l’Eugenio
[È nato un nuovo blog, l’Eugenio, tenuto da Francesco Guglieri. Questo è uno dei primi pezzi apparsi.]
“Cos’è questo libro?” verrebbe da chiedersi, parafrasando un’altra opera di Tiziano Scarpa, appena ci si ritrova tra le mani questo suo ultimo La vita, non il mondo. Nel volumetto della collana “Contromano” – che, lo dico subito, è indirizzato unicamente ai più ferventi devoti dello scrittore veneziano – sono raccolte un centinaio di esperienze personali, descritte in modo sintetico (al massimo mezza cartella), vissute da Scarpa nel corso di un paio d’anni. Non è una collezione di prose d’arte – e non vuole esserlo: uno degli intenti di tutta l’operazione è proprio la messa tra virgolette del concetto di estetico. E a dire il vero è un intento perfettamente raggiunto dal momento che raramente questi pezzi si possono definire “belli”… – ma neanche propriamente un diario. Assomiglia piuttosto a un esperimento. Di nuovo si è costretti a specificare. L’esperimento non è nella ricerca di una qualche forma, appunto, sperimentale: precedenti illustri nella tradizione novecentesca non sono difficili da trovare (tra i tanti possibili, uno a caso: il Perec de L’infra-ordinario con la sua indagine “sull’abituale”), e non rappresenta un’eccezione neanche in un’opera, come quella di Scarpa, che ha fatto dello scarto dalla norma una regola. No, si tratta piuttosto di un esperimento filosofico (un’indagine fenomenologica): cosa resta dell’Io quando lo spogliamo di tutto ciò che non è Io? Ovvero, cosa resta della vita quando le sottraiamo il mondo.
Ecco quindi questi brevi interventi – una visita a una mostra, un taxi che quasi ti investe, l’acquisto del pane, la lettura di un libro – che non vogliono significare altro che se stessi, esemplari di una scrittura “tutta qui”, unicamente referenziale, priva di velleità metafisiche, estetiche o politiche. C’era una vecchia pubblicità di qualche detersivo che mostrava un tizio immerso fino al collo nell’acqua del bucato: quello che fa Scarpa è tirare fuori quell’omino (se stesso) dall’acqua sporca del bucato-mondo – le notizie dei giornali e dei media, le emergenze imposte, il discorso dei poteri, ma anche le narrazioni grandi e piccole, le storie, i romanzi: il risciacquo dei simboli condivisi di una comunità – e vedere cosa resta. Resta un vuoto: questo vuoto non è il nulla ma, e qui sta la grande lezione lacaniana che spesso Scarpa ha mostrato di aver recepito, l’incontro traumatico col Reale (che qui chiama l’assoluto).
molto spesso sembra che l’unica opzione a disposizione dello scrittore per reagire ad una crisi di legittimazione sociale sia appaltare la propria ispirazione all’agenda giornalistica
In Italia molto spesso sembra che l’unica opzione a disposizione dello scrittore per reagire ad una crisi di legittimazione sociale sia appaltare la propria ispirazione all’agenda giornalistica (da cui, a turno, romanzi o improvvisate inchieste sull’immigrazione, precariato, terremoti e via dicendo), la tanto ricercata “realtà”. Silenziando, all’opposto, proprio questa realtà, Scarpa resta fedele a un’idea su cui ritorna almeno dai tempi di Kamikaze d’Occidente. Un’idea in cui lo scrittore non rappresenta una classe o un’epoca storica, non è “lo specchio del Paese”, non è un sintomo né un nervo scoperto, non è un emblema né una metafora, non è un portavoce di altri che di se stesso (e quindi, proprio in quanto singolo, di ogni individuo: ecco l’universale). Perché “è attraverso i singoli che passa, oggi, l’irruzione dell’assoluto, dell’universale”: mentre quello che ogni giorno ci viene richiesto, dice Scarpa, è proprio di non prenderci sul serio in quanto singoli (se non nell’estroversione narcisistica, nell’estasi del consumo), quasi avessimo valore unicamente come commentatori di notizie, ricettori per lo più passivi di un mondo che riduce la vita ad appendice, resto.
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