Michele Perriera: l’interferenza necessaria

di Nevio Gambula

Ho conosciuto Michele Perriera per caso, quando mi venne in mano, in una bancarella di remainders, il secondo volume del suo Teatro (Flaccovio Editore, 1978-1982). Restai folgorato dalla lettura delle didascalie di Morte per vanto, una riscrittura del Faust di Marlowe: erano delle vere e proprie partiture, che non solo indicavano una precisa scansione dei gesti e delle intonazioni, ma esponevano un’idea precisa del lavoro dell’attore. Fu una scoperta eccezionale. Avevo appena terminato la scuola d’arte drammatica, dove si erano peritati d’insegnarmi che l’attore doveva, al fine di “abbracciare” lo spettatore, correggere i difetti, i toni sgarbati, le voci sgradevoli, e ciò per approdare a una “bella dizione” spiccatamente televisiva, dunque tranquillizzante e consolante; da Michele Perriera imparavo che la recitazione poteva ricorrere ai toni dell’invettiva, della ritmica scomposta, della parola lacerata: imparavo che l’abbraccio dell’attore può essere stritolante.

Un’altra cosa che attirò la mia curiosità era il modo particolare di disporre il copione sulla pagina. Anche in questo caso, trattandosi, come per le didascalie, di trasformazione in materia letteraria di qualcosa che era già avvenuto, la spazializzazione delle parole aveva il compito di rendere al meglio la rottura dello spazio scenico operata dallo spettacolo. Le diverse «sorgenti di significato» (personaggi, azioni, gesti, voci) agivano «contemporaneamente e interferendo tra di loro», così da offrire allo spettatore una serie di punti di vista diversi. Il risultato era un’avvolgente rottura della linearità che lo costringeva a scegliere quale punto privilegiare.

Il testo disegnava un affresco allegorico da cui emergeva la contraddittorietà dell’azione rivoluzionaria, stretta tra l’urgenza di condurre una lotta senza quartiere contro l’ordine costituito e il rischio di trasformarsi in nuova oppressione. Tanta pregnanza di significato, però, non era resa secondo i canoni allora in voga, che poi erano quelli di un sociologismo pseudo-brechtiano. I personaggi, ad esempio, erano completamente de-eroicizzati, resi marionette grottesche e parlanti un linguaggio che collassava in grumi di frasi senza senso o in tirate poetiche. Insomma, più insistevo nella lettura e più mi accorgevo che stavo imparando qualcosa di decisivo: apprendevo che il teatro non è rappresentazione di un’idea precostituita, ma il luogo dove il corpo è, più di ogni altra cosa, segno di se stesso e come tale non può che mettere in scena la propria differenza.

Oltre a Morte per vanto, il secondo volume comprendeva anche le riscritture del Macbeth shakespeariano e de Le sedie di Jonesco. Il tratto saliente di queste opere era la continua frizione tra la ricerca di una nuova significazione e la coscienza di poterla solo mancare. Da una parte, il dispositivo scenico, e in particolare il piano del linguaggio, accettava il confronto con la storia e mirava a fare cortocircuitare il senso comune; dall’altra, la cattiveria con cui Perriera sezionava lo statuto tradizionale della scena tendeva a frantumare ogni comunicazione: radicalizzando la portata fisico-corporea della parola, il senso deragliava nell’impasto sonoro delle voci e nella gestualità non rappresentativa, destituendo il linguaggio di ogni possibilità di comprensione. L’impressione era di trovarmi di fronte a un teatro inquietante, osceno nel senso di fuori luogo, e quindi incapace di tranquillizzare emotivamente: una sorta di «sogno di liberazione che finisce per diventare una trappola».

Animato dalla volontà di conoscere il più possibile dell’opera di Michele Perriera mi feci spedire, direttamente dall’editore, il primo volume del suo Teatro, che raccoglieva i testi antecedenti il 1968, compreso quello con cui partecipò agli incontri di fondazione del Gruppo 63 a Palermo (Lo scivolo). Leggendo il volume (e alcune cronache del tempo recuperate in biblioteca) colsi nella categoria dell’interferenza il nucleo centrale del lavoro di Perriera. In essa erano messe in relazione, sino a confondersi una nell’altra, diverse intenzionalità: conflittuali, innanzitutto, con il rifiuto della purezza del linguaggio e di ogni compromissione con il potere; ma anche interferenza come messa in attrito dell’ordine del significante con quello del significato, con il conseguente deragliamento dei loro effetti: la parte vocale e gestuale – il repertorio del corpo – smentiva quella semantica, e viceversa, in un continuo mettersi in discussione reciproco. In sostanza, la prassi dell’interferenza permetteva a Perriera di inventare una macchina di segni che era, insieme, esposizione di un senso d’angoscia per la «prigione esistenziale e storica» da cui provenivano i personaggi ed esaltazione della «tensione a sprigionarsi». Il folle vorticare del corpo risveglia una libertà possibile, mentre i significati esibiti la congelano nello squallore del presente. Apprendevo, con vera e propria gioia, che il teatro è questo strazio illuminante.

Venni in seguito a sapere, tramite il magistero di Umberto Artioli, di una lunga pausa di riflessione che Michele Perriera si prese dal 1974 al 1979, di fatto congedandosi dal teatro; pausa dovuta al continuo rimescolamento della compagnia in ragione della scelta originaria «di non scendere a patti con un sistema che si regge su palafitte clientelari, ricattatorie, corrottissime».

E arriviamo finalmente a uno degli spunti decisivi dell’esperienza di Perriera: la coerenza tra le scelte formali interne allo spettacolo e le scelte operate nella vita quotidiana. In Perriera la responsabilità etica dell’artista consiste nel dispiegare l’opera uscendo dalle miserie del teatro contemporaneo; e non solo ripensandone l’esercizio materiale e simbolico, ma anche rifiutando programmaticamente le «sventurate compromissioni» con le mode del momento e con i ricatti posti dal sistema produttivo. Ovviamente, il risultato di una scelta così radicale non poteva che essere la sparizione.

Certo, oggi, nel pieno di un’epoca che fa della dimenticanza una parola d’ordine, non stupisce che i teatranti non conoscano neppure il suo nome; colpisce di più il silenzio degli addetti ai lavori. Il nome di Michele Perriera non compare in nessuno degli studi storico-critici apparsi di recente. Ma anche le cronache dell’epoca sono state avare di riconoscimenti. La sua presenza è persino omessa dal “catalogo” dell’avanguardia teatrale italiana curato da Franco Quadri (raccoglie materiali prodotti tra il 1960 e il 1978, pubblicato da Einaudi). Eppure, a sentire ad esempio Elio Pagliarani, Perriera era «uno dei pochi teatranti italiani di respiro europeo». Le cause di questa rimozione? Le solite: il rifiuto di scendere a patti col mercato e il privilegio dato all’aspetto autogestionario della compagnia. Non volendo farsi inghiottire dall’apparato, preferiva starne fuori.

Michele Perriera è stato, per anni, un tenace assertore dell’autoproduzione, perseguendo un’alterità radicale dal mercato e dalle istituzioni. Poi, col tempo, ha capito che l’autoproduzione, in assenza di un “movimento” di critica radicale della società (e quindi in grado di elaborare e fare circuitare autonomamente cultura), non può che fallire. Siamo nei primi anni 80, alla fine di un ciclo immenso di ripensamento della società e della cultura, al principio di un’epoca impietosa; le istanze di liberazione faticano ad affermarsi, schiacciate tra repressione statale e terrorismo; siamo al principio di quello che è stato definito «il regno del pensiero debole». Venendo a mancare «le voci della diversità» – è lo stesso Perriera a scriverlo nella sua autobiografia teatrale – non poteva esistere un «ascolto alternativo» capace di dare linfa a un teatro “altro”, mentre le difficoltà economiche lo costringono a ripensare il percorso fatto sino a quel punto. La scelta diviene allora obbligata: «trattare col potere politico senza concedere nulla sul piano clientelare». Grazie a questa mediazione, che Perriera stesso definisce «proletaria», nasce la Scuola di Teatro Teatés, «luogo di rievocazione e rieducazione dell’anima teatrale libertaria».

Sono di questo periodo due degli spettacoli più significativi di Perriera: la riscrittura de Il Gabbiano di Cechov, del 1981, e I pavoni, del 1984. I personaggi continuano a essere ingabbiati in strutture opprimenti; nel Gabbiano, ad esempio, gli attori recitano con collari di gesso che ne bloccano i movimenti e la fonazione, rendendo impossibile ogni scambio dialogico. Viene anche confermata un’altra costante della sua scrittura scenica, la presenza di sonorità ambientali (vento, tuoni, pioggia battente) riprodotte elettronicamente; è tramite di esse che il regista palermitano traduce scenicamente «la crisi epocale» che sta attraversando, dando allo spettatore la sensazione di trovarsi in uno spazio attraversato da una furiosa tempesta. La pratica dell’interferenza è dunque confermata, mentre la tensione utopica, in precedenza traslata nel grottesco incedere dei personaggi, lasciati senz’altra speranza che non fosse la loro stessa eccedenza, ora assume «cadenze visionarie». Il testo drammaturgico tenta una «rinascita del senso».

Si tratta, però, di una testualità critico-utopica che esula da ogni «esortazione declamatoria», distaccandosi nettamente da quella specie di retorica neopopulista che ritorna ciclicamente di moda. Si discosta, cioè, e completamente, da un utilizzo meramente propagandistico della critica, proprio del cosiddetto “teatro politico” o dell’animazione teatrale dell’epoca, così scopertamente simile a certo teatro “di narrazione” o “civile” d’oggi, patetico nella proposta di contenuti che suscitano facile consenso e fondato su un moralismo finto-partecipativo dove lo spettatore può soltanto riconoscersi e non, invece, come auspicava Perriera, ridefinirsi come altro da ciò che era prima di entrare in sala. Una scrittura veramente critica si consuma piuttosto come radicale perplessità: parla dell’anima e del mondo non per confermarli ma per trasformarli in enigmi. Anche in questo versante è stato illuminante l’insegnamento di Michele Perriera; mi ha fatto capire la necessità di scandire l’opera come una «lucida litania del dubbio».

L’itinerario di Michele Perriera termina idealmente con la pubblicazione della sua autobiografia teatrale (Romanzo d’amore, 3 volumi, Sellerio 2002). Si tratta di un documento dal valore storico inestimabile, che racconta, da un punto di vista particolare, e con una buona dose di cattiveria, la storia del nostro ultimo quarantennio. Anche quest’opera è stata ignorata. D’altra parte, cosa poteva succedere di diverso? In essa Perriera rivendica orgogliosamente la sua marginalità, restando per di più fedele al contenuto critico di molte avanguardie: l’arte può perdere la sua innocenza senza scadere nella propaganda. Quale pubblico potrebbe applaudirlo? Eppure, è proprio questa coerenza esemplare che l’ha fatto diventare, ai miei occhi, un maestro. Pur non avendoci mai lavorato insieme, ho appreso da Michele Perriera diverse cose per me importanti, dalla possibilità di conciliare, nella recitazione, l’estremismo gestuale e vocale di Artaud con il criticismo dialettico di Brecht, alla necessità di uccidere, in se stessi, ogni forma di servilismo. E ho appreso che l’alterità – la non partecipazione al gioco perverso degli scambi politici ed economici – è molto più dignitosa dell’integrazione mascherata da antagonismo: meglio l’oblio che l’inganno.

***

Michele Perriera (1937 – 2010) è stato narratore, autore di testi drammatici e regista. Tra i fondatori del Gruppo 63, ha diretto il teatro e la scuola di teatro Teatès di Palermo. Ha pubblicato diverse opere di narrativa: La principessa Montalbo (Feltrinelli 1963), Il romboide (Lerici 1969), Il piano segreto (Flaccovio1984). Dal 1994 ha diretto la collana di teatro della casa editrice Sellerio, con cui ha pubblicato la memoria-intervista Marcello Cimino, vita e morte di un comunista soave (1991), Anticamera (1994), La spola infinita (Premio Mondello 1995), Con quelle idee da canguro. Trentasei anni di note ai margini (1997), Atti del bradipo (1998), Ritorno (2003), i romanzi A presto (1990), Delirium cordis (1995), e Finirà questa malìa (2004), l’affresco autobiografico Romanzo d’amore (2002), La casa (2007) e I nostri tempi (2009). Ha curato diverse regie e dal gennaio 1997 al dicembre 2005 ha diretto la Scuola di Teatro del Comune di Marsala. Nel 2006 gli è stato conferito il Premio della Critica Teatrale.

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15 Commenti

  1. Il tratto saliente di queste opere era la continua frizione tra la ricerca di una nuova significazione e la coscienza di poterla solo mancare.

    di un’ autocoscienza intellettuale molto rara
    grazie Gambula

  2. Ciao Nevio, l’articolo è bello, grandioso il seguente passo: «Michele Perriera è stato, per anni, un tenace assertore dell’autoproduzione, perseguendo un’alterità radicale dal mercato e dalle istituzioni. Poi, col tempo, ha capito che l’autoproduzione, in assenza di un “movimento” di critica radicale della società (e quindi in grado di elaborare e fare circuitare autonomamente cultura), non può che fallire» Andrebe spiegato ad alcuni, qui, che vagheggiano circa impossibili autoproduzioni letterarie. Vabbè.. Il ricordo di Michele Perriera, in quanto artista minoritario, potrebbe essere la prima pietra di un intero itinerario che a me sembra sempre più necessario. Mi soffermo su alcune cose sulle quali, con tutta calma, che non ci corre dietro nessuno, mi piacerebbe discutere, non solo con te. Quindi non prenderle come critiche astratte.

    Te lo dico con il cuore in mano: è consolatorio anche dire o far intendere che noialtri siamo marginali perché più etici, in quanto non ci siamo sporcati le mani con le pastette politiche o cooptative. Io credo, invece, che essere etici è parte del nostro essere estetici. Credo che siamo stati obbligati a essere etici, altrimenti l’arte non ci veniva, e non ci viene. Buon per lui a chi si sporca le mani e l’arte gli viene lo stesso, verrebbe da dire, ma esempi in tal senso non ne possiedo. Infatti, i tanti teatranti ZERO ETICA che sopravvivono appena nel mercato, sono loro a essere marginali all’estetica. Il punto è proprio questo: il grado zero dell’etica ha coinciso con il grado zero dell’arte, con gli artisti che invece di produrre bellezza producono pensiero, per meglio dire “ pensierini “ alla portata dei loro committenti, il comune, la regione, lo stato, la televisione, e, più vergnosamente ancora, le teste dei loro immaturi spettatori, che non a caso affollano le orazioni dei teatranti cosiddetti civili (che civili non sono affatto, perché non sono etici, non rispettando i principi del loro linguaggio). Però, a pensarci bene, arrivati a questo punto, speriamo che il processo acceleri, che rimangano solo le orazioni, così si smetterà finalmente di deturpare il palcoscenico con residui di superata teatralità attoriale e scenica, come del resto già avviene per Travaglio e Saviano: omino microfonato che, per il confort del pubblico, dice roba scritta in piccolo sui giornali, che sarebbe faticosa da leggere. A quel punto i teatri verranno rinominati e si chiameranno INDIGNATOI. Tutti salvi: il teatro andrà rifondato! Sogno?! Che fare allora?

    Bisognava e bisogna rifiutarsi di collaborare con questa nuova cultura che considera barbaro chiunque, con atteggiamento etico, tenti di far valere le ragioni e la BELLEZZA del proprio linguaggio. Bisogna dunque allontanarsi dalla critica, dal giornalismo, dal sociale ricattatorio, dalla politica, osteggiare i finanziamenti pubblici, a costo di chiedere l’elemosina, o vivere del risultato del botteghino. Che succederebbe senza finanziamenti pubblici in campo? Il teatro “ borghese “ sopravviverebbe aumentando il costo del biglietto, io credo non sotto i 100 euro, permettendo a chi è marginale di proporre un teatro in concorrenza mettiamo a 25 euro (che è più o meno il costo di un biglietto di curva allo stadio o di un libro strenna social civile culturale). Sparirebbero all’istante tanti lestofanti che conosciamo bene, installati nell’area del teatro sociale solo grazie ai finanziamenti pubblici ottenuti attraverso collusioni varie. Sparirebbe anche il teatro di regia, superato dalla storia e troppo costoso. Ma sopravviverebbe un teatro giovanile, magari all’interno delle università, più o meno privo di risorse economiche, come adesso, per forza collegato alle correnti estetiche non solo del momento. Sopravviverebbe un teatro fatto per mestiere, che continuerebbe a circuitare nei teatri borghesi, entro il quale, come adesso, emergerebbero rari esempi di teatro d’arte. Sopravviverebbe infine un teatro più problematico, sempre legato alle correnti estetiche, a sua volta riserva come eccellenza del teatro borghese, ma fatto quasi sempre per necessità artistica e autoformazione, coi pochi soldi degli incassi e di altri sotterfugi commerciali (ricordo un’intervista a Ulisse Benedetti, gestore del Beat 72 a Roma – sgangherata cantina nella quale hanno lavorato artisti del calibro di Carmelo Bene, Luca Ronconi, Leo e Perla, Vicotor Cavallo – il quale diceva canzonatorio che il teatro era stato finanziato dai barbieri del Lazio, ai quali lui, in quanto rappresentante di prodotti per barbieri, aveva applicato una tassa occulta di 5000 lire mensili…).

    Lo so che sembra complicato sopravvivere senza l’anello di finanziamento pubblico, ma se non ci inventiamo qualche nuova forma organizzativa, se non ci ricolleghiamo alla cosiddetta ggente, il pubblico, l’oblio stesso diventerà una chimera, perché ci rimarrà solo l’impossibilità di esistere.

    Come artisti dobbiamo rivendicare gli spazi teatrali esistenti, che vengono utilizzati pochissimo per le recite, perché a ogni recita corrisponde una spesa che le amministrazioni non si possono permettere: pensiamo a regioni come l’Emilia e la Toscana, dove ci sono più teatri che officine (e più artisti che operai…), ma rimangono chiusi, inispecie quelli nei piccoli centri, salvo pochi giorni all’anno di recite… anche la libertà di costruiersene di propri, dobbiamo rivendicare, in case, garage, capannoni industriali dismessi o che altro, in deroga alle normative liberticide, magari sotto ai 100 posti, com’era fino agli anni ‘80. Bisogna riproporre forme organizzative come il teatro di repertorio, che ridurrebbe drasticamente i costi delle produzioni. Bisogna forse inventare teatri-bar-galleria-libreria-ristorante-jeanseria o che altro, che diventino luoghi di ritrovo (e di guadagno da investire in fatti artistici). Bisogna battersi per essere detassati, come chiedeva tra l’altro Eduardo De Filippo, che tra i tanti meriti seppe conciliare l’arte con il botteghino. E bisogna tendere a ricostituire delle famiglie teatrali, perché il gesto lirico individualistico non si concilia con il teatro, che è un’arte sociale, prima di tutto perché ci vuole il pubblico per farlo. Parafrasando Brecht, secondo il quale la più piccola unità sociale non è l’uomo, ma due uomini, in teatro la più piccola unità sociale è la famiglia teatrale, della quale deve far parte anche il pubblico, se possibile cosciente di far parte di fatti artistici.

  3. Grandi Gambula e Larry,
    soprattutto per il coraggio con cui osano bestemmiare il cosiddetto teatro civile, cimiterile, odissea nel proprio cortile, grado zero della ricerca, narrazione senza oralità, surrogato di raitre per il sinistrume salottiero, vittoria di pirro senza conflitto …

  4. Ha scritto romanzi, editi da Sellerio (“Romanzo d’amore” e “La casa”, i più recenti) e saggi, da “Marcello Cimino, vita e morte di un comunista soave” all’antologia “L’avvenire della memoria”, sull’antifascismo siciliano. Ed è stato soprattutto autore di testi teatrali, regista, fondatore e animatore di una grande scuola di teatro d’avanguardia, “Teatés”. Perriera e il teatro. Il teatro di Perriera (da “Morte per vanto” alle riscritture originalissime de “Le sedie” di Jonesco, del “Macbeth” di Shakespeare e de “Il gabbiano” di Cechov, sino ai testi come “Anticamera e “Atti del bradipo”)

    Nonostante i limiti di Palermo, la sordità delle pubbliche amministrazioni (per anni “Teatés”, scuola apprezzata in tutta Europa, non ha avuto nemmeno una sede stabile, per insipienza del Comune), la volgarità cultuyrale e sociale dei ceti dominanti. Perriera, pur spesso provato, stanco, deluso, non si è mai arreso.
    http://www.acalabro.com/index.php/2010/09/12/la-morte-di-michele-perriera-maestro-di-teatro-e-lavvenire-della-memoria/

    ci vuole tanto coraggio e tanto amore per un siciliano restare in sicilia e fare lavoro culturale in sicilia.

    i libri di michele perreira
    http://www.ibs.it/libri/perriera+michele/libri+di+michele+perriera.html

  5. @ Viola, Ares e Orsola
    many thanks!

    @ Larry Massino

    Sul rapporto tra etica ed estetica non credo che riuscirei a dirlo meglio di così:

    “Uscire dalla configurazione etica attuale, tornare a conferire alle invenzioni della politica e a quella dell’arte le loro specificità e differenze significa anche rifiutare il fantasma della loro purezza, ridare a queste invenzioni il carattere di tagli sempre ambigui, precari e conflittuali. Questo suppone inevitabilmente di sottrarle a ogni teologia del tempo, a ogni pensiero del trauma originario o della salvezza a venire.”
    [J. Rancière, Il disagio dell’estetica]

    Concordo sulla necessità di “rifiutarsi di collaborare”. Sui finanziamenti pubblici, più che accettarli o respingerli andrebbe analizzato il meccanismo – per altro meramente QUANTITATIVO – che sottende l’elargizione. Chissà, magari si potrebbe dimostrare che allo Stato non importa il teatro, ma l’intrattenimento. Ma sulla “rappresentazione di Stato” ha già detto tutto CB. Si tratta di essere conseguenti.

    Io, nel mio piccolo, ormai giro solo “a incasso”. Quando va bene ci cavo fuori le spese (e infatti ho dovuto accettare un incarico di docenza). Sono sempre meno le realtà che possono garantire un cachet; la scelta di mettere in gara d’appalto i teatri pubblici (gare il più delle volte a ribasso mascherato) non potrà che peggiorare la situazione. Forse la crisi ci darà una mano …

    [Sarebbe ora di fare un’analisi economica del sistema teatrale]

    Completamente d’accordo – infine – sul tuo ultimo capoverso. Chissà, magari nel fondo della mia psiche, laggiù dove il rimosso s’agita scomposto, c’era il fantasma del capocomicato che mi portava a fare tre figli …

    @ Luca T
    tutta la tua frase è un esempio di sintesi critica perfetta.

    @ Carmelo
    sì, Michele Perriera ha scelto coraggiosamente di restare a Palermo. In molti gli suggerivano di andarsene; lui ha scelto di restare e di resistere. A che prezzo? Ma l’oblio è davvero meglio dell’inganno.

    NeGa

  6. @ng
    Non c’e’ oblio per l’arte almeno io voglio illudermi che sia così.

    10 o 20 o 50 anni non sono niente. Ci sono epoche che non si meritano gli artisti loro contemporanei. L’arte sopravviverà anche a questi tempi bui. Infine tanto per cambiare io sto con R:Bolano
    “La nostra etica è la Rivoluzione, la nostra estetica la Vita”

  7. “Il punto è proprio questo: il grado zero dell’etica ha coinciso con il grado zero dell’arte, con gli artisti che invece di produrre bellezza producono pensiero, per meglio dire “ pensierini “ alla portata dei loro committenti, il comune, la regione, lo stato, la televisione, e, più vergnosamente ancora, le teste dei loro immaturi spettatori, che non a caso affollano le orazioni dei teatranti cosiddetti civili (che civili non sono affatto, perché non sono etici, non rispettando i principi del loro linguaggio)”.

    L’arte dei chiagnefotte!

  8. @ Nevio Gambula
    Grazie, questo ricordo serviva davvero.
    E serve anche per (ri)pensare che cos’è oggi il teatro in Italia.

  9. Perriera è stato un maestro anche per chi, come la sottoscritta, non ha avuto mai modo di incrociarlo in modo diretto nel proprio percorso formativo.
    Ha creato una scuola, un modo singolare e condiviso di intendere il fare teatrale, è stato un esempio di indipendenza radicale. Quella sua «radicale perplessità», il senso dell’arte come luogo per eccellenza del dubbio, della parola che interroga e rifugge dalle certezze più consolatorie è stata per molti una linfa vitale, anche per chi, come la sottoscritta, ripeto, non può ascriversi tra i suoi allievi.
    Quel che non mi sento di condividere, e che non ho mai condiviso è «l’orgoglio della marginalità», che è cosa diversa dall’indipendenza e dall’irriducibilità intellettuale. E questo perché credo che pensare la marginalità come un valore in sé ha creato molti equivoci e ha dissipato molti talenti.
    Se il maestro Michele Perriera può accreditare tra le eredità lasciate alla città di Palermo una scuola (la scuola immateriale dei suoi allievi) questo si deve proprio al fatto che, c’è stato un momento nella storia culturale di questo paese e della mia città, in cui si è sfidata la marginalità. La marginalità di voci forti e significative, così come l’oblio non è, a mio avviso, una vittoria, ma è un fallimento proprio per chi ha a cuore la pluralità delle voci che fanno cultura in un paese. Né restare «fedele al contenuto critico di molte avanguardie» è a mio avviso un valore in sé. Anzi è stata spesso una scelta che ha soffocato anche molti talenti che l’hanno male intesa, come una forma di fedeltà alle parole d’ordine delle neoavanguardie ridotte a formule cristallizzate. E lo dico perché onorare la memoria di un maestro della statura di Michele Perriera significa, a mio avviso, anche rendere viva, dunque problematica la sua lezione.

  10. @Evelina Santangelo

    nessuno gode della condizione di marginalità in cui si trova, nessuno se ne deve compiacere, l’abbiamo già detto. Ma il suo messaggio di terrore verso qualunque condizione di marginalità sembra sottindere la necessità di venire a patti con ‘O Sistema, coi linguaggi dominanti, con le esigenze del pubblico e del mercato, detto in una parola, con la cultura. Un artista è quello che è, nel bene e nel male è portato a esprimersi coerentemente nel suo linguaggio: una volta si troverà integrato, cento volte marginale. I posti a sedere da integrati sono limitati, e il più delle volte sono occupati da culi di impostori, come sappiamo tutti. Nel teatro ci sono stati, negli ultimi 40 anni, tanti esempi di artisti marginali decisivi. Non sto a fare nomi, anzi uno lo faccio, anche in onore alla sua memoria, Perla Peragallo, che era di sicuro una grande attrice, che smise di teatrare molto presto, intorno ai 40 anni. A volte sono stati gli stessi teatranti degli anni ’70, che da marginali erano innovativi ed eversivi, ad aver perso quasi del tutto la loro valenza artistica una volta integrati. Ci sono stati anche casi di integrati che non hanno perso nulla del loro linguaggio originale, Carmelo Bene, ad esempio, forse il teatrante più importante del mondo nella seconda metà del secolo scorso, che però in Italia veniva considerato un ” pazzo ” e non ebbe mai un teatro suo.

    Insomma Evelina, la faccenda è complicata, non può essere liquidata con un processo sommario alla marginalità, anche perché la letteratura, della quale lei stessa fa parte, è piena di esempi di marginali decisivi che non ottennero un posto a sedere, ostacolati da culi più rassicuranti ma mai artisticamente decisivi.

  11. Mi paiono giuste le osservazioni di Larry Massino.
    Io direi che cio’ che conta è la qualità estetica dell’opera.
    E direi anche che:
    1): le opere innovative, que sovvertono i canoni stabiliti, sono per definizione marginali rispetto alle istituzioni culturali e rispetto al mercato. Succede sempre cosi’ finche non si impongono i nuovi canoni
    2): rivendicare la propria distanza dalle congreghe e dalle mafie letterarie, rifiutare ogni compromesso con le istituzioni (è il caso del teatro) e con il mercato, pagando di persona in termini economici e di diffusione della propria opera, io l otrovo lodevole sul piano etico e non solo.
    3): puo’ succedere e succede che artisti, nonostante il rifiuto di ogni tipo di compromesso riescano ad imporsi nel mondo istituzionale della critica e del mercato, perdendo (in questo caso è un fatto positivo) la condizione di marginalità

    4): se invece un cattivo autore che produce opere di scarso valore estetico, utilizza la propria condizione di marginalità come alibi per nascondere la propria mediocrità, beh allora in questo caso vale quanto dice evelina

  12. Visto che stiamo parlando di artisti di teatro marginalizzati, sarebbe bello che qualcuno dei suoi allievi potesse ricordare la figura di Mario Montagna, che, tra l’altro, aveva fondato a Milano il Teatro I, oggi in mano ad persone diverse. Anche Leopoldo Mestelloni rappresenta un conflitto interessante da questo punto di vista. Grazie Nevio Gambula per l’artico pieno di citazioni memorabili.
    Non intendo ridurre la levatura del discorso, ma vorrei tuttavia anche ammettere che, soffrendo di una disdicevole fobia per gli attori che rantolano in scena, mi è impedito di appassionarmi al filmato proposto da Orsola. Spiace, ma proprio mi viene il raptus del colpo di grazia. Tale fobia, che forse non è solo mia, suggerirebbe una scusante per una parte degli spettatori i quali, senza essere delle anime morte, si sono tenuti purtroppo distanti da molte opere di pregio.

  13. @ Evelina Santangelo

    alcuni appunti:

    • In Perriera l’orgoglio della marginalità coincide con l’indipendenza e con l’irriducibilità intellettuale; sono dimensioni di uno stesso atteggiamento. Nessuno è felice di stare ai margini. Io, ad esempio, me la godrei un mondo a essere famoso: soldi, donne, viaggi, autografi … Solo che la vita m’ha spinto verso altri lidi. Ne prendo atto e me la godo lo stesso. In ogni caso, meglio orgogliosi della propria marginalità che lamentosi.

    • Non è il rivendicare la marginalità che ha dissipato molti talenti, ma il funzionamento di quello che Larry Massino chiama ‘O Sistema. Basta poco per verificarlo.

    • La marginalità è sempre relativa. Rispetto alla cultura di Palermo, Perriera non può essere considerato un marginale. Rispetto alla storia del teatro italiano degli ultimi quarant’anni, sì. Un suo libro si sottotitolava “Trentasei anni di note ai margini”: è anche un modo di rivendicare l’orgoglio di avere resistito in un contesto non proprio agevole.

    • Ridimensionerei la questione delle avanguardie. La mia frase voleva solo intendere che la critica può essere agita al di là del mero contenutismo. Così come, per l’appunto, hanno tentato di fare alcune tra le avanguardie. Nient’altro.

    NeGa

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Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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