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Essere Paolo Sorrentino

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di Piero Sorrentino

È da tempo che accarezzo l’idea di curare un libro di interviste, intitolato “Onomastici”, o qualcosa del genere, in cui convocherei a dialogare sui massimi sistemi una ventina di artisti e intellettuali accomunati semplicemente dal nome.
Coppie di narratori dai nomi diversi, ma che spesso molti confondono – Eraldo Affinati e Edoardo Albinati, per esempio -; critici e scrittori che differiscono di una sola lettera nel cognome – Silvio Perrella e Valeria Parrella, Paolo Mauri e Michele Mari -; oppure letterati dai cognomi identici – Fulvio e Carmine Abbate, Domenico e Tiziano Scarpa, Umberto e Claudio Piersanti, Antonella e Daniele Del Giudice -, e così via.
Mi piace la pretestuosità dell’occasione di partenza, la gratuità del criterio, l’ingenuità della proposta che innesca i dialoghi, l’idea di mettere faccia a faccia due persone a partire dalle somiglianze o dalle identità di quello che – tra i molti arbitri che caratterizzano le nostre vite – resta l’elemento più incontrollabile di tutti, che qualcuno decide per noi all’atto della nostra nascita, o anche assai prima di quella. È un libro che nessun editore sano di mente si sognerebbe di fare, naturalmente. Ed è un progetto che mi torna in mente tutte le volte – non poche – che vengo scambiato per Paolo Sorrentino, il regista. È un equivoco nel quale in effetti mi imbatto assai di frequente.
La prima volta credo sia stata da Daria Bignardi, quando ci ospitò in tv alle “Invasioni barbariche” per parlare dell’antologia “Voi siete qui”.
“E poi c’è il racconto di Paolo Sorrentino”, disse in diretta nazionale.
A volte capita che qualcuno mi si avvicini poco prima di incontri o manifestazioni pubbliche, dopo che il mio nome è comparso nei piccoli box delle pagine locali dei quotidiani che annunciano reading, presentazioni, dibattiti. “Scusi – mi chiedono – sa dov’è Paolo Sorrentino?”.
Qualche settimana fa, nel foyer del teatro Mercadante, a pochi minuti da un incontro col regista Arturo Cirillo, si è presentato un tizio. Sosteneva di essere un ricercatore in antropologia dell’università di Toronto. Doveva assolutamente incontrare Paolo Sorrentino prima della presentazione per sottoporgli un questionario per non so quale studio di cui si stava occupando.
“Mi spiace, forse c’è un equivoco: io sono Piero, non Paolo”.
“Impossibile. Sul giornale ho letto Paolo”. Si guardava intorno cercandolo.
La sua agitata convinzione era così forte che per un attimo la storia mi è apparsa sensata. Non avevo idea di come rispondere. Siamo rimasti lì a rimuginare in silenzio.
“Guardi, sono contento che lei sia lei, ma devo andare via” ha detto a un certo punto il tizio, prima di infilare la porta e scomparire.
Il giorno dopo la sua vittoria al premio Strega, ho scritto un sms di felicitazioni e complimenti a Walter Siti. Grazie molte, ha risposto lo scrittore dopo pochi minuti, prima di aggiungere qualche riga di rammarico per le critiche negative alle quali il mio bel film su Roma veniva sottoposto.
La mattina del primo gennaio, alle 10.57 un regista napoletano piuttosto noto mi ha spedito un messaggio col cellulare: Caro Paolo grazie per il bellissimo e affettuoso capodanno che ci hai regalato ieri sera spero veramente che tra noi possa finalmente nascere una profonda e reale amicizia. Ti abbraccio forte.
Qualche volta – assai più di rado – succede il contrario. In Rete è ancora possibile recuperare un articolo della rivista “”Alfabeta2” dedicato al cinema “di Piero Sorrentino”.
Prima di morire in un incidente d’auto, lo scorso aprile, mio cugino A., 22 anni, mi prendeva un po’ in giro su questa faccenda. Scherzava, e anzi a volte lo faceva proprio apposta, fingeva di sbagliarsi e mi chiamava Paolo, per saggiare le mie – fiacche – reazioni di protesta.
Tornava a casa, era la notte tra sabato e domenica, non aveva allacciato la cintura di sicurezza. Secondo i rilievi della polizia andava a 80 all’ora. Sopra i limiti di velocità, certo, ma non una velocità folle. Nessuno sa perché, ma intorno alle tre del mattino, mentre percorreva un placido e largo rettilineo, ha perso il controllo dell’auto ed è andato a sbattere contro la pensilina deserta di una fermata dell’autobus. Pochi minuti dopo, lungo la strada è passata un’auto di suoi amici, che hanno riconosciuto la macchina e si sono fermati a soccorrerlo. Lo hanno trovato che piangeva. Era preoccupato per l’auto e per le eventuali reazioni di mio zio, suo padre. Ancora seduto nell’abitacolo, si prendeva a manate rabbiose una coscia. Il personale dell’ambulanza gli ha iniettato morfina e lo ha portato in ospedale. I miei zii hanno fatto in tempo a vederlo nel corridoio, lungo il piccolo tragitto verso la stanza delle radiografie, dove lo hanno incrociato per caso. A. ha chiesto scusa per la macchina, mio zio gli ha detto che dell’automobile non importava niente a nessuno, un inserviente lo ha portato in stanza, pochi minuti dopo ne è venuto fuori un medico giovane che portava ai miei zii la notizia della sua morte per emorragia interna. Nell’impatto, il volante aveva sfondato sterno e costole. Un polmone s’era bucato. Alcune vertebre della schiena s’erano spezzate. Stando al rapporto della polizia, l’airbag non si è aperto perché nell’impatto l’auto era salita sul marciapiede e aveva assunto una posizione inclinata, col muso verso l’altro, e a quanto pare la centralina del pallone di sicurezza funziona solo se l’auto resta su un piano orizzontale. Successivamente, l’esame tossicologico del sangue non ha rilevato né droga né alcol.
Qualche giorno dopo, un gruppo di amici di A. ha raggiunto la stazione di benzina della Q8 che sta a pochi metri dal luogo dell’incidente. Hanno chiesto al titolare della pompa la registrazione delle telecamere di sicurezza relative alla notte tra sabato e domenica, e non so come né perché sono riusciti a ottenerla. Con il pc, hanno realizzato un piccolo video che metteva in sequenza una manciata di foto in cui mio cugino appariva felice con gli amici, al mare, in discoteca a ballare oppure durante una partitella di calcio. Il video, pubblicato su YouTube, si concludeva con qualche fotogramma sgranato e indistinto delle riprese della telecamera di sorveglianza, la macchia grigia dell’auto che attraversava lo schermo da sinistra a destra, né veloce né piano. Avevano preparato anche una piccola colonna sonora che accompagnava le immagini. Un pezzo dei Blur. Un altro che non mi ricordo. Un altro ancora, sul finale, “This must be the place” dei Talking Heads. Il video è stato rimosso dopo pochi giorni.

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14 Commenti

  1. “ 24 marzo 1985 – Nell’articolo sul convegno proustiano a Parma Jacqueline Risset è diventata « Jacqueline Bisset ». Lapsus del giornalista o refuso del tipografo? Poco importa: perché è giusto così. Delle due attrici la seconda è più bella, più brava e di gran lunga più famosa. O no? “.
    P.s. Non è che il povero cugino si chiamava Andrea? La questione del nome.

    • Scusi; Adriano, ma lei è il giocatore di calcio?

      Non mi pare che la Risset sia un’attrice: ne serbo ricordo di comicità lieve, ma pregnante, se si considera che sono passati alcuni decenni.
      La incontrai durante un convegno pugliese sulle forme della poesia e sostavamo per cena tra mattonature di bianco calcare di masseria murgiana (una grotta quasi con luce di camino sfiaccolante). Ero con il grande Dario Bellezza e le sue propaggini antropiche: efebi, piccoli delinquenti calabresi, un albanese analfabeta, ma anche un pugliese (che aveva nome e cognome identici a scrittore italiano degli anni ’50), lenone e maturo, uscito da storia di Petronio, coniato con mano grossolana da marmo avanzato e senza venature, con calvizie da putto grottesco, mani troppo tattili, sguardo da volpe omosessuale ma senza astuzia sviante in occhi la preda destinata. Aveva inoltre un’ossessione per le metafore alimentari, applicate alla pratica sessuale, ma per riduzione, come: ‘quant’era buona la pelle di quel ragazzo, come una mozzarella era’, ‘dove sta il tuo salamino?’, ‘hai odore di muffa nelle ascelle’, ‘se hai la pancia grossa ti è piaciuta molta pasta’.

      Giunsero formaggi in mensa. La Risset, che lo aveva affianco, ma forse confondendolo con l’omonimo, o per cortesia, grazia preliminare, gli chiese: ‘Come è questo formaggio?’
      Non chiese se fosse d’altura, di grotta, fossa, pianura; di ovino, caprino o vaccino; né da dove provenisse.

      Il lenone la batté sulle spalle con mano unta, come quando si favorisce il cessare della tosse, sghignazzando.
      Disse, lo ricordo come una scultura fonetica: ‘Che ti importa. Basta che ti va in corpo.’

    • Errata.
      Ovviamente non mi riferisco alla coda del racconto di Piero Sorrentino, traagica e biografica.

  2. uno dei sogni più inquietanti che abbia mai fatto era fatto con tutti i protagonisti che avevano la faccia di Gabriel Byrne,uno che forse non è il fratello di david e arieggia Brian Ferry. “”La realtà è un’ombra e tutte le ombre sono reali” recita una domanda di un test sull’età mentale della persona che va per la maggiore. Comunque,di qualsiasi cosa stiamo parlando, baci

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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