Non esiste morte che non sia violenta

di Demetrio Paolin

FIGURE III (Parigi/Tanaro)

Il fiume ruinò.
Nessuno seppe nulla solo acqua che portava via alberi, arbusti, pietre. Ridisegnava il suo letto, ridisegnava il paesaggio. Svuotava greti e torrenti. Si portava dietro tutto vorticando. E più erano strette le vie e più l’acqua turbinava violenta come un re invasore che niente rispetta o salva, ma tutto distrugge, diserba e annulla.
Non era un suono o sibilo che l’accompagnasse, ma un sotterraneo singulto simile a quello che devasta lo spazio siderale, non udibile eppure presente a sgomentare l’intero universo. L’acqua scendeva vuota nell’indefinita angoscia così simile alla solitudine del creato primordiale.
Sembrava non ci fosse nessuno. Nessuna anima viva.
Invece tu devi immaginarti che qualche giorno dopo, le acque si ritirarono e mostrarono il disastro.
La fanga aveva coperto tutto e dove non era arrivata lei c’erano arbusti, secchi rami, mattoni, staccionate di legno, gomme, carcasse di lavatrici e dove la pianura si fa piatta che pare ad un tratto il mistero si riveli, tu vedi un corpo. Anzi no. Vedi una riva scoscesa e poi la scendi, c’è qualcosa di strano, sembrano stracci e poi vedi che sono gonfi di un cadavere.
Io, tu non lo sapevi, ero tornato da poco da Parigi e mentre con la macchina andavo verso il luogo dove era stato trovato il corpo – allora ero un giornalista -, mi è tornato in mente il Louvre, le sale enormi e piene di quadri, quei dipinti uno dietro l’altro accatastati in massa, come se fossero incubi che ti investono. A Parigi avevo guardato un unico quadro: la Morte della vergine di Caravaggio.
Ero rimasto incantato per ore.
Prima di tutto vedi il nero, quel nero di quando le cose non sono ancora create e stanno in quell’angoscia primigenia che tutto tiene, nero come l’acqua che avevamo visto qui che senza suono portava via tutto, rimettendo ogni cosa allo stato originario. Era la negritudine di una stanza buia, spenta l’ultima candela e la gente silente dentro che aspettava l’ultimo respiro. Era simile a questo cielo che mi stava davanti, lo immagini ora, guarda il quadro e pensa al cielo che avevo sopra la testa in macchina mentre andavo poco fuori città a Castello d’Annone con il mio taccuino e la macchina fotografica. Al nero gigante s’aggiungeva un baldacchino, di cui tu – se guardi – indovini il tessuto rosso pari a un fiotto di sangue.
Sono arrivato sul posto. Il medico ha un vestito nero e scopre il velo.
Una donna, bianca di razza caucasica – ci dice – all’incirca sui 20 anni. E’ morta probabilmente portata via dalla piena del Tanaro. Doveva essere bellissima prima che l’acqua la gonfiasse. Siamo in sei persone a guardare questa donna a tutti sconosciuta eppure così prossima. Due carabinieri la voltano, una mano cade lungo il petto l’altra s’allontana dal corpo. Le estremità, mani e piedi, leggermente viola, ha ecchimosi nel volto.
Se tu fossi qui con me vedresti nel viso lo spavento della morte violenta. Non esiste morte che non sia violenta. Non esiste morte che non sia morte. Non si può non morire. Ogni nostro passo, movimento è verso il morire, lo smettere delle cose, il ritorno al nero totale potente, al nero di Caravaggio.
Ecco se ci guardi da fuori, noi messi qui intorno a questo corpo sfatto d’acqua, il cielo nero e il tramonto che arriva, ti pare di vedere La morte della vergine.
La madre di dio, secondo la tradizione, non muore, ma cade in sonno profondo e, addormentata, una schiera d’angeli la porta in cielo. Assunta senza la consunzione della morte.
Eppure moriamo tutti, già dall’utero di nostra madre moriamo, già prima di nascere sembra dire Caravaggio con le sue pennellate, noi andiamo verso il buio. Tutti vanno verso il buio, buio e nero nero e buio, luce che disarma nella notte, e la vergine per Caravaggio che deve morire.
Così il Tevere sputa dalle sue acque una donna, giovane e morta.
Annegata nel fiume, il corpo gonfio d’acqua non nega la sua bellezza, una bellezza da cortigiana. La madonna è una prostituta, la madonna è una donna che ha patito la morte.
Muore di una morte oscena, rabbiosa, che non ha niente di santo. Nessuna dormitio, nessuna schiera d’angeli. Il nero come sfondo, il rosso fiotto del sangue, gli apostoli intorno, non come Chiesa intorno alla madre di dio, ma come un gruppo di curiosi che guardano il corpo di una donna morta, appena tirata su dal fiume.
Hai notato l’uomo che guarda e si piega sul corpo della donna a sancirne la morte?
Sembra il dottore che ora guarda la prostituta in riva al Tanaro, mai come allora ho avvertito chiaramente che c’è nulla dopo, e c’è nulla prima. E se dio è, è il nulla a cui andiamo incontro correndo e da cui ci svegliamo nascendo.
C’era una disperazione selvaggia, che è la stessa di ogni luogo in cui avviene una morte violenta. La scena dipinta da Caravaggio ha qualcosa di simile. E’ abolita qualsiasi consolazione. La vita finisce qui, la vita della madre di dio termina disperatamente.
Non è una scena da chiesa questa, ma da tavolo di anatomia, si disseziona il corpo, lo si porta in primo piano quasi a dire: di questo siano fatti, a questo finiremo.
Non c’è paradiso qui, niente. Caravaggio dipinge la fine di tutto. L’apocalisse di ogni cosa che si mostra a noi, la rivelazione ultima della nostra solitudine estrema in limine mortis.
Eppure mi chiedo cosa spinga Caravaggio a dipingere questa tela, cosa porti a me a scrivere – anni dopo – di questa donna bianca e bellissima, di cui ricordo l’immagine tesa nel riquadro del giornale – le ho fatto un primo piano da tessera, bianco e nero e 22 righe. Eppure anni dopo sono qui a scriverla.
Credo che alla fine scrivere sia un modo per prolungare l’esistenza in vita di quella ragazza e anche Caravaggio dipinge perché il nero che ha dietro non si chiuda del tutto sulla cortigiana annegata nel Tevere. La fa diventare la madre di dio, la fa dormire un sonno di morte e di acqua.
Lei non sarà mai completamente morta, ma ferma nel quadro come la madre di tutti, immagine della nostra comune sorte.
Io scrivo perché se ne salvi un resto. Di quella ragazza sul greto del fiume non sapemmo mai il nome, l’età e la nazionalità, ma in queste poche righe lei arriva ad essere vivissima. Nel pomeriggio invernale con la luce calante, gli uomini intorno e quei vestiti dozzinali e volgari, lei sopravvive a me, sopravvive ad ognuno di noi, perché è scritta.
È la redenzione, che mi pare di vedere in ogni quadro di Caravaggio, una redenzione che non è salvezza, non c’è salute se non nell’oscuro in cui tutti sprofonderemo, ma un misero salvare delle parti, portandole via dall’oblio delle cose che si guastano.
Quindi alla fine scrivo per togliere un po’ di male dagli altri, e lo faccio raccontando, come a te, a cui sono dedicate queste note su Caravaggio, perché dicendoti ti ho redento.
E tu? Sembri chiedermi. Quanto a me io scrivendo non mi salvo, ma mi mostro alla gente con lo sguardo spaventato di un Oloferne in prolungata agonia.

Tratto da: La seconda persona (Transeuropa, 2011)

Print Friendly, PDF & Email

7 Commenti

  1. Massimo oserei dire che ha ragione, ma pare che non si possa dire, faremo solo “un sotterraneo singulto simile a quello che devasta lo spazio siderale”, un specie di grande rutto di disapprovazione, un burp per indigestione di aggettivi.

  2. Se posso…. non ho letto il libro, ma vorrei dire che il passo è molto bello, la superficie di questo testo dice una cura del linguaggio oggi non più così comune. Non mi piace però l’esibizione del carico di responsabilità e del compito dello scrittore, ribaditi anche attraverso lo stile. Io penso che dovrebbero essere constatazioni del lettore più che segnali (forse un po’ narcisistici…) così espliciti. Anche perché l’uso della seconda persona e la distanza morale per così dire tra scrittore e lettore (“Quindi alla fine scrivo per togliere un po’ di male dagli altri, e lo faccio raccontando, come a te, a cui sono dedicate queste note”) non mi sembra possano coesistere facilmente. Ma è possibile che nell’economia del libro intero si concilino bene. Io ho detto le mie impressioni su questo brano. Che mi è sembrato molto bello nel suo insieme.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

La regina del fuoco

di Maria Gaia Belli
Molto molto tempo fa, quando il cielo era più alto della dorsale, la bambina Pauni viveva in un villaggio sulla montagna. Suo padre cacciava nei boschi per la lunga estate, portava a casa carne e pellicce in abbondanza.

Pietre da taglio

di Anna Franceschini
Il quartiere si dipana in cortili interni portoni d’entrata   numeri civici i fili da stendere senza fiducia corde antiche che non servono a nulla Con le amiche ci si nascondeva si andava un po’ fuori di casa erano deserti di persone Avevo un’amica senza colpa   e senza casa

La società degli uomini barbagianni

di Emanuele Kraushaar
Io sono A. Una volta ho chiesto a mia madre perché mi avesse chiamato così. Non ha detto niente ed è scoppiata a ridere. Ricordo la sua bocca che si apriva e i suoi denti bianchissimi.

Il Mondo è Queer. Festival dei Diritti

Il Mondo è bizzarro, imprevedibile, queer. Le sue stranezze ne costituiscono la ricchezza. Con queste iniziative vogliamo tenere vivo il dialogo sull’idea di persona, collettività e famiglia planetaria, promuovendo attenzione e consapevolezza verso questioni di genere, fragilità invisibili e il nostro rapporto con il pianeta in un momento critico degli equilibri conosciuti.

Morire, un anno dopo

di Rebecca Molea
Mi sono chiesta a lungo cosa sarebbe successo: come avrei reagito alla notizia – piangendo? con sollievo? –, come sarebbe stato il dopo – un senso di solitudine perpetua o, a un certo punto, un’abitudine? – e, sopra ogni altra cosa, che significato avrebbe avuto, per me, per noi, per tutti, la morte.

Reincarnazioni

Spalancò la porta di metallo sbatacchiandola senza riguardo; la lucetta della sauna che aureolava Samstag sembrava accecante vista dal fondo del corridoio angusto e buio; lo chiamano effetto Brocken: così che appena emerso dalla nuvola di vapore,
francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Sono nata nel 1975. Curo laboratori di tarocchi intuitivi e poesia e racconto fiabe. Fra i miei libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Acquabuia (Aragno 2014). Ho pubblicato un romanzo, Tutti gli altri (Tunué, 2014). Come ricercatrice in storia ho pubblicato questi libri: Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014) e, con il professor Owen Davies, Executing Magic in the Modern Era: Criminal Bodies and the Gallows in Popular Medicine (Palgrave, 2017). I miei ultimi libri sono il saggio Dal Matto al Mondo. Viaggio poetico nei tarocchi (effequ, 2019), il testo di poesia Libro di Hor con immagini di Ginevra Ballati (Vydia, 2019), e un mio saggio nel libro La scommessa psichedelica (Quodlibet 2020) a cura di Federico di Vita. Il mio ripostiglio si trova qui: http://orso-polare.blogspot.com/
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: