Michele Mari, «Asterusher»: l’autobiografia per feticci di un puer aeternus

Michele Mari. Asterusher. Autobiografia per feticci

di Antonella Falco

Novanta foto equamente divise: quarantacinque nella sezione dedicata a Nasca e altrettante in quella dedicata a Milano. Novanta foto, e due case, per raccontare attraverso gli oggetti la vita di Michele Mari, uomo e scrittore (inutile chiedersi dove finisca l’uno e inizi l’altro, la linea di demarcazione netta di solito non esiste, meno che mai per un autore come lui).

È quanto si propone di fare Asterusher. Autobiografia per feticci, volume che è uscito in questi giorni per i tipi dell’editore Corraini di Mantova e si avvale delle splendide fotografie di Francesco Pernigo.

Asterusher è la mia casa. Intervista a Michele Mari – LEGGI }

Il titolo, che più letterario e bibliofilo non potrebbe immaginarsi, fonde in una crasi neanche troppo velata i nomi di Asterione ed Usher, rispettivamente derivanti dai racconti La casa di Asterione di Jorge Luis Borges e La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe.

Dunque la casa, anzi le case, sono al centro di questo libro: gli oggetti in esse contenuti e i ricordi a questi legati danno vita a un racconto autobiografico che nel caso di Mari è inscindibile da una poetica degli oggetti. Quelle dello scrittore milanese, lo sanno bene i suoi affezionati lettori, sono case-libro, case letterarie, e una casa della letteratura non può che avere come esito naturale e inevitabile una letteratura della casa. Lo dimostrano le didascalie poste a commento delle foto: a parte quelle scritte espressamente per questo volume (che in alcuni casi citano opere di altri autori), le altre – la maggior parte – provengono dai libri di Mari, testi che l’autore ama pensare come «letterariamente continui, come parte di un unico metalibro».

Chi conosce la dimora milanese dello scrittore sa che è una casa spartana, semplice eppure bellissima, dove a farla da padrone sono i libri assieme a tanti piccoli e grandi oggetti che hanno ormai assunto lo status di reliquie e talismani. Tutti insieme essi compongono quel luogo-non-luogo che è il fantastico regno di Michele Mari, un regno uno e trino, essendo geograficamente dislocato tra Milano, Nasca e Roma (sebbene l’abitazione romana non sia presente nel libro perché non direttamente legata agli anni dell’infanzia e della prima giovinezza, essa non è meno ricca di fascino e attrattive). Sui due regni settentrionali si concentra dunque la lunga teoria di foto che compone Asterusher. La prima sezione del libro è dedicata al buen retiro di Nasca, piccolo centro in provincia di Varese, sulle sponde del Lago Maggiore. È qui, nella grande casa che il nonno materno acquistò lo stesso anno della sua nascita, che Mari trascorre le estati. È questa la casa adombrata in tante sue opere: dal maniero di Osmoc (che trova nella biblioteca il suo cuore pulsante) in Di bestia in bestia, alla casa di Scalna (quasi anagramma perfetto di Nasca) nel racconto eponimo di Euridice aveva un cane, alla magione di campagna di Verderame la cui cantina nasconde inquietanti misteri.

Casa signorile, «ancorata in una fissità quasi minerale», la grande dimora sul lago presenta tratti che la assimilano alle case landolfiane (oltre che, ovviamente, alla casa degli Usher citata nel titolo) per cui alla frase «nella nostra [casa] sentivo abitare lo spirito della morte», contenuta in Euridice aveva un cane, fa da contraltare perfetto il passo di Racconto d’autunno in cui Landolfi scrive: «su tutto era stesa la polvere del tempo, non la polvere, la particolare opacità delle cose morte, dovunque era il senso di gesti rappresi nell’aria» e basta scorrere le foto di pagina 16, 56 e 57 per rendersi conto che la nobile dimora di Nasca potrebbe trovare una degna chiosa in quest’altro passo dello stesso romanzo: «tuttavia, […] l’insieme induceva la medesima impressione che l’esterno della casa, quella cioè di un fastoso abbandono».

Com’è noto, nelle opere di Landolfi, la casa assurge spesso a vero e proprio “personaggio” della narrazione e presenta caratteristiche di decadenza, semiabbandono e mistero che hanno finito per costituire un topos della narrativa landolfiana. Come lo stesso Mari scrive nel saggio de I demoni e la pasta sfoglia dedicato allo scrittore di Pico, le dimore di Landolfi «sono anche e soprattutto una poetica». Esattamente come le proprie. Sfogliando le foto, sia di Nasca che di Milano, e leggendo le didascalie – che, lo si è detto, in alcuni casi sono state scritte espressamente per commentare le foto ma nella maggior parte sono tratte da romanzi e racconti di Mari – quello che colpisce è il perfetto rapporto osmotico tra oggetti fotografati e citazioni: il brano citato si pone come ideale chiosa alle immagini e le immagini trovano, in tutti i casi, anche quelli meno evidenti e prevedibili, il loro inveramento nel brano.

Michele Mari, Asterusher. Autobiografia per feticci Sempre a proposito del forte legame che lega Mari ai propri oggetti non ci si può esimere dal chiamare in causa (è egli stesso a farlo nella Prefazione) il trattatello intitolato Fantasmagonia, racconto eponimo della raccolta uscita nel 2012. Fantasmagonia, articolato in un introibo e diciannove paragrafi, costituisce un esauriente enchiridio sulla fantasmasi e presenta tratti fortemente autobiografici. In esso almeno due paragrafi, il dodicesimo e il diciassettesimo, si soffermano sul rapporto che l’apprendista fantasma intrattiene con gli oggetti. Egli ama soffermarsi «con speciale affetto» su alcuni oggetti della casa «provando in anticipo il lutto della loro perdita» e «proprio le cose cui più il proprietario pensava con prolettico rimpianto sono quelle che più, dopo la morte, lo imprigioneranno».

In particolare nel paragrafo diciassette il futuro fantasma è descritto come «soggetto commuovibile dagli oggetti», riporto l’intero passo che starebbe bene posto in esergo ad Asterusher:

«Incapace di sciogliere il ghiaccio dei propri blocchi esistenziali, il futuro fantasma è pressoché escluso da un autentico commercio umano. Schiavo del solipsismo, fin da piccolo egli si abituerà a investire sentimentalmente nelle cose, siano essi oggetti (non necessariamente giocattoli), vestiti, elementi di architettura domestica. Queste cose lo commuoveranno, la sua stessa fedeltà a queste cose lo commuoverà: egli si penserà come soggetto commuovibile dagli oggetti, diventando pertanto oggetto egli stesso».

Il feticistico rapporto con gli oggetti (non è un caso che il sottotitolo di Asterusher sia proprio Autobiografia per feticci), spesso, ma non necessariamente, legato ai piccoli tesori dell’infanzia (giocattoli, giornalini, fumetti per cui si vedano le foto alle pagine 76, 77, 78, 86, 87, 103) rappresenta una costante nella narrativa di Mari: gli oggetti sono cimeli e reliquie da custodire gelosamente impedendo che vadano smarriti a causa dell’incuria o della disattenzione o che finiscano in mani profane, le mani di persone incapaci di apprezzarne il valore e la sacralità.

Dal signor Kurz che nel primo racconto di Euridice aveva un cane sequestra sistematicamente tutti i palloni che i bambini dell’adiacente collegio fanno accidentalmente rimbalzare nel suo cortile durante le loro partitelle, custodendoli dentro una serra – vero e proprio monumento alla memoria di quei piccoli e dei loro giochi – ciascuno con la sua targhetta identificativa recante la data del “sequestro”; al padre che in L’uomo che uccise Liberty Valance, in Tu, sanguinosa infanzia, sottrae al figlio i giocattoli per evitarne lo smarrimento e l’irrimediabile perdita; al professore che ne I giornalini (sempre in Tu, sanguinosa infanzia) appresa la notizia dell’imminente paternità decide di impacchettare e immagazzinare in cantina i venerati giornalini dell’infanzia per sottrarli alle incaute e irriverenti manine del nascituro il quale ignorandone lo status di vere e proprie reliquie, li impiastriccerebbe con i suoi pennarelli: è tutta una museologia degli oggetti. Nel repertarli e nel catalogarli secondo certosini schemi tassonomici, il loro custode, il quale altri non è che l’autore stesso, rivela un compiacimento feticistico che trasforma quei semplici tesori dell’infanzia in oggetti erotizzabili.

Dai cimeli dell’infanzia tale atteggiamento si estende ad altri oggetti riconducibili a un periodo più tardo come ad esempio – nella seconda sezione di Asterusher, quella dedicata alla casa di Milano in cui Mari vive dal 1983 – le penne che ha utilizzato per scrivere i suoi libri «fin dentro l’attuale millennio», prima di «arrendersi» alla scrittura digitale: «assiepate come i soldati dell’antica falange», esse sono dominate dallo sguardo «severo e disdegnoso» del Sommo Dante che dalla «sua specola alta» sorveglia la scrivania dello scrittore (foto di p. 82). Nella pagina accanto campeggia la foto di due bottiglie di profumo piene zeppe di mozziconi di matita «accumulati negli anni degli studi liceali e universitari», che Mari sente (lo scrive nella Prefazione) come «un burocratico precipitato oggettivo di quegli studi, molto più garante e probante, per me, di un diploma di laurea appeso al muro». E ancora, a pagina 91, il suo libro più prezioso: una prima edizione dei Canti Orfici di Dino Campana che ebbe in dono da un’amica della madre il giorno in cui si offrì di svuotarle e ripulirle un ampio scantinato.

L’elenco potrebbe continuare a lungo ma non voglio togliervi la sorpresa di scoprire Asterusher pagina dopo pagina: vi basti sapere che qui non vi è spazio per l’effimero trascolorare degli oggetti, qui ogni più piccola cosa è immagine plastica dotata di una sua figurativa solennità che la sottrae al flusso obliante del tempo e la cristallizza in figura erotizzabile. Qui regna l’acronia indiscussa e indubitabile, la stessa a cui rimanda il paragrafo sedici di Fantasmagonia. In esso viene spiegato come il premorto, e poi il fantasma, tenda a «contaminare le fasi della propria vita ricordandole come coeve», pertanto i ricordi «gli si affolleranno sotto la specie dell’indifferenza temporale», motivo per cui «lo stato memoriale del fantasma sarà […] all’insegna della più adiafora acronia».

Un comportamento per certi versi simile a quello che l’autore adotta nei confronti delle epoche letterarie alle cui forme linguistiche attinge con una disinvoltura che attraversa l’intero arco diacronico della nostra storia letteraria: le forme della lingua succedutesi nel corso dei secoli vengono utilizzate e mescolate come fossero sincrone. Quello che ne deriva è una prosa in cui gli arcaismi più peregrini convivono felicemente con formidabili neologismi, dove accanto al gioco della neoformazione lo scrittore si concede il gusto della deformazione (fortemente espressionistica), dove il registro aulico non disdegna l’accostamento al registro basso e triviale e dove entrambi questi registri, in virtù del loro «divorzio dall’uso ordinario» risultano «equipollenti», ambedue consentendo alla pura «letterarietà» di dispiegarsi (è quanto Mari afferma in un suo scritto contenuto nel volume Parola di scrittore).

Dagli oggetti, dunque, si può risalire alla poetica dell’autore, una poetica che a sua volta di quegli oggetti è figlia; allo stesso modo la casa è al contempo madre e amante dello scrittore come appare chiaro da quest’altro passo di Fantasmagonia: «pregna degli spiriti dell’inquilino, la casa gli è madre: madida dei suoi essudati, gli è amante».

Michele Mari, Asterusher. Autobiografia per feticci

Rimanendo ancora sui concetti di acronia, diacronia e sincronia, è il caso di soffermarsi su almeno altre due foto, la prima, a pagina 22, raffigura quattro lettini allineati in una stanza della casa di Nasca, quattro lettini, che come spiega la didascalia tratta dal racconti I giornalini potrebbero rappresentare «un’allegoria dell’età dell’uomo», ma che pure sembrano sospesi in un tempo mitico: un tempo fuori dal tempo e quindi sottratto al divenire. Ma è soprattutto l’altra foto, a pagina 100, nella sezione milanese, a imporre una simile riflessione. La didascalia – non tratta, stavolta, da alcun testo – si sofferma sulla scultura lignea di un coccodrillo che Mari ha realizzato con le proprie mani. Ma l’essenza e, potremmo dire, l’intima verità di questa foto, che forse una certa profilassi induce l’autore a tacere, è l’acronica “simultaneità” dei tre bambini immortalati in altrettante foto attaccate alla parete: ai lati, nelle due immagini a colori, Rolando e Sergio, i figli dello scrittore, al centro, nella foto in bianco e nero, il piccolo Michele che stringe il suo orsacchiotto. Poco importa se le foto a colori siano state scattate a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila e quella in bianco e nero tra la seconda metà degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta: Michelino, Rolando e Sergio non solo possono collocarsi su un orizzontale piano sincronico, ma possono addirittura concedersi il lusso di trascendere il tempo fino alla «più adiafora acronia».

Dilatando la prospettiva tutto Asterusher potrebbe leggersi e sfogliarsi come l’autobiografia – per feticci – di un moderno puer aeternus, tanto più che lo stesso Mari ha dichiarato di non sentirsi un adulto ma «un bambino invecchiato».

Puer aeternus, dunque, o se preferite, novello Peter Pan, malinconico Piccolo Principe, che ha trasfuso molta della propria emotività nei luoghi e negli oggetti che lo hanno accompagnato nella vita, Michele Mari risulta così tanto continuo e compenetrato alle proprie case da richiamarmi alla mente, mentre sfoglio per l’ennesima volta il suo libro, le sibilline parole di Borges: «Risiedevo già in questo luogo, poi vi sono nato».

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1 commento

  1. […] N.I. La casa, intesa sia come spazio fisico che come luogo immaginario, declinata come nido in cui rifugiarsi o come carcere castrante e opprimente, come ricettacolo di affetti e ricordi familiari o come luogo congeniale allo sprigionarsi di forze psichiche irrazionali e violente, è un ambiente che ha spesso ispirato gli scrittori, in ogni epoca e a qualsiasi latitudine. Molti di questi scrittori sono tra l’altro a te particolarmente cari, penso a nomi quali Landolfi, Borges, Gombrowicz, Poe, Kafka, Canetti e tanti altri. D’altra parte tu stesso hai posto la casa al centro di molti tuoi romanzi e racconti. In tal senso Asterusher (leggi qui la recensione, ndr) è dunque un atto dovuto, l’esito naturale e inevitabile… […]

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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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