Unità brand new

di Chiara Valerio
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Sono una persona piuttosto frivola. Me ne accorgo, per esempio, quando valuto la possibilità che l’Unità, il giornale dove scrivo dal 2008, il primo col quale ho intrapreso una – questa – lunga e allegra collaborazione, possa chiudere. Sono una persona frivola perché non penso, prima di tutto, all’eredità storica, politica e umana che andrebbe perduta, se non dispersa, alla chiusura de l’Unità, non penso, prima di tutto, ai giornalisti e ai collaboratori che dovranno essere ricollocati – loro e le loro famiglie, – non penso neppure alla sede di via Ostiense, dove pare che uno assembli un giornale guardando una Roma che è immagine di un futuro passato. No, quando visualizzo la possibile chiusura de l’Unità, mi ritrovo – in jeans e camicia, una mise ormai renziana – davanti a un’edicola, una qualsiasi, e mentre guardo i giornali, mi rendo conto che la testata dell’Unità non c’è più. Che quel marchio, quell’icona pop, non appartiene più all’orizzonte degli scaffali. Se la questione fosse smettere o non smettere di produrre la Coca-cola, rinunciare definitivamente non a certi modelli ma a tutta la linea di jeans Levis, se la V di Valentino diventasse W per un passaggio di proprietà, io sono certa che le prime trattative, economiche, industriali, estetiche sarebbero per il marchio. Per quella virgola rossa, tra una “l” minuscola e una “U” maiuscola, per il font, per il nero dei caratteri e il rosso del fondo.
A chi appartiene il marchio de l’Unità? Ai giornalisti, al direttore, ai collaboratori, all’editore, ad Antonio Gramsci, di chi è, chi può venderlo? Sono così frivola, sono tanto cresciuta negli anni ottanta, che penso che la sola vendita, o l’affitto, del marchio l’Unità possa regalare al giornale una nuova vita.
Mi rendo conto, oltre che della frivolezza, pure dell’egoismo della proposta, visto che scrivo su questo giornale, ma tant’è…
Il punto è che quando ho cominciato a scrivere su l’Unità, immediatamente, ho avuto spazi e fiducia e possibilità di proporre e inventare. Il punto è che scrivere su l’Unità è stato, e continua a essere, un esercizio per ricordarsi, un giorno alla volta, una riga dopo l’altra, che fare cultura significa discutere, significa trasformare tutte le polemiche in dialettica, significa uscire fuori da un sistema nel quale i “no” non sono accettati e i “sì” si pagano (come bene ha osservato Giorgio Vasta in una discussione sul futuro prossimo del mercato editoriale). Se è vero che la parola Unità non è nata per essere riprodotta sulle magliette, o sulle bottiglie di bibite gasate, o sul retro di un pantalone, è vero altrettanto che il mercato – come per la Coca-cola, o i Levi’s, o la V di Valentino – sarebbe in grado di attribuire un valore al simbolo, un valore economico certo, e di trasformare questo valore economico in una possibilità di futuro e di dialettica per la testata.
Se per tornare a parlare di significato o valore simbolico, di immaginario addirittura, se per restituire alle parole la loro natura di formula magica, non c’è rimasto che appellarci al mercato, alla pubblicità e al brand, allora assumiamoci almeno dichiariamolo a viso aperto.
Sorridenti diciamo a noi e ai lettori che il PD è meno fantasioso del mercato, che un passato intatto (magari) è preferibile a un futuro, forse molto diverso, ma possibile.
La scorsa settimana un uomo, un signore molto distinto, che si chiama Silvio e che lavora come giardiniere mi ha detto che ci sono due modi per ricordare le persone e le cose passate. Il primo è ordinare messe in suffragio, il secondo è far lavorare i vivi, lui preferiva far lavorare i vivi. Ecco, io penso che mettere all’asta il marchio – il disegno, il logo, la testata – de l’Unità, come se fosse un manoscritto di Leopardi o di Manganelli, sia una maniera per ringraziare un pezzo di storia politica e culturale italiana. Io, per come stanno andando le discussioni, sono per il merchandising.

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1 commento

  1. Sii dai, che bello. Potrebbero comprarlo i ragazzi del sindacato e farci le bandierine da distribuire ai licenziati rastrellati sul marciapiede e farci una porca figura alle grandi manifestazioni di piazza per perpetuare la magnificenza di queste gloriose istituzioni che incidono sempre di piu` nella sostanza di questo paese

    http://youtu.be/Z1JJa0SqRjM

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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