Il coltellino (da “Banda Randagia”)

di Vincenzo Pardini

pardini banda ran copj170.aspNessuno, da tempo, apriva i cassetti dell’antico canterano che si trova in una stanza del mia antica casa. Lo specchio che lo sormonta mostra chiazze e sbavature che paiono i sedimenti di una ragnatela. In passato ci si ammiravano le mie ave, e anche mia madre ragazzina. Ora non sarebbe più possibile. Deforma le immagini. Quasi volesse farsi beffa delle vanità,o fosse deluso del suo ruolo.

Una a una ho aperto le cantere del comò. Stridevano come animaletti disturbati nel sonno. Erano vuote, con l’odore del legno tarlato. Nell’angolo di una, ho veduto un grosso insetto dalla testa lucente: era un coltellino di appena quattro dita. Il manico di legno nero mostrava cavità irregolari grandi come teste di formica. Il tarlo. L’ho aperto. La molla ha emesso uno scatto ch’era voce. La lama, un po’ consunta, denotava un lieve strato di ruggine. Ma i bottoni d’ottone brillavano. Sembrava un piccolo essere liberato da un’ingiusta, quanto lunga prigionia e sentivo che voleva starmi appresso. Me lo sono messo in tasca. Era una calda giornata d’estate, quando i sassi dei muri hanno la febbre, tanto scottano e le persone cercano refrigerio. Una calura che può essere anche desolazione; la campagna è muta e solitaria e le cicale emettono il canto senza fine delle prefiche. Nondimeno nei vicoli dei paesi montani, il sole non arriva mai con la sua irruenza; ci sono addirittura angoli, esposti alla tramontana, dove il muschio è verde e fresco come d’inverno. Spifferi di vento escono dalle cantine. I vecchi, se non sono in casa, li troviamo al fresco negli orti. Stanno lì, dentro un tempo che sentono tutto loro: li ha risparmiati e non ancora traditi. Non lo temono più. Andai a far visita a una mia parente, quasi centenaria. Mi raccontò che il paese, una volta, sembrava un castello. Racchiuso tra le mura, aveva quattro porte. Ve n’è rimasta una, con la feritoia dell’arciere, simile alle altre, demolite per far passare i muli. Nel paese c’era vita. Pullulava di gente, di voci e rumori: le filande giravano e i telai delle tessàndore (le tessitrici), con dei brevi contraccolpi di legno, intessevano gli orditi. Quando le ho mostrato il coltellino, ha esclamato:«Oh perdinci, era quello di tuo nonno. In du l’hai trovo? Tientene di conto: un bel ricordo!» Fatta una pausa, guardata la campagna, ha ripreso: «Mi pare di rivederlo nelle sue grosse mani. Tutti, a quei tempi, portavano il coltello. Serviva per diversi lavori, tra cui affettarci il pane e il companatico, o per ammezzare i sigari Toscani, come faceva anche tuo nonno. Sarà stato nel Venti. Io una ragazza, lui un uomo. Insieme andavamo alle pecore.»

Il coltellino fu dunque impiegato per usi diversi. Ne reca i segni: oltremodo affilata, la lama è un poco allentata come avesse trafitto un corpo; due scalfitture sfregiano i bottoni d’ottone. Un coltello leggero, per rapidi e piccoli lavori che accompagnano la vita di ogni giorno. Quando vado in un luogo antico, poniamo una chiesa, sento mi si riversano dentro sensazioni che, se chiudo gli occhi, possono trasformarsi in immagini. Non è vero che il passato si cancella. L’abbiamo intorno e dentro, ma non si lascia vedere, solo percepire. Il coltellino, quasi la sua lama avesse liberato trapassate memorie, mi ha riportato ai giorni del nonno. Dolori e angosce sopraffanno i momenti lieti. Ho ereditato le sue malinconie, solitudini e ire. Peraltro la sua vita non fu granché lunga. Il coltellino assecondava i suoi umori col silenzio proprio degli oggetti che vivono con noi.

Molti dei suoi coetanei viaggiavano con coltelli ben più grossi. Alla bisogna li usavano non soltanto nei lavori, ma anche come strumento di difesa o offesa. Sebbene lui fosse turbolento, era sicuro di sé. Aveva una gran forza fisica e gli bastava. Il coltellino era un accessorio, non un’arma. Felice d’averlo resuscitato da un limbo che gli durava da oltre mezzo secolo, lo impiego in piccole mansioni. Sento che unisce la mia vita a quella del nonno, riportandomi ai suoi sogni e progetti. I medesimi che la mente, nel momento in cui si muore, lascia in sospeso alla stregua di sogni. Uno di questi potrebbe essermi giunto proprio tramite il coltellino. Mi ha infatti sollecitato ricordi svaniti. Mostratolo a un amico, saggiatone con un dito il taglio, ha detto:«Potrebbe far male, molto male.»

Bambino, un pomeriggio d’inverno, la nonna mi mandò alla bottega a comprare una bottiglia d’olio. Al centro della stanza, alcuni paesani attorniavano due vecchi. I quali, con scatti improvvisi e veloci, muovevano un braccio riportandolo all’altezza del mento. Mi sembrava giocassero, quando m’avvidi impugnavano un coltello col taglio rivolto all’esterno. Avevano la faccia immobile e tesa; a uno gli sanguinava. Un po’ si fissavano negli occhi, poi sferravano il colpo emettendo un sospiro. «Spartiteli, che sennò s’ammazzano!», implorava la bottegaia. Tutti tacevano e, nell’aria, c’era odore di sugna. D’improvviso, come quando il vento spalanca una finestra, entrò il parroco con un lembo della veste in mano. Andò dai vecchi. Fui allontanato, non ricordo da chi. Troppo tardi. Avevo visto come si usa un coltello. E non l’avrei dimenticato.

 

[questo magnifico racconto di Pardini è tratto da “Banda Randagia”, Fandango, 2010; e intendiamoci, la mia non è una particolare affinità con il mondo (seppure altamente evocativo) contadino/rurale spesso descritto dall’autore, e nemmeno con il suo registro linguistico (seppure bellissimo) non è questo; quello che mi colpisce è la potenza, la singolarità e l’intelligenza dello sguardo, la sua profondità; se ci fosse qualche autore che riesce a fare la stessa cosa anche con “materiali attuali”, con una lingua “più contemporanea”, prego di segnalarmelo; ma ci sarebbe molto da dire, e molto da ragionare; però partendo appunto dalla qualità dei testi, dalla loro potenza; confesso che ogni altro approccio e/o tentativo di cartografia, anche se molto intelligente, anche se profondo, e ho in mente vari esempi, mi sembra – e parlo alla luce della mia “pratica di scrittura” – vano]

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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