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I cani di via Lincoln

di Nicolò La Rocca

Antonio Pagliaro, I cani di via Lincoln, Laurana Editore, 2010

Sebbene sul fronte giudiziario si stia cercando di far emergere i gangli di quel gruppo di potere che il giudice Scarpinato ha definito borghesia mafiosa, sebbene il giornalismo più vigile (quello che non si limita a reggere il microfono al politico di turno) ci proponga inchieste che esplorano gli intrecci perversi alla base delle stragi del 1992-93, i mille interrogativi che scaturiscono dalle inquietanti rivelazioni di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza, le connessioni tra politica e mafia che si registrano in innumerevoli realtà locali, è innegabile che resista forte e inossidabile un’idea di mafia e criminalità circoscritta ai gruppi armati. Grande eco hanno i successi del governo sul fronte degli arresti di boss e soldati della mafia militare, invece quel filo insanguinato che da Portella della Ginestra arriva fino alla Seconda repubblica, è liquidato come oggetto di studio per professionisti della dietrologia. Si arresta la mano armata e si lasciano in parlamento onorevoli condannati per mafia. In parallelo, lo sconfinamento in ciò che Giovanni Falcone definiva “il gioco grande” raramente intacca il piano della riflessione culturale. Nando Della Chiesa, dalle pagine dell’Indice dei libri del mese, si lamentava proprio di questa anomalia dei nostri tempi: mentre si accumulano pregevoli pagine giornalistiche centrate sugli atti giudiziari, viene a mancare uno sfondo culturale.
Paradossalmente quando si tendeva perfino a negare l’esistenza della mafia, bastava valicare il crinale culturale per immergersi in disamine formidabili dell’ethos mafioso (dal lavoro di Franchetti e Sonnino alle inchieste di Danilo Dolci; dalla narrativa di Leonardo Sciascia alla poesia di Ignazio Buttitta). Oggi il noir sembra il genere più adatto a raccontare la questione criminale e i suoi intrecci col potere politico, eppure troppo spesso gli scrittori preferiscono scommettere sulla più facile forza mitopoietica dei soldati delle mafie. Il nuovo romanzo di Antonio Pagliaro, invece, ci propone una storia che, assorbendo la Palermo dei nostri giorni, ci restituisce quasi in un blocco unico borghesia politica e Cosa nostra. Tutto parte da una strage in un ristorante cinese in via Lincoln. Ma non c’è zona a Palermo che non sia legata a una cosca, e non c’è cosca in Sicilia che non abbia i suoi intrecci col mondo imprenditoriale e politico. Infine non c’è gruppo di potere che non si debba confrontare con lobby o logge massoniche più o meno segrete. Così l’indagine del tenente Cascioferro deve tener conto di tutti gli intrecci che si sviluppano dalla strage. Ma quando nessuno è innocente, voler cercare i colpevoli significa prepararsi al massacro di chi indaga. Cascioferro lo sa bene, ma non riesce a fermarsi in tempo. Palermo ha imposto a Pagliaro un canovaccio obbligatorio, un realismo documentario che si avverte già nelle prime pagine del libro, dove lo scrittore, con un disclaimer particolarmente lungo e dettagliato (simile a quelli utilizzati da altri autori invischiati con la realtà, come Giuseppe Genna e Giancarlo De Cataldo), sottolinea implicitamente i fatti e i personaggi reali che si potranno leggere in trasparenza. Tutto accade, anzi si direbbe che accada troppo, ma il tenente Cascioferro non si stupisce più di niente, perché la descrizione del male criminale nei Cani di via Lincoln è accidentale, quotidiano, quasi inevitabile. In una pagina del libro, il tenente, dopo essersi occupato di minime faccende casalinghe, accende la televisione e quando vede il presidente della regione siciliana parlare contro la mafia davanti alle telecamere, annoiato cambia canale… Alla moglie che gli chiede che cosa è successo risponde: niente, una strage, ma ora fammi dormire un poco. Nel romanzo c’è l’Italia criminale di oggi, senza infingimenti, dove la parola educazione, in un’accezione equivoca, malata, è condivisa dai politici e dai sicari, ostentata in molte conversazioni, come una norma di vita attorno alla quale ritrovarsi tra simili. Tutto è così ovvio, solo la televisione sofistica lo stato delle cose, proponendo messaggi insinceri, politici che si scagliano contro la mafia e potenti schierati con lo Stato. I larghi sbadigli di Cascioferro sottolineano la finzione. Ma nella realtà, quella vera, gli avvocati potenti stuprano le minorenni, i mafiosi comandano con mezzo sguardo, i sicari aderiscono ad Addio pizzo, i politici partecipano alle comunioni dei figli dei boss, i magistrati vengono lasciati soli, le intercettazioni spariscono, i negozianti non possono scegliersi i fornitori, i politici gli elettori; e se perfino gli eventi più banali, come le partite di calcetto tra dilettanti, vengono governati dalla criminalità, è normale che l’esito di una indagine così complessa, come quella affidata al tenente Cascioferro, sia deciso drammaticamente dalle logge massoniche mafiose.
Il romanzo procede con una trama avvincente, tra oralità e lingua letteraria, in un avvitamento ossessivo che amplifica i fatti di Palermo, ne restituisce il rumoroso chiacchiericcio, lo amplifica fino a trasformarlo in un formidabile specchio dell’Italia intera.
Così il lettore, alla fine del romanzo, con Cascioferro accende la televisione e ascolta la riforma delle pensioni, la destra, la sinistra e il centro, le riforme condivise, il welfare, le dichiarazioni dei politici. E chiosa: “Minchia parole inutili.”

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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