Stranieri alla terra

(è in uscita una raccolta di sette storie scritte da Filippo Tuena, Stranieri alla terra, pubblicata da Nutrimenti. L’autore ci regala qui un’anteprima. G.B.)

di Filippo Tuena

Il viaggio del motociclista
Al Palazzo delle Esposizioni

Vedi il gioco è sempre lo stesso: desiderare di essere altrove. E non te lo dico perché dove mi trovo adesso, al Palazzo delle Esposizioni, in via Nazionale, mi stia succedendo proprio questo. Te lo dico perché mi è piaciuto il concerto, mi piace la mostra. Ma le cose accadono in questa maniera: che mentre ascolto il concerto vorrei visitare la mostra e mentre visito la mostra vorrei ascoltare il concerto o vorrei che le due cose accadessero assieme. Anche se poi sono convinto che neppure questa sarebbe la soluzione e certamente troverei qualcosa d’altro da desiderare e che non riesco ad avere. Mettici poi che stiamo qui, in queste sale davanti a questi quadri che vibrano per qualcosa che non riesci ad afferrare e smettono di vibrare non appena distogli lo sguardo ma riprendono a palpitare non appena ti volti di scatto per sorprenderli e per vedere se vibrano anche quando non sono osservati così che potresti passare le ore a fissarli e a stabilire quale sia la campitura di colore che fa da base al quadro e siccome sei certo d’averla individuata stai diventando pazzo perché hai l’impressione che invece non sia quella e che il colore di fondo sia al contrario proprio quello che Rothko ha dato per ultimo. Proprio l’ultima mano, voglio dire. Ma che è quella che rivolta tutto, che mette in discussione ogni cosa.
Dico, questi dipinti di Rothko m’è capitato di vederli qualche settimana fa, in penombra, a palazzo chiuso e luci spente. Sul momento m’era sembrata una cosa curiosa, persino divertente. Sai quanto mi piace guardare i quadri senza nessuno accanto, quanto detesti le mostre e soprattutto quelli che le visitano. E poi accade che mi viene voglia di sentire il concerto di Morton Feldman, per questo sono venuto qui questa sera, perché volevo scrivere del concerto che Feldman ha scritto per la cappella dove Rothko ha messo i suoi quadri – non questi, d’accordo, quelli giusti stanno a Houston dentro la cappella.
Ma chi mai ci andrà a Houston alla Rothko Chapel? E poi fa davvero differenza un quadro di Rothko piuttosto che un altro? Il buio è diverso dal buio? La luce dalla luce? Il nulla dal nulla? Perché è poi questo l’argomento, inutile girarci attorno: l’argomento è il nulla e, direbbe Pinter, una volta stabilito, sarà il nulla per sempre. Anzi, Pinter dice inverno. Se l’argomento è l’inverno, sarà inverno per sempre.
Soltanto che Rothko ha scelto il nulla e nulla sia. La verità è che il nulla si espande. Sai, non c’è niente che si espande più del nulla. Così anche la musica di Feldman alla fine gira intorno al nulla. Ed era impressionante sentire quel coro e le percussioni, le tubular bells e la viola andare a limare la scorza del nulla per vedere se sotto c’era qualcosa. Ma è ovvio che sotto il nulla c’è il nulla. Nonostante il percussionista che passava da uno strumento all’altro, nonostante i cantanti che rischiavano a ogni momento di stonare tra quei semitoni e quarti di tono che accarezzavano con la voce mentre cercavano di recuperare l’intonazione con i loro diapason d’argento e ce n’era uno che se lo sbatteva sulla tempia e poi lo avvicinava all’orecchio e ancora lo sbatteva sulla tempia con un colpo secco e un movimento rapidissimo per non lasciare che la nota si spegnesse prima di riuscire ad accostare ancora una volta il diapason all’orecchio e recuperare la nota perduta. A un certo punto erano così tanti a far vibrare i diapason che il coro sembrava un cielo stellato. E che cos’è un cielo stellato se non luci che brillano sul nulla?
C’era una bella ragazza, una di quelle che illuminano una serata, proprio bella e molto elegante, che prima del concerto, mentre aspettavamo che aprissero il cancello, era sulla scalinata aspettando qualcuno. Aspettava due volte, che il cancello si aprisse e che arrivasse il suo accompagnatore. Così era doppiamente sola. Aspettava e mentre aspettava io ho provato a cercare di capire che cosa pensasse. E mi sono detto, durante il concerto non mi dimenticherò di lei, perché una ragazza così non si dimentica mica tanto facilmente. Beh, non ci crederai, ma è svanita, inghiottita da quei gesti strani dei coristi, da quei diapason che luccicavano sugli abiti neri. La musica e Rothko se la sono portata via. O si sono portati via me?
Perché sono partito anch’io in cerca di qualche nulla e mentre ero seduto ad ascoltare la musica mi sono messo a sfogliare il catalogo e m’è caduto lo sguardo su una fotografia del figlio di Rothko ritratto su una panchina del giardino zoologico di Roma nel 1966 accanto a un cucciolo di leone e proprio non ce l’ho fatta a non tornare indietro con la memoria a una mia fotografia o alla memoria di una mia fotografia da bambino su quella stessa panchina vicino a un altro animale – una scimmia piuttosto dispettosa – perché il figlio di Rothko avrà almeno dieci anni meno di me e quella fotografia è stata scattata sulla stessa panchina a dieci anni di distanza dal ricordo della mia fotografia anche se in qualche modo era la stessa immagine, quella di un bambino vicino a un cucciolo di leone o a una scimmietta anche se io ricordo che quando mi scattarono quella foto era inverno e indossavo un cappotto di cammello e mi avevano calzato un berretto di lana e invece il figlio di Rothko si trovava allo zoo d’estate ed era in maglietta e così è successo proprio quello che ti dicevo all’inizio, che ero in quel posto, nella sala circolare del Palazzo delle Esposizioni, ma che volevo essere altrove immerso in una struggente malinconia ed è stato soltanto quando ho visto quella fotografia che ho scoperto dove avrei voluto trovarmi in quel momento mentre ascoltavo la musica di Feldman, mentre avevo smesso di pensare alla bella ragazza che aveva aspettato a lungo il suo accompagnatore, mentre ricordavo i quadri di Rothko che avevo visto poche sere prima in quasi perfetta solitudine quando ancora non sapevo che sarei tornato a quella panchina, a quel freddo inverno, perché come dice Pinter, se l’argomento è l’inverno, sarà inverno per sempre.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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