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Nuovi autismi 11 – La superiorità intrinseca di taluni critici letterari e di altri individui

di Giacomo Sartori

Talvolta le persone si credono superiori. Tu gli parli, e cerchi i loro occhi più o meno alla tua altezza, ma è evidente che loro ti guatano e ti parlano dall’alto di un loro elevato o anche elevatissimo piedestallo mentale. Tutte le loro mimiche e parole presuppongono un’arcana e non negoziabile superiorità, e sono comprensibili solo alla luce di tale inesorabile egemonia. A me, forse proprio perché ho un’apparenza e un eloquio un po’ dimessi, e perché in fondo non ho nulla contro le gerarchie qualitative, capita spesso. Devo confessare che per qualche verso mi piace, o comunque non mi dispiace. Come dire, almeno i ruoli sono chiari. È come indugiare accanto a un arcigno vigile urbano: si sa che lì il codice stradale – che pur sempre legge è, con le sue approssimazioni e ingiustizie – verrà rispettato, non avverrà niente di aberrante. Mi capita soprattutto nelle faccende letterarie, come si può immaginare, essendo io un impresentabile bifolco (per certi versi quasi minorato), che porta sulle spalle le proprie vicissitudini editoriali come un’anacronistica fascina di legna da ardere. Dalla mia ho solo le qualità  intrinseche – ammesso che allignino davvero – dei testi che ho scritto: pochissima cosa. La superiorità assume certe volte le sembianze di un critico al contempo giacobino e di grido, persuaso – per quanto incredibile possa apparire – che la critica letteraria sia più fervida e vivida della letteratura stessa, o che la letteratura contemporanea si riduca a un unico autore di valore, quello da lui scoperto. O di un internauta fondamentalista, di uno scrittore di provincia con sornione deglutizioni, del vanaglorioso presidente della società cittadina di lettori. In ogni caso so già in anticipo che le mie parole sono destinate a sfracellarsi e a scivolare verso il pavimento, come gocce d’acqua su una superficie impermeabile. Ma anche nel mio indaffararmi tecnico e scientifico ho a che fare assai spesso con individui che si congetturano superiori. Anche qui la cosa è per moltissimi versi comprensibile: i miei sodali di debutto sono ormai professoroni e alti dirigenti, hanno cariche e famiglie, e invece io sono un incancrenito precario, e non posseggo nemmeno un telefono portatile. È quindi pertinente che mi trattino dall’alto in basso. Io stesso in loro presenza chino un po’ la testa, in modo da facilitare le cose. Del resto è normale che le persone si reputino superiori. Tutti abbiamo bisogno di considerarci più essenziali dei nostri simili, tutti noi proviamo una struggente necessità di pensarci al centro della nostra esistenza e del mondo, se vogliamo sopravvivere. Facendo leva su peculiarità anche infime, come la predisposizione alla fabbricazione delle pallottoline di mollica alla fine dei pasti, o alla bonifica della tazza del cesso con l’apposita spazzola dopo la defecazione, ma pur sempre idonee a distinguerci dai sette miliardi di umani, tutti drammaticamente simili, che fiatano al nostro fianco. A ben vedere coloro che mi parlano dall’alto di un piedistallo non sono che dei fanatici dell’esistenza, degli incorreggibili ingenui. Devo confessare che io vengo da una famiglia nella quale tutti si sentono intrinsecamente superiori, quindi ho tesaurizzato fin dall’infanzia una caleidoscopica esperienza in materia di stechiometrie umane. Mia madre si è sempre sentita superiore a me come al resto dell’universo (tuttora nonostante l’età iperbolicissima qualche volta le scappa una asseverazione del suo incolmabile vantaggio), così come sua madre si credeva superiore a lei, e avanti così risalendo le altezzose generazioni. Ma anche mio padre si considerava, seppure per ragioni diverse, che avevano a che fare con il vitalismo fascista e l’ardimento guerriero, superiore a me. Forse proprio per questa mia dimestichezza con le estrinsecazioni più varie del predominio sono così a mio agio nelle paludi limacciose della soggezione. Sono insomma un bastian contrario (se non addirittura un perverso). Come tutti sanno la forma di preminenza che va per la maggiore ai giorni nostri, in attesa dell’implosione risolutiva del sistema capitalistico, è quella pecuniaria. Uno si erge sul proprio mucchio personale di banconote e di balocchi di valore (o più spesso sta semisdraiato, per evidenziare l’invidiabile conforto), e da quella cima ventosa contempla con commiserazione i bassifondi del mondo. Ma il piedistallo può essere costituito anche solo dalla nomea mediatica, dalla prestanza calcistica o natatoria, da una carica politica, o semplicemente dalla gradevolezza fisica. Anzi, spesso i più implacabili superioroni sono proprio i belli: ogni loro sospiro o sguardo esprime l’inarrivabile supremazia. Per quanto mi riguarda, oltre a preferire le persone brutte, non mi preoccupo troppo degli aspetti tassonomici: di qualunque specie si tratti, trovo riposante scivolare sugli specchi ben lucidati dell’autostima altrui. Amo l’ebbrezza del trascinamento gravitazionale, amo non dovermi mettere in gioco. Certo però quando la cosa è troppo smaccata un po’ di fastidio lo provo. Non sopporto i critici letterari che, dopo averli travisati per manifeste aridità e rozzezze immanenti, sprezzano con induzioni volgari i miei testi, gli editori che mi parlano allungati con le mani annodate dietro la nuca, i commentatori digitali che zampillano rancorosa saccenza. Però sono eccezioni, di solito mi garba essere guardato dall’alto, come da una pendice si scruta un modesto avvallamento sprovvisto di attrattive.

[l’mmagine: H. Michaux, “Par des traits”, 1984]

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24 Commenti

  1. Ognuno di noi possiede una personale / fisiologica capacità di rapportarsi alla negatività . Dipende dall’ego, da come metabolizza tra partecipazione e distacco il lato grottesco e , in definitiva , irreversibilmente comico di certi atteggiamenti . Quando questi possono ferire coinvolgendo la dignità del nostro stare al mondo , del nostro operare , bisognerebbe tener presente l’assunto del buon Nietzsche :” Non c’è “verità” al mondo che non possa essere sottolineata da una risata ” . Sarà una risata amarognola ma liberatoria , anche se la “verità” in questione è mortificante e frustrante .

    Grazie dell’ospitalità
    leopoldo attolico –

  2. Grandiosa ironia e tanta lingua garbatissima. Bravò! Non ho letto gli altri autusmi, ma credo che lo farò e spero che ne varrà la pena. Solo due domande: quando vale la pena di alzare un po’ la testa? E poi: questi altezzosi (critici o no), sono anche capaci di ascoltare o solo di pontificare?

  3. a pecoraro: a dirla tutta e in tutta sincerità: da tempo avevo voglia di “trattare questo tema”, e i critici letterari ci sono entrati quasi per caso, c’entrano in fondo pochino; ma a dirla tutta forse hai lo stesso ragione; però appunto le cose mi sembrano più contorte

    a effe/esse: ti ringrazio per i complimenti, ma non posso risponderti, non sono uno specialista in materia; so solo che attualmente sto lavorando con delle persone di teatro per una pièce a partire da un mio testo: trovo l’attenzione, il feroce rigore, l’implacabile e non arida intelligenza, che rarissimamente ho trovato, salvo sporadiche, in chi si occupa per lavoro di ricezione e di valutazione dei testi; ma forse non sono stato fortunato, tutto qui;

  4. Sartori, nun te la piglià.
    Però, a parte gli autismi, secondo me c’è una critica letteraria od artistica che suppone che la letteratura è morta (cosa non vera) e che se c’è ancora uno sprazzo per l’innovazione quello sprazzo è nella critica letteraria (ovviamente quella che fanno loro). Grosso modo.

  5. a Dinamo e a Giacomo il fatto è che i critici partono dall’idea che chi scrive sia un isolato_individualista_narcisistico, uno disperato dall’affermazione di sé e non uno che porta comunque il suo contributo (certo magari anche con alterigia e grande antipatia) a un lavoro comune e collettivo, che poi è la lingua l’immaginario l’ideologia – e qualcos’altro che non saprei dire. il critico si sente arbitro di questo collettivo, che non percepisce come tale, ma come un caotico ingorgo di personalità (il ghisa!) – e non si accorge neppure di farne parte o non sa come farne parte
    ma insomma quello del critico deve essere un mestiere anche ingrato perché alla fine deve dire cosa ricordare cosa scordare (anche se non c’è nessuno che se lo fila)

  6. L’inettitudine più che la soggezione m’intriga, ma leggendo questo pezzo mi rendo conto che forse è solo una crinatura del vetro, un vetro sottile, sotto una voce troppo grossa, l’inettitudine. Mentre leggevo avevo voglia di riprendere in mano Lermontov, che aveva sfilacciato qualche altra maglia ma senza lasciarmi al freddo. Una ottusa idea di riscatto contro chi ci sovrasta sopravvive anche alla libera scelta di restare soggetti; una ferocia silenziosa che nella più sana delle ipotesi hai la fortuna di svelare a qualcuno che tollera la tua nudità, alla peggio spartire dolorosamente col primo ignaro convivente. Perdonate, è un tema che ultimamente, dovunque vada a parare, mi trova.

    • per silvia: confesso che io stesso non ero tanto convinto di quel “soggezione” che ho usato; e anch’io sono intrigato dal tema dell’inettitudine, proprio anche nella tua bella definizione

  7. Caro mio, con l’ironia hai proprio illustrato quella straordinaria bufala secolare, inventata dai padroni di tutti i vapori, che chiamano pomposamente “merito”. Per cui: bravo.

  8. Chi sceglie di diventare scrittore, deve mettere in conto una dose minima di convinzione, di sicurezza nelle proprie capacità di mettere giù due righe in italiano e offrirle al pubblico (grande o piccolo).
    Al netto dell’atteggiamento della critica italiana, poco preparata e assai supponente, devo ammetere però che l’ostentazione di inferiorità di Sartori mi pare più una raffinata “posa”, una falsa autocommiserazione… Insomma, non convince proprio perché così negativa. E non è la prima volta…
    Ora, non dico che bisogna “tirarsela” a tutti i costi, ma anche atteggiarsi a poveri derelitti è un atteggiamento costruito, egocentrico. E’ l’opposto della visibilità assoluta.

    • questo “deve mettere in conto” risveglia in me una ribellione; il dominio della scrittura è per me, e parlo della mia esperienza empirica (di lettore e di scrivente), al di qua di ogni teorizzazione, il regno della libertà assoluta (o quasi); per andare a lavorare devo mettermi delle scarpe decenti, per il mio agire di cittadino e di amico e di marito devo controllare in una certa misura tutto quello che faccio, e invece quando leggo o scrivo posso essere quello che sono, posso pensare e esprimere e chiamare a agire piani di me che altrove tengo in sordina o nascosti (ripeto, questo vale anche per il me lettore);

      per ogni affermazione che si faccia sulla scrittura, e ne sono state avanzate tante, anche proprio da scrittori di valore, anche da autori che amo molto (che ne so, e per dire il primo testo che mi viene in mente: “Ecrire”, di M. Duras), la mia mente ha sempre trovato subito degli esempi, incarnati nella fattispecie da uno o più giganti della scrittura, che la confutavano in maniera clamorosa, che non rientravano per niente nella “regola” espressa; e tanto più quando le affermazioni riguardano non la scrittura, ma la posizione nei confronti della scrittura;

      ma naturalmente ogni presa di posizione autoriale è un’egocentrissima impostura, che può piacere o meno; tutti i grandi autori che amiamo sono degli specialisti dell’impostura (il Céline di origine piccolo borghese che si fa passare per il figlio delle finzioni inventate nei suoi romanzi …);

      ti ricordo comunque che questo testo che hai letto è un racconto, non una confessione; l’io del racconto è un personaggio, che naturalmente ha a che fare con la presa di posizione per certi versi comica espressa nel titolo stesso della serie(“Autismi”); quello penso e sono io è per certi versi altra cosa, o insomma anche altra cosa; a riprova ci sono i miei testi “seri”, dove non mi atteggio, per usare le tue parole, proprio a niente, e anzi scompaio appunto dietro alle parole del testo;

      • caspita, allora ho frainteso.
        sono caduto dritto dritto nell’illusione letteraria e ho creduto alla confessione del tuo “io” letterario… tanto per capirci, allora, e per spiegare meglio il mio pensiero: trovo in generale piuttosto intollerabile la posa da “martire” (vedi il caso Moresco, per dirne uno) quanto quella da star (vedi il caso, patologico, Margaret Mazzantini, per dirne una).
        se questa è opera di finzione, accetto la puntualizzazione e chiedo scusa per aver rivolto al tuo caso questa mia riflessione.
        buon natale

  9. se scrivo, pretendo che i critici ne sappiano più di me. se poi si servono del loro saperne di più per considerarsi in qualche modo superiori è affar loro. l’unica cosa che mi interessa è come fanno il loro lavoro.

    • non so cosa intendi con precisione con questo tuo “ne sappiano più di me”, ma immagino una cultura più vasta e “oggettiva”, un qualcosa forse più vicino all’erudizione, rispetto al sapere dell’autore, che per esserci deve esserci, ma può seguire e segue di fatto anche vie molto tortuose e personali;

      ma non se io chiederei la stessa cosa; quello che chiederei io è per prima cosa che i critici ci siano come interlocutori per le cose che faccio io; che prendano seriamente il mio lavoro, che “rispondano” sullo stesso piano sul quale si muovono le mie opere, che non è quello della superficialità; poi certo qualche volta potrebbero dimostrare di saperne più di me (e sarei sinceramente contento di constatarlo), altre volte meno, non mi sembra questo il punto essenziale: questa è la regola di ogni sano scambio umano;

      come dire, e per citare una polemica recente, un critico non può limitarsi a dire che un mio testo è “scritto malissimo” ed è “illeggibile”; certo, può esprimere la sostanza di tale giudizio, non è questo, ma deve accludere un minimo di argomentazione, anche telegrafica, che tenga conto tra le altre cose degli altri miei lavori, o almeno di alcuni di essi (sono scritti “malissimo” anche quelli?; e se non è così, perché proprio quello è scritto “malissimo”?; c’è una ragione, magari in una certa misura voluta?; in base a quali criteri disprezza chi non è d’accordo con lui?; in quella “scrittura pessima” non vede davvero nessuna profondità?; come si pone di fronte a opere di altri scrittori che abbordano temi simili, utilizzando scritture che a me sembrano vecchie e improponibili e banalissime, e soprattutto prive appunto di qualsiasi spessore? …..); altrimenti ho l’impressione – mi scusi l’interessato, e non lo dico per offendere, perché lo stimo – della signora inanellata che passa davanti al quadro di Basquiat, o semplicemente di Nolde, e dice che è dipinto “malissimo”;

      • E meno male che non sei un musicista al primo EP, ne sentiresti di ogni non solo dai critici professionisti, ma anche dagli aspiranti tali.

        Per quanto riguarda la superbia, non è proprio una caratteristica assoluta. C’è chi può permettersela e quindi lo si giustifica (si, all’università capita a tutti di incontrare quel docente stronzo e presuntuoso ma bravo) e chi invece ci prova e viene deriso per questo.

  10. ho appena trovato una buona definizione della “casta” dei critici,che si può leggere almeno in due modi:”il ministero dei sogni infranti”(è di J. O’Connor)

  11. Quando mi capita di incrociare un altezzoso che mi guarda e mi parla con aria superiore, di solito mi vien da ridere; è un riso incontrollabile, un movimento muscolare che mi illumina l’intero viso. Quando sento che gli angoli della bocca e gli zigomi si alzano, non so quanto volontariamente e quanto no, interviene la mandibola e il contorno occhi che cercano di rilassarsi e abbassarsi nel tentativo di annullare l’esito del movimento primario, e il risultato è la classica faccia da babbeo: il riso è pur sempre un riso, ma imploso, è una lotta scomposta tra la muscolatura più profonda del volto e quella più superficiale, la quale cerca di tornare ad un’espressione neutra; per giunta comincio ad avere un atteggiamento tipicamente da inferiore con espressioni di stupore intervallate da sguardi repentini verso vie di fuga inesistenti; non pago, sforno affermazioni e fraseggi da inferiore cronico “ha ragione” , “è proprio così, come dice lei”; è come se mi ritrovassi catapultato in un gioco delle parti, è come partecipare ad un rito inevitabile, dove la mia preoccupazione primaria è quella, vi assicuro, di non offendere l’interlocutore a costo di rischiare una semi paresi labiale.
    E’ come se cercassi di controllare la mia intrinseca superiorità, vero Sartori ? ^__^

  12. approfitto della presenza di un filosofo per avere lumi su una cosa che ho letto restando basito scritto,manco a farlo apposta da un filosofo,mario perniola.Probabilmente in:”berlusconi o il 68 realizzato”.Se non ho frainteso ce n’è abbastanza per coltivare un serio autismo di serie b seduto su una sedia a sdraio fronte mare,con il sorriso della gioconda

    http://www.youtube.com/watch?v=omWDPgMyohE

  13. gli autismi di Sartori perseguono quell’abassamento comico e quello sgonfiamento degli ego e degli ideali, che è una delle maggiori prerogative della narrativa. E’ certo un gioco al massacro, in cui la controfigura dell’autore deve sostenere per primo tutta la spoliazione dei titoli di superiorità fisica, sociale, intellettuale. Ma poi la macchina del denudamento può allegramente colpire ad alzo zero in ogni direzione.

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giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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