venite da noi a Current TV, e noi ve la pubblicheremo!”.

    Fantastico, ho trovato lavoro. Ecco la mia inchiesta che nessuno in Italia ha pubblicato e che tu Al Gore pubblicherai di certo, un’inchiesta
    Nella foto: L’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore e l’autore di “Gomorra” Roberto Saviano moderati dalla giornalista Maria Latella durante un dibattito al Festival del Giornalismo al teatro Morlacchi di Perugia

    1) sul tuo segretario di Stato Madeleine Albright, che descrisse la morte di 350.000 bambini iracheni causata direttamente dalle sanzioni ONU contro l’Iraq come un fatto accettabile. Disse alla CBS: “Penso che questa sia una scelta molto dura, ma il prezzo, pensiamo che il prezzo ne valga la pena.”

    2) sulla vostra, tua e di Clinton, dottrina “Full Spectrum Dominance” (dominio a tutto campo) elaborata dal Pentagono sotto la tua amministrazione, che è stata la base materiale e ideologica di tutto ciò che i neocons di Bush hanno potuto fare in questi anni di devastante unilateralismo armato. Il vostro Anthony Lake disse: “In un mondo in cui gli USA non devono più quotidianamente preoccuparsi della minaccia atomica sovietica, la questione del dove e quando interverremo in Paesi esteri è sempre più una nostra scelta”.

    3) sulle vostre sciagurate iniziative rivolte al continente africano: il African Growth and Opportunity Act e il African Crisis Response Initiative (ACRI). Nel primo è sancito il tentativo di incatenare sempre più Stati africani ai cosiddetti accordi bilaterali di libero scambio; il secondo è un piano segreto di “programmi di assistenza militare” (leggi vendita illegale di armamenti) a Stati africani in miseria. L’uomo prescelto da voi – sempre tu e Clinton – per gestire questi loschi affari si chiamava Nestor Pino Marina, un colonnello esiliato cubano già arruolato nel fallito golpe dello Sbarco della Baia dei Porci a Cuba del 1961, in seguito agente speciale nelle ‘operazioni sporche’ dell’esercito americano in Laos e Vietnam, e consigliere dei Contras nella loro guerra di terrore contro il Nicaragua nei primi anni ’80.

    4) sulla vostra pratica di chiudere entrambi gli occhi di fronte ai crimini più orrendi pur di esportare armi e influenza americane, come nell’assistenza militare alla Turchia. In quel Paese, lungo tutti gli anni novanta si verificò una campagna di repressione poliziesca delle minoranze curde del sudest che per la ferocia e l’entità dei crimini commessi contro civili innocenti fu definita dal Ministro turco per i Diritti Umani Azimet Koyluoglu “terrorismo di Stato”. Furono bruciati 3.600 villaggi, torturarono con metodi inauditi migliaia fra uomini donne e persino adolescenti, uccisero, mutilarono e costrinsero alla fuga sulle montagne due milioni di civili in miseria. Tu e Clinton nel solo 1997 decretaste un aumento degli aiuti militari a quell’esercito criminale di tale entità da superare tutte le forniture americane precedenti dal 1950 ad allora.

    5) sulla vostra decisione di guidare l’attacco aereo della NATO alla Yugoslavia nel 1999 per ‘salvare’ il Kosovo dagli artigli serbi, salvo poi sostituire agli artigli di Milosevic i vostri. Sono recenti le rivelazioni fatte in seno al Defence Select Committee britannico secondo cui negli accordi di pace di Rabouillet, rigettati dal leader serbo, fu segretamente e appositamente inserita una clausola chiamata Annex B che prevedeva l’occupazione militare di tutta la Yugoslavia proprio per causare l’inevitabile rifiuto di Belgrado. Questo perché il Kosovo, Paese immensamente ricco di minerali, doveva divenire terra “ad economia di Libero Mercato” dove era imprescindibile la rapida “privatizzazione di tutti i beni statali” , secondo quanto recitano gli articoli 1 e 2 del capitolo 4 di Rambouillet, cosa che senza Milosevic sarebbe accaduta assai più rapidamente. Ergo i bombardamenti e questo spiega anche perché le forze aeree NATO sotto la vostra guida distrussero in Kosovo solo 14 carri armati serbi, ma colpirono ben 372 aree industriali statali (nessuna privata o di proprietà straniera). Il più formidabile blitz delle forze NATO in Kosovo si registrò al termine dei bombardamenti quando 2.900 soldati invasero il complesso minerario di Trepca, valore di mercato di 5 miliardi di dollari, espellendone il management di Stato e i lavoratori. Uno dei primi atti legislativi della nuova amministrazione ONU (Unmik) fu di abolire la legge sulle privatizzazioni del 1997 per permettere la proprietà straniera al 70% di qualsiasi industria statale con solo il 15% riservato ai lavoratori. A gestire il bottino di guerra fu lasciata la Kosovo Trust Agency (KTA) che ha di fatto svenduto il Kosovo a pezzetti ai migliori offerenti stranieri.

    6) sulla privatizzazione della guerra USA in Iraq, con le torture di Abu Ghraib e annessi orrori resi possibili quando il Democratic Leadership Council approdò alla presidenza degli Stati Uniti nel 1992-3 con Bill Clinton e proprio te, Al Gore. Tu in particolare (Nobel per la Pace, sic) hai dato il via a una privatizzazione della Difesa a rotta di collo, che però non fu regolata (e ancora non lo è) dalle leggi del Libero Mercato, come si potrebbe pensare, ma sovente secondo la regola dei contratti No-bid Cost-plus, dove l’appalto è assegnato dall’alto e senza gara, mentre i costi sono rimborsati alla ditta prescelta semplicemente in base alle sue dichiarazioni di spesa, e senza che alcuna Authority statale possa controllare alcunché. Una vostra Tangentopoli così definita: “Hanno creato un sistrema stalinista per remunerare i loro vassalli… questo è un manicomio alla deriva” (commento di Robert Greenwald, autore di Iraq For Sale: The War Profiteers, nella sua testimonianza presso il House Appropriation Committee del Congresso americano).

    7) sul favore che tu e Clinton avete fatto agli speculatori petroliferi passando le leggi che permettono a questi avvoltoi di speculare sul prezzo del greggio selvaggiamente e fuori dal controllo della Commodities Future Trading Commission USA; naturalmente a spese nostre e soprattutto dei poveracci del mondo… e, oh!, dimenticavo Al, a spese dell’ambiente.

    8) sulla deregolamentazione dei mercati finanziari promossa a rotta di collo da te e da Clinton con l’approvazione delle leggi Gramm-Leach-Bliley e Commodity Futures Modernization, che sono la causa prima e diretta della catastrofe finanziaria che ha mandato in rovina milioni di famiglie nel mondo dal 2008 a oggi (Italia inclusa), e che ha indebitato gli Stati occidentali con le banche criminali che voi avete liberalizzato a suon di almeno 23 mila! miliardi di dollari (Italia inclusa).

    Ok Al, attendo la chiamata e il contratto di Current TV. Paolo Barnard

    p.s. passate questo pezzo alla platea delle ‘belle anime’ adoranti italiane che si sono bevuti da soliti tonti sto uomo indecente. Ma non potrebbero arrivarci da soli a capire chi è un vicepresidente americano?
    Paolo Barnard
    Fonte: http://www.paolobarnard.info
    Link: http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=180
    25.04.2010

  2. Argomento interessante (come in generale tutti gli argomenti di cui si occupa Belpoliti).
    L’idea di Nagasaki mi ha sempre fatto pensare. Gli argomenti per l’uso dell’atomica sul Giappone non sono privi di merito ma giustificano, se ci riescono, solo Hiroshima: Nagasaki sembra un di più inutile o peggio.
    Un dettaglio: il Presidente Truman approvò esplicitamente il lancio della bomba su Hiroshima ma non quello su Nagasaki che procedette in base a una specie di automatismo militare – anche se chiaramente Truman non disse nulla.

  3. “La vergogna può non pensare a nulla, avere l’aspetto di Yosuke Yamahata, il suo vuoto nel cervello?”

    Questa sequenza di riflessioni di Belpoliti si può applicare, secondo me, al lavoro e alla vita di moltissimi fotografi-reporter che hanno lavorato e lavorano in zone di guerra e di catastrofi. Ho letto varie testimonianze, alcuni di loro dicevano apertamente che mentre scattano si distaccano dal loro soggetto, diventano come straniati, freddi. E sentono la pietà che scompare, perché l’unica entità è quello sguardo, quella visione nel rettangolo del mirino, quel segmento di realtà da fissare nell’immagine, sia essa pellicola o digitale. Io, benché non abbia mai davvero lavorato nel reportage puro, ho provato più volte qualcosa di simile.

    Queste riflessioni – queste domande – cercano di “bucare” quel velo di apparente freddezza, per scoprire cosa c’è dietro.

  4. NON c’è giustificazione per Hiroshima o Nagasaki: neanche si riesce a comprendere (anzi, purtroppo si comprende benissimo) perchè non siano considerati tra i peggiori crimini contro l’umanità della storia. E’ stato un esperimento con cavie umane. Gli Usa volevano vedere come funzionava. La guerra sarebbe finita lo stesso, se non il 15 agosto, qualche settimana dopo. L’indifferenza USA nei confronti delle “razze inferiori” è sempre stata simile in modo inquietante al nazismo.
    C’è uno studio ineressante di Domenico Losurdo che documenta come la progressiva emancipazione dei neri in USA fosse avanzata nella seconda metà del XX secolo, anche per impedire che un inasprimento portasse a un avvcinamento delle masse dei neri oppressi al comunismo. Fu uno dei motivi dell’avvicinamento di Kennedy a M.L. King leader di ispirazione gandhiana, ma fortemente anticomunista. Che c’entra con Nagasaki e Hiroshima? Forse niente, forse tutto…

  5. Non dimentichiamoci che furono fatti degli esperimenti nel deserto di Alamogordo, nello stato del Nuovo Messico(Stati Uniti d’America): ricordiamoci che degli esseri umani avevano già visto ..

    ..e per tutti hanno deciso.

  6. Mi sembra che il citato Paolo Barnard si sia dimenticato che l’ecologo premio Nobel Al Gore è stato anche corresponsabile del peggior disastro ambientale avvenuto in Europa dopo Cernobyl, ossia i ripetuti bombardamenti NATO sul complesso chimico di Pancevo, nella ex Yugoslavia, i cui risultati, in termini sanitari (tumori, malformazioni ecc.), si stanno vedendo su vittime, come sempre, assolutamente innocenti.
    salute
    michelangiolo bolognini


  7. paolo barnard si è dimenticato di Pancevo.
    l’allora vicepresidente americano della amministrazione clinton, che volle fortemente il bombardamento era al gore.
    oggi le fabbriche di Pancevo sono state quasi tutte chiuse e migliaia di operai hanno perso il lavoro e lasciati sulla strada.
    la nato non hai mai risarcito i danni causati alla cittadina di Pancevo, in compenso pero’ alcune multinazionali che si occupano di bonifiche ambientali si sono presentante a Pancevo negli ultimi anni disposte a bonificare l’ambiente in cambio di milioni e milioni di dollari, che la Serbia dovrebbe pagare in una cinquantina di anni.
    e intanto la gggente, i bambini, “le vittime innocenti, muoino, a causa del “cacro di Pancevo”

    anche la brillante maria latella si è scordata di rammentare al “sostenitore della verità” questi piccoli particolari e anche roberto saviano che ha avuto il “privilegio” di incontrare questo uomo di “pace”
    aveva urgenze diverse da esprimere.
    molti baci
    la funambola

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gianni biondillo
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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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