Le storie inospitali di Jahnn

di Marco Rovelli

L’editore Lavieri ci ha dato un altro libro nella sua preziosa collana Arno:  13 storie inospitali di Hans Henny Jahnn, per la traduzione di Elisa Perotti.  Scrittore tedesco della prima metà del novecento, molto poco conosciuto (basta vedere quante poche occorrenze su google…). Con le tredici storie di questo libro è come leggere fiabe. Pure e cristalline nella loro crudeltà. Storie stratificate, complesse, fitte di rimandi interni, e insieme lineari e godibilissime, grazie a una straordinaria raffinatezza psicologica.

Fiabe che appartengono a una dimensione mitologica, sacra. Scrive Andrea Raos nella postfazione: “In un’interminabile, sconvolgente seduta di ipnosi narrativa, Jahnn raggiunge uno dei suoi vertici artistici e concettuali: la creazione perfettamente laica di uno spazio perfettamente sacro. Uno spazio cioè finalizzato alla sospensione del tempo e delle contingenze e simultaneamente rivolto al qui e ora, all’umanissimo bisogno di far toccare terra al dolore perché se ne scarichi e diffonda la potenza tragica”. Un vertice raggiunto forse nella storia, la prima del libro, dello sterminato e visionario amore di Ragna, santa folle e puttana.

Ma è il racconto “L’orologiaio“ che svela e dispiega il senso ultimo del “discorso” di Jahnn, e del senso della sua scrittura. E’ infatti messo in scena l’artificio che sostiene il tempo, che lo fa essere, che ne è la condizione di possibilità. E’ necessario uno spazio altro (fuori dal tempo) per sostenere un tempo all’interno del quale i “cuori” continuino a battere. L’artificio, allora, è la condizione di possibilità della natura umana.

La scrittura, il racconto di storie “fuori dal tempo” è un’interminabile, ricorsiva, rituale, ipnotica narrazione senza la quale il mondo non avrebbe più sostegno (come fosse un mantra che non dev’essere interrotto pena la fine del tempo, del mondo). I racconti, che Jahnn deve scrivere, sono l’architrave del mondo. La sua letteratura, dunque, mitologia.

(pubblicato su l’Unità, il 15/1/2011)

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19 Commenti

  1. Lo sto leggendo e trovo che quella data dal direttore di collana D.P. nel risvolto di copertina sia un’ottima definizione: «manierismo magico». Tra le cui virtù vi è una cognizione profonda dell’umano, che a tratti si addensa in aforismi del tipo: «Il seme dell’animale è la sua brama, la brama dell’uomo è il godimento della bellezza», oppure: «Fare causa comune è sempre un sentiero che porta alla perdita di consapevolezza». E L’orologiaio, in effetti, è quintessenza della meraviglia.

  2. Trovo che questo libro sia meravigliosamente “lento”, forse per quella stratificazione di cui parla Marco in apertura. Le storie svelano i loro significati nel tempo (quello della lettura, quello necessario del ripensamento, quando si comprende se un libro funziona davvero), lasciando sempre margine ad un’ambiguità, un “non c’è niente da sapere, da intuire, oltre la storia stessa”, che è il seme dell’elemento fantastico dei racconti. Se infatti appartengono alla definizione di letteratura fantastica non è perchè ci troviamo davanti a protagonisti che sono morti-viventi (Kebad Kenya), altri che sopravvivono misteriosamente alla lama del coltello, ad amori così forti e ossessivi da diventare demoniaci e generare spettri come nella storia di apertura, ma per l’inquietudine, l’insoluto che ne esce, una dimensione che pur non avendo niente dell’aldilà e molto dell’aldiqua, si manifesta un po’ più chiara solo nello sforzo immaginativo del lettore, nella sua capacità di accogliere l’inospitale. Non è un caso che uno dei temi di questi racconti sia l’ossessione del doppio – l’altro e l’altro in sé – esplicito nella storia dei gemelli, ma importante anche in un racconto straordinario come quello de Il tuffatore. Uno di quei libri che mi farà compagnia per molto… spero che esca in italiano anche Fiume senza rive!

  3. lavieri è una garanzia !
    quel genere di editore ideale che il lettore sogna!
    per me è stato l’acquisto piu’ azzeccato del 2010, beh diciamo uno dei piu’ azzeccati

  4. Nella breve ma illuminante postfazione, Andrea Raos riserva l’aggettivo di grand a quegli scrittori <b<che sanno rallentare. fermare il ritmo, dilatare il respiro, aprire dentro la frase spazi e pulsazioni inattese. creano spazio sospeso che argina la morte
    E con mio sommo godimento di lettore tra i grandi colloca Juan Rulfo (la cui garndezza è inversamente proporzionale el numero di pagine scritte nella sua vita) che rallenta per concisione e sottrazione
    dopo aver iniziato a leggere il libro mi sono tornate in mente le considerazioni di Raos perchè la lettura di Jahan mi ha fatto provare la stessa sensazione che provai quando iniziai a leggere i racconti di El llano en llamas prima e il romanzo Pedro Paramo poi:
    La sensazione di mondo perfetto dove il tempo è sospeso, anzi è una volgare convenzione umana. Questa sensazione si accompagna alla paura che sia solo un’allucinazione. Allora sarà necessario leggere di nuovo e di nuovo ancora per sentire quel respiro quegli spazi e pulsazioni inattesi ed inesauribili che scopriamo ad ogni lettura.
    Così è stato per Juan Rulfo e così sarà per Jahnn.
    Per questo sento da lettore la grandezza di questo autore e intanto ho quasi paura di finire di leggere il libro, paura che tutto svanisca.

  5. mannaggia
    questa frase
    che sanno rallentare. Fermare il ritmo, dilatare il respiro, aprire dentro la frase spazi e pulsazioni inattese. Creano uno spazio sospeso che argina la morte
    è una citazione della postfazione di raos

  6. Non so se tutta Lavieri sia «editore ideale che il lettore sogna», non conosco l’intero catalogo, ma a volte mi piace immaginare che fra qualche decina d’anni, mentre si saranno ormai celebrati i funerali della germanistica come di tutte le discipline basate su lingue e letterature nazionali, si ricorderà la collana Arno come una delle imprese editoriali più ardimentose del nostro tempo.

  7. per quel che mi riguarda, è tutto conflitto d’interessi ma non posso fare a meno di quotare le parole di stefano e indicare super domenico pinto (come anche marcello buonomo e rosa lavieri, ovvero i signori lavieri) tra i benemeriti della nazione per le traduzioni dal tedesco presenti in arno!

    (scriveremo kempy 4ever furiosamente sui muri)

  8. Difficile dire qualcosa di consistente su Jahnn: è un autore “grosso”, di quelli che producono movimenti tellurici nella letteratura, movimenti che non è facile misurare. Il racconto “I mangiatori di marmellata”, ad esempio, che è del 1928, trapassa impercettibilmente dal romanzo di idee (a seguire le discussioni politiche dei tre ragazzi sembra di essere da qualche parte nella “Montagna incantata”) a quell’epica personalissima di Jahnn che affiora da forme narrative e sensibilità davvero «pre-luterane».

    Si potrebbe andare più in là, e dire perfino «pre-sociali»: nel senso che in Jahnn il corpo viene come spogliato di ogni connotazione sociale, tutti i legami sono aboliti, salvo quelli di sangue e sessuali. Resta il corpo nudo (spesso un corpo maschile) con le sue nude qualità. C’è un che di brutale, di barbarico, in questo: i tratti di un volto possono riassumere, quasi fisiognomicamente, un destino.

    Ma Jahnn, che non concedeva nulla alle culture reazionarie dell’età di Weimar, mette in scena esistenze socialmente nude non per affermare distinzioni di sangue, ma per sabotare la modernizzazione e le sue ideologie (di destra e di sinistra).

    C’è qualcosa, in questa visione della storia, che si può ritrovare, con le debite cautele, in Pasolini. Anche la ricerca di una fuoriuscita dalla modernità nel mito, o in paesi “esotici”: l’Africa o lo Yemen o la Napoli hanno in Pasolini una funzione in parte analoga alla Norvegia dei troll, a Santa Catalina, al medio-oriente da mille e una notte in Jahnn. Fuori dalla società moderna si può ritrovare – e raccontare – un’integrità dell’essere umano della quale nel capitalismo avanzato non è più dato fare esperienza: un mito regressivo che è, al tempo stesso, utopia progressiva.

    (Tutto questo detto molto approssimativamente, appunti di lettura).

  9. Domanda assai prosaica: si trova in libreria, Jahn?
    Su Ibs dicono che ci vogliono 3 settimane per averlo

  10. Michele, è da quando hai lasciato il tuo commento che rimugino su questo tuo paragone tra Jahnn e Pasolini. E innanzitutto grazie per avermici fatto pensare.

    Sarebbe interessantissimo approfondire. Ma molto a epidermide, da lettore comune, la mia sensazione è che nell'”orientale”, nel “lontano”, P. trovasse ciò che già sapeva che avrebbe trovato. Il suo sguardo, la sua “ideologia” non lo abbandonano mai. Con l’India o lo Yemen o quello che è, P. cerca sempre di spiegare, anche in negativo e in absentia, l’Italia (l’Occidente, volendo).

    Al contrario J. – ed è la prima cosa che mi colpì in lui – quando abbandona fisicamente e mentalmente l’Europa ne molla le coordinate come si mollano gli ormeggi e si spezza la bussola: si perde davvero. Forse anche lui, genericamente, era partito alla ricerca del “diverso” (al di là della necessità storica che gli aveva fatto lasciare la Germania nazista). Ma dove è arrivato, sono convinto che non saprebbe dirlo nemmeno lui. Lo rileggo da anni, è uno dei motivi per cui continuo a rileggerlo, ma fin dove si sia spinto continuo a non capirlo. Perfino “pre-luterano”, bellissima sintesi, non mi basta. J. ha aperto uno squarcio, e ancora sessant’anni dopo io non ne intravedo il fondo. Cosa posso volere di più da uno scrittore?

  11. Sono molto d’accordo, Andrea, quando dici che l'”ideologia” non abbandona mai, in fondo, Pasolini, mentre Jahnn invece l’abbandona, o ne è perfino immune, e così può spingersi attraverso la scrittura fin dove – non si sa, non lo sa neanche lui.

    In realtà ho il sospetto che anche Jahnn, un'”ideologia”, in senso lato, l’abbia, e che questa costituisca per lo meno il suo punto di partenza. Certo “esotismo” si ritrova anche in Gottfried Benn, e con connotati diversi in Alfred Doeblin e perfino in Brecht. La fuoriuscita dalla “Zivilisation”, che per i tedeschi coincideva con la modernità industriale (di massa, ovvero “democratica”), era una tentazione diffusa nell’epoca tra le due guerre, in cui si forma Jahnn, e in cui circolavano a decine le traduzioni di antichi testi cinesi, indiani o medioorientali. E’ un esotismo di matrice nietzschiana, che in Italia ha avuto una diffusione meno robusta (un po’ nella Cultura dell’Anima di Papini, e molto, dagli anni ’70 con l’Adelphi), credo per il banale motivo che la modernità industriale, da noi, è arrivata più tardi, e le nostre città sono diventate metropoli circondate da fabbriche, da cui fuggire, solo nel dopoguerra.

    Ecco, mi pare che questi elementi, insieme a un individualismo di marca aristocratica (che c’è in Benn e nel primo Brecht), costituiscano il brodo ideologico di partenza di Jahnn. Poi, però, è vero che lui va molto oltre. E la differenza forse decisiva rispetto a Benn, Doeblin o Brecht sta nel suo spostare il baricentro della scrittura sul corpo (cosa audacissima per un tedesco): uno spostamento che più “de-ideologizzante” non potrebbe essere.

    In questo Jahnn mi sembra esplori una via (letteraria, che quando è buona implica un riorientamento nella “visione del mondo”) assolutamente originale, peraltro del tutto irriducibile al cicaleccio angloamericano sul “gender”. E’ su questa via che, mi pare, incrocia Pasolini (ma, ribadisco, l’impressione è superficiale): non solo per l’elemento esotico anti-Zivilisation, ma anche per la componente erotica, assolutamente non platonica, anzi, pienamente materialistica, e giocata sempre nello stesso senso, ovvero di sabotaggio della civiltà.

    Anche in Pasolini il corpo, la sessualità, mette in questione l’ideologia (l’assolutamente positiva corporeità dello spregiato – dall’ideologia – borgataro sottoproletario “Accattone”, ad esempio). Lo stesso accade, in una certa misura, nei “Mangiatori di marmellate”. Certo, Pasolini è più scopertamente ideologico, ma anche alle spalle di Jahnn – è questo che sto cercando un po’ tortuosamente di articolare – c’è il sostrato ideologico del suo tempo, che, interpretato in modo assai originale, gli permette di mettersi in cammino – attraverso la scrittura – avendo un pur vaga idea di quello che sta cercando.

    Forse la differenza – in effetti netta – è questa: se Pasolini (detto schematicamente) contrappone il corpo alla civiltà (capitalista) in nome di una rivoluzione (socialista), Jahnn fugge dalla civiltà, attraverso il corpo, senza sapere in nome di che cosa, verso che cosa. In questo è più inquietante, è forse anche, data la nostra situazione oggi, più “contemporaneo”.

  12. Grazie Michele, aggiungo solo un paio di osservazioni a casaccio.

    La mia impressione riguardo a Pasolini è sempre stata che abbia una visione tutto sommato “ingenua” del corpo “altro” (il “ragazzo”, il “borgataro”, lo “yemenita”, l'”indiano” e così via – tutte, con varie gradazioni, maschere di cartone). Perchè questo gli permetteva di contrapporre, come dici giustamente tu, corpo “altro” e capitalismo. Che questo gli facesse scrivere (e filmare) cose anche bellissime, qui non conta. Voglio solo dire che è questo ostacolo dell'”esotismo”, del corpo “innocente” solo perchè NON “occidentale” che Jahnn, almeno nelle opere mature, riesce genialmente a scartare. Insomma: Jahnn vede tutta la complessità del corpo di per sè. A dirlo sembra semplice. Ma all’atto pratico insisto a chiedermi come diavolo abbia fatto, e soprattutto come abbia fatto senza astrarsi nè dal qui e ora nè dalla Storia; senza cadere cioè in sentimentalismi o misticismi o ideologismi. La sfida mi sembra anche oggi più che attuale (alla faccia della “modernità” di Jahnn; noi secondo me siamo antichi, rispetto a lui).

    Poi tu molto correttamente lo contestualizzi. Nomini radici forti – Nietzsche – e contemporanei non da meno. Io per quello che ne so aggiungerei almeno – ma non mi sembra poco – Frobenius (qui si creerebbe un collegamento più che inaspettato, con Pound; magari ci ritorno, su questo). E partendo da lui, anche da lui, uno come Jahnn davvero poteva andare dove voleva, non ti sembra?

    Rilfessione finale: a seminare e percorrere il 900 la Francia ha avuto, per dire solo i primi che mi vengono in mente, Mauss e Segalen; la Germania, in modo più inatteso rispetto alla visione corrente, gente come Frobenius o molto più tardi Norbert Elias (sociologo E studioso di arte africana).
    Senza addentrarmi in giudizi di valore – cose belle tutto sommato se ne sono scritte anche in Italia ;) -, qualche domanda, qualche valutazione d’insieme, sono tentato di farla. Di sicuro, mi convinco una volta di più dell’assoluta necessità di uno scrittore come Jahnn, appunto, qui e ora.

    Ancora grazie, ciao,

    A.

  13. Grazie a voialtri due per una discussione come questa – che poi sono le cose che ti dicono che è bene che un luogo come Nazione Indiana esista.

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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