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«Contropiano dalle cucine». Autonomia del femminismo

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Manifestazione Nazionale del Movimento Femminista contro il processo a Gigliola Pierobon in Piazza Insurrezione a Padova, 5 giugno 1973 (www.femminismoruggente.it),

di Deborah Ardili

segue da qui

Se ci si sofferma sul ricordo tramandato dalla storiografia, in special modo quella nazionale, è facile constatare quanto poco della ricchezza di quell’esperienza – le lotte per il salario al lavoro domestico – raggiunga il presente. Non che la letteratura disponibile, posando lo sguardo su quella che si è convenuto chiamare «stagione dei movimenti», ometta sistematicamente di menzionare la vicenda delle donne del salario: tutt’altro. Ma la tendenza prevalente è quella di esasperarne l’eccezionalità, di enfatizzarne al massimo la separatezza, quasi si trattasse di un grano apocrifo insinuatosi abusivamente in un movimento affaccendato in tutt’altre occupazioni e completamente ripiegato sul fronte della scoperta autocoscienziale. Circostanza quanto meno curiosa, se si pensa all’asprezza polemica con cui proprio la principale esponente del femminismo autocoscienziale avvertì l’esigenza di sottolineare (non sempre a torto) le inadempienze di un movimento tutto rabbia e denuncia, nel quale «l’autocoscienza non si sa cosa sia né a cosa serva»; [Lonzi 1978: 336] un movimento ― è sempre Carla Lonzi a parlare — pericolosamente incline a «fermare il processo all’inferiorizzato che protesta e avanza i suoi diritti» [Lonzi 1978: 458], incapace di un’«uscita sulla realtà che non siano delle rivendicazioni» [Lonzi 1978: 575]. Avrebbero avuto una ragion d’essere le rimostranze di Lonzi, se il bersaglio polemico contro cui si dirigevano fosse stato del tutto privo di consistenza? Ci sarebbe stato davvero bisogno di insistere tanto sulla necessità di «approfittare dell’assenza» delle donne dalla storia, se il contesto in cui cadevano quei richiami non fosse stato effettivamente qualificato dalla peculiarità che Anna Rossi-Doria gli ha riconosciuto? E cioè essere stato il femminismo italiano degli anni Settanta dotato di un carattere di massa «superiore a quello di ogni altro paese», e ciò nondimeno avere conosciuto, a partire dal decennio successivo, il paradosso di venire raccontato come un «percorso teorico di singoli gruppi o pensatrici, sia pure grandi» [Rossi-Doria 2005: 3].

Talvolta la spinta non semplicemente a differenziare, ma a estraniare dal contesto e dalle pratiche di movimento le femministe del salario si spinge talmente in là da costringere il lettore a chiedersi da quale oscuro pianeta siano piovute le donne che hanno fatto parte del gruppo numericamente più consistente e territorialmente ramificato fra quelli che animarono la scena femminista italiana del decennio. E da quale pianeta provenissero, viceversa, le donne che quelle proposte discutevano, criticavano, contestavano, a riprova di una dimestichezza che autorizza a ipotizzare una frequenza di scambi più assidua e una circolazione di idee meno compartimentata di quanto abitualmente non si ammetta. Un obbligo non esplicitato di buona creanza prescrive di rimarcare a ogni piè sospinto l’irriducibile alterità delle femministe del salario rispetto alle altre, come se l’omogeneità ottenuta per sottrazione semplice dovesse restituire al movimento delle donne, a distanza di decenni, la felice compattezza che non ebbe all’epoca.

Non credo si possa tentare una spiegazione compiuta di quanto appena detto omettendo di segnalare che le femministe del salario scontano, sul piano della memoria storica, il marchio infamante di una provenienza giudicata talvolta poco onorevole. E giudizi di questo tipo, come si sa, hanno il potere di far dileguare ogni sfumatura interpretativa. Si apra un classico come la Storia dell’Italia repubblicana di Silvio Lanaro. Si vedrà che, quando si tratta di bacchettare il «frigido neo-marxismo» delle donne del salario [Lanaro 1992: 384], la matita rosso-blu dello storico veneto non conosce esitazioni. Certamente, non le stesse che impedirebbero ad altri di infierire gratuitamente sull’impotenza di questo brano a misurarsi in maniera equilibrata con un fenomeno che non si lascia dedurre facilmente da una schedatura ideologica preventiva, e tanto meno trattare con il ricorso a categorie cliniche.

Ci si cura poco, in generale, di nascondere l’antipatia per un linguaggio ― qual era in effetti quello utilizzato dalle intellettuali del gruppo — manifestamente debitore della tradizione operaista. L’accusa ricorrente di «economicismo» la scopre [Lumley 1994: 297-99], rivelando nel contempo un’aspettativa ormai consolidata (e raramente ridiscussa) nei confronti della missione culturale del femminismo, e cioè quella di riservarsi la giurisdizione sul «simbolico», rispetto al quale ogni avventura filosofica è permessa, in modo da lasciare ad altri l’incombenza di intervenire sul politico e sull’economico. Né d’altra parte sembra troppo affollata la schiera delle voci disponibili ― tra un’etichettatura e l’altra — a pronunciarsi con altrettanta nettezza anche sul merito della questione: è vero o non è vero che il lavoro domestico risponde alle funzioni che abbiamo visto sopra? Si spiega o non si spiega il fatto che in tutto il mondo la coabitazione eterosessuale, specie in presenza di figli, comporta una crescita di lavoro per le donne e un alleggerimento dello stesso per gli uomini? [Miranda 2011] Chi ha guadagnato dalla scelta, affermatasi come maggioritaria in seno ai femminismi di Stato, di disertare il livello strategico della riproduzione sociale in favore di soluzioni «conciliative»? È vero o non vero che la risposta neoliberale ai movimenti degli anni Settanta ha aggredito frontalmente le condizioni della riproduzione, spingendo in maniera sempre più decisa verso soluzioni privatistiche?

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Forse anche in ragione di queste reticenze, in sede di ricostruzione storica, ci si cura ancora meno di prestare attenzione agli scarti operati dalle femministe del salario rispetto alla cultura dell’operaismo, di prendere sul serio i conflitti che hanno accompagnato quel processo di separazione, di valutare con maggiore attenzione se e in quale misura le tematiche privilegiate dai gruppi del salario intercettassero, radicalizzandola, un’ansia di trasformazione condivisa da altre componenti del movimento. È evidente che un bilancio, in queste note, non è nemmeno azzardabile. Alcune coordinate per porre la questione, tuttavia, possono essere delineate.

In diversi centri della penisola, negli stessi anni in cui si diffondevano i primi gruppi di autocoscienza e il femminismo era a livello di informazione generale praticamente sconosciuto [Calabrò, Grasso: 2004], la lotta «per spezzare l’identità imposta» cominciava a essere intrapresa in termini particolarmente agguerriti dalle donne radunate sotto le insegne del Movimento di Lotta Femminile, rapidamente ribattezzato in Lotta Femminista. A propiziare la nascita del gruppo era stato, nella primavera del 1971, l’incontro tra alcune donne di Potere Operaio e Selma James. Un testo ad uso interno ciclostilato dalle femministe milanesi, intitolato Colloqui tra le compagne dei gruppi femministi autonomi italiani con Selma James dello “Work Shop” inglese, testimonia delle prime discussioni delle idee che di lì a poco confluiranno in Potere femminile e sovversione sociali e dei primi passi in vista della nascita del gruppo. Dopo la divisione del nucleo originario padovano nell’ottobre del 1974 differenze di analisi e di pratica politica [Zanetti1998: 119], l’esperienza sarebbe proseguita nella seconda metà del decennio con i Comitati per il Salario al Lavoro Domestico. Dai materiali raccolti negli archivi della Fondazione Badaracco, risulta che le città toccate dall’attività dei gruppi fossero, oltre a Padova, Venezia, Trento, Torino, Trieste, Ferrara, Modena, Bologna, Reggio Emilia, Ravenna, Milano, Varese, Firenze, Roma, Pescara, Napoli, Salerno, Gela, Caltanissetta.

Ripescando i fondi di archivio, si vede bene come le questioni che animano il testo di Cox e Federici ricorrano nei primi documenti messi in circolazione dalle militanti che avevano dato vita a Lotta Femminista, caricandosi del senso di una vera e propria «scoperta», fatta da donne che avevano saggiato le vie dell’emancipazione sia tramite il lavoro fuori casa (prevalentemente nella scuola o all’università), sia attraverso l’impegno nei gruppi della nuova sinistra. Come si legge in un «bozza di discussione per il salario alle casalinghe» redatta dalle femministe di Modena e Ferrara nel giugno del 1972:

Una delle scoperte principali che abbiamo fatto quando abbiamo cominciato a guardarci intorno da donne è stata proprio la casa, la struttura familiare come luogo di sfruttamento specifico della nostra forza-lavoro. Dovevamo per forza privilegiare nella nostra analisi questa sfera “privata”, queste mura domestiche al di fuori delle quali si ferma l’analisi marxista delle classi, nonché la pratica di organizzazione politica della sinistra, parlamentare e non. Dentro la casa abbiamo scoperto il lavoro invisibile, questa enorme quantità di lavoro che ogni giorno le donne sono costrette ad erogare per produrre e riprodurre la forza-lavoro, base invisibile — perché non pagata ― su cui poggia l’intera piramide dell’accumulazione capitalistica [Lotta Femminista: 1972].

Ma come tradurre politicamente la scoperta della fecondità di un punto di vista dichiaratamente parziale e situato? Attraverso quale pratica articolare quella che oggi chiameremmo l’«intersezionalità» tra genere e classe? Per rispondere a questi interrogativi, occorre tenere presente un imprescindibile dato di contesto. Se l’infittirsi dei contatti e l’afflusso di documenti provenienti dal movimento statunitense aveva facilitato l’orientamento di molte verso la nuova problematica, la presenza in Italia di formazioni rivoluzionarie che costituivano «la più numerosa forza di Nuova Sinistra a livello europeo» [Ginsborg 1989: 424] complicava non poco le scelte di quante vi militavano — per lo meno nei centri in cui l’attività dei soggetti politici formatisi sull’onda dell’«autunno caldo» non si era ancora assopita. Shulamith Firestone, in pagine famose e spazientite, aveva tagliato corto con le «ausiliarie della sinistra» incuriosite dal femminismo, prefigurando per loro nessuna reale possibilità di azione, tranne che «aumentare la tensione che già minaccia di estinzione i loro logori gruppi» [Firestone 1970: 48].

In concreto, tuttavia, il problema si poneva in forme più complesse e articolate di quanto quella profezia — in alcuni casi puntualmente realizzata — non consenta di cogliere. Ci vuole poco, in effetti, ad assemblare un’antologia di affermazioni eterossesiste prelevate dalla cultura dominante e sufficienti a motivare la scelta di militare sul fronte opposto. Ma verificarne l’influenza sulla controcultura che si diceva rivoluzionaria, all’interno della quale per molte donne si era svolto un importante apprendistato politico, poteva dar luogo a un’insofferenza tanto diffusa quanto incapace di attivare automaticamente una risposta. La forza dei legami personali, così come l’abitudine a mobilitare gli altri e a concepire la militanza come un esercizio prolungato di coscienza e di eloquenza rivolto all’esterno, costituivano un ostacolo enorme alla riflessività del partire da sé.

Come muoversi, allora, per non mancare l’appuntamento con il femminismo? Il «vuoto storiografico» che, fatte salve alcune indicazioni utili per un avvio di ricerca [Petricola 2005: 203], pesa ancora su un capitolo meno indagato di quello dei rapporti tra femminismo e movimento studentesco, non consente di dire molto. Quello che si può affermare con certezza, tuttavia, è che i percorsi di avvicinamento al femminismo non avvenivano lungo una traiettoria omogenea, né secondo tempistiche sincronizzate. Far nascere collettivi di autocoscienza collaterali ai gruppi di appartenenza rinunciando a influire sulla linea politica? Istituire commissioni femminili all’interno dei gruppi e aprire logoranti fronti di discussione con le dirigenze maschili? Seguire l’esempio delle francesi della tendenza «lotta di classe» e gettarsi a capofitto nel movimento delle donne nella speranza di reclutare nuove forze da restituire alla causa del marxismo rivoluzionario? Erano questi alcuni dei nodi che le donne della nuova sinistra erano chiamate ad affrontare.

È d’abitudine calendarizzare al 6 dicembre del 1975 il momento in cui i dilemmi si sarebbero definitivamente sciolti per sfociare nell’urto frontale tra femministe e sinistra extraparlamentare. Nel picco alto della presenza pubblica del movimento, la diligenza militante delle compagne, «la pazienza nell’incastrare femminismo e comunismo come pezzi di una matrioska» che fino a quel momento era sembrata a prova di bomba [Gramaglia 1987: 19], pare improvvisamente esplodere: innescando ― a giudizio di alcuni ― il processo di riflusso di massa nel privato che avrebbe contraddistinto la fase successiva [Balestrini, Moroni 1997: 496].

Il riferimento, naturalmente, è agli scontri di piazza a Roma tra femministe e militanti di Lotta Continua in occasione della manifestazione nazionale per l’aborto, quando giovani del servizio d’ordine e della sezione Cinecittà tentarono di sfondare il corteo in nome dell’unità di classe: scontri che di lì a poco avrebbero avuto ripercussioni catastrofiche su un’organizzazione politicamente già indebolita dall’esaurimento della forza operaia nelle fabbriche, nonostante la quota di diecimila iscritti raggiunta quell’anno avesse segnato il punto massimo della sua espansione quantitativa [Viale et al. 2006: 76]. Generalmente assunta come caso paradigmatico della contraddizione tra organizzazioni operaiste e femminismo, la vicenda di Lotta Continua ha monopolizzato l’attenzione, inducendo molti osservatori a postdatare il momento della resa dei conti e a individuarne il rilievo specifico nel quadro di una diaspora organizzativa che prelude alla sparizione politica.

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Resta però da osservare che la definizione di un quadro meno parziale dei rapporti tra femminismo e nuova sinistra potrebbe trarre qualche spunto dalle circostanze che hanno visto nascere Lotta Femminista. Si trattava in effetti, per le femministe del salario, di offrire uno sbocco politico a donne in parte (ma non solo) provenienti da e in rotta con Potere Operaio [Dalla Costa 2002], nel momento in cui l’organizzazione guidata da Franco Piperno e Toni Negri, messa in difficoltà dal recupero sindacale sulle vertenze operaie, archiviava ogni ipotesi di unità di azione con il gruppo del Manifesto e si avviava speditamente a lanciare la formula politica del «potere operaio per il partito, per l’insurrezione, per il comunismo» [Grandi 2003; Donato 2014].

Si conoscono naturalmente gli omaggi che, a distanza di decenni, alcuni fra i padri nobili dell’operaismo hanno ritenuto di dover tributare alla creatività del femminismo, orientando per altro il proprio interesse a favore di una versione molto diversa rispetto a quella incontrata da Negri nelle aule dell’ateneo di Padova. Tuttavia le cose appaiono in una luce diversa se rimesse in prospettiva. Avrebbe potuto esserci spazio per le femministe del salario all’interno di una formazione che, rivolgendosi dalle colonne del mensile ai competitori nel campo politico della sinistra extraparlamentare con l’ambizione di mostrare una comprensione del fenomeno femminista sconosciuta agli altri [Frabotta 1973: 187-191], non esitava ad assimilare la «specificità eversiva» del femminismo allo stadio luddista nel cammino evolutivo della lotta di classe? Quale reale «importanza» poteva assumere il riconoscimento del «lavoro casalingo come indirettamente produttivo», se interpretato nell’accezione ausiliaria di «contributo» al processo rivoluzionario? E a quale processo rivoluzionario avrebbero dovuto «contribuire» le femministe, posto oltretutto che l’andamento non proprio arrembante delle lotte autonome dell’operaio-massa aveva indotto il gruppo dirigente di Potere Operaio a premere l’acceleratore sulla via organizzativa delle avanguardie: «sulla via addirittura» ― per usare le parole di Toni Negri — «della liberazione delle avanguardie soggettive dai livelli precostuiti di autonomia che, dopo essere stati fondamentali nella lotta sul salario, rischiano ora di diventare soffocanti»? [Negri 1971: 51].

Ci fosse stato qualche dubbio residuo in merito, l’irruzione dei militanti del Potere Operaio romano al seminario separato sull’occupazione femminile organizzato all’università dalle femministe del salario nel luglio del 1972 avrebbe rapidamente provveduto a dissiparli, confermando le ragioni di un disaccordo che si sarebbe ulteriormente esplicitato nella seconda metà del decennio nella polemica con l’Autonomia operaia e con i «mille fiori appassiti» della lotta armata, come titolava nel 1977 un numero speciale della rivista «Le operaie della casa» [Zanetti 1998: 102 sgg.]. In ogni caso, è sufficiente porsi queste domande per capire come mai le ex operaiste optarono fin da subito ed esortarono le altre («politiche» e «non politiche») a optare senza esitazioni per l’autonomia, dichiarando in questo modo tutta la propria indisponibilità a sperimentare il femminismo nelle modalità dimidiate della «doppia militanza». Non avrebbero lesinato in sarcasmo, a questo riguardo, le autrici di un articolo apparso a firma di Lotta Femminista sul primo numero di «Sottosopra» con il titolo — perfidamente ingannevole per un pubblico abituato a stabilire tra il primo termine e il secondo un rapporto di subordinazione — di Femminismo e lotta di classe. Dopo avere espresso un completo disinteresse a convincere della bontà delle proprie posizioni «leaders che da anni sono in politica e hanno fatto scelte che a loro sembravano ben motivate», le femministe aggiungevano:

Solo da poco tempo, e cioè da quando il movimento femminista si è conquistato forza e potere, il fronte del «dopo la rivoluzione» si è spezzato in un arco di sfumature che vanno da quelle decisamente «troglodite» («le donne sono reazionarie e la loro sola speranza di libertà è il lavoro») a quelle più progressiste («la questione femminile esiste ed è in qualche modo legata alla lotta di classe»). Per noi, invece, femminismo vuol dire riaprire la questione su cosa si intende per classe, lotta di classe, aree di scontro politico, rivoluzione economico-politica e rivoluzione culturale (abbiamo dimenticato niente?) [Lotta Femminista 1973b].

Che non si trattasse soltanto di dotarsi di strumenti più efficaci per la propaganda a favore del salario al lavoro domestico è, d’altronde, attestato dalle attività del gruppo. Fu per esempio l’impegno messo in campo nel giugno del 1973, in occasione del processo a Gigliola Pierobon, a favorire una mobilitazione che rappresentò la prima vera azione organizzata del femminismo in Italia tesa a imporre all’attenzione pubblica la questione dell’aborto. Furono campagne di controinformazione e vertenze come quelle portate avanti per tutti gli anni Settanta contro il reparto ostetrico dell’ospedale S. Anna di Ferrara a squarciare il velo dei «crimini di pace» perpetrati in nome della scienza ginecologica e a mettere in evidenza il peso del potere medico sul controllo delle donne. Fu l’attivismo di un gruppo che in Italia contava numerose aderenti tra insegnanti, ricercatrici precarie e studentesse a consentire un approccio critico alla riforma della scuola (era l’epoca in cui i decreti delegati introducevano la «collaborazione» tra insegnanti e famiglia) e a quella che più tardi ci saremmo abituate a definire «femminilizzazione del lavoro». Fu l’attenzione costante al problema della riduzione del tempo di lavoro a consentire alle femministe del salario modenesi di reimpostare in maniera originale la lotta per i servizi pubblici in una regione che si voleva all’avanguardia su questo fronte, contestando un’organizzazione sociale della riproduzione concepita in subordine alle esigenze della produzione e tale da raddoppiare il fardello del lavoro femminile. Tutto questo era stato l’effetto di quel gesto di «riduzione al lavoro domestico» che oggi viene giudicato da tanti povero, angusto, incapace di misurarsi con le articolazioni complesse della realtà sociale. Un giudizio che, per motivarsi, è costretto addirittura a mettere sotto traccia un’evidenza attestata dai fatti: non è mai esistita — né in Italia, né altrove — una sola maniera di esprimere la richiesta di salario al lavoro domestico.

[continua]

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1 commento

  1. posso anche essere daccordo coi contenuti,imprecisioni a gogó a parte, maaa…minch.se è scritto male!in sostanza un autoaffondamento.ovvero come sostenere A smentendo A. as usual:-)

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Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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