Belfast città divisa

di Jamila Mascat

 

Li chiamano muri della pace (peace walls o peace lines), perché quando vennero eretti dall’esercito britannico dopo gli scontri dell’agosto 1969 che inaugurarono i troubles tra unionisti protestanti filo-britannici e repubblicani cattolici filo-irilandesi, Belfast era un teatro di guerra, e quelle barriere avrebbero dovuto garantire la protezione delle comunità.

Ad oggi, di muri frammentati e sparsi, se ne contano un centinaio, prevalentemente nei quartieri a nord e ovest della città, di cui oltre una dozzina costruiti negli anni successivi agli accordi di pace del Venerdì Santo (10 aprile 1998) che segnarono la fine ufficiale del conflitto e la deposizione delle armi da parte dei gruppi paramilitari lealisti – Uvf (Ulster Volunteer Force) e Uda (Ulster Defense Association) – e nazionalisti – Ira (Irish Republican Army).

PER CHI È NATO a Belfast nel corso degli ultimi cinquant’anni le peace lines non hanno nulla di eccentrico, sono parte integrante della città, articolazioni del tessuto urbano con tanto di cancelli che aprono di giorno e chiudono di notte, cerniere e cicatrici, ma anche pagine di una storia illustrata per immagini e dipinta a tinte forti.

Simbolo iconico della città, e oramai anche attrazione turistica, i murales che ricoprono dai due lati i muri di Belfast raccontano storie opposte: da un lato l’epopea epica e belligerante dei combattenti unionisti costellata di Union Jack, simboli e ritratti monarchici; dall’altra la lotta per la liberazione dell’Irlanda unita dal giogo del colonialismo britannico e i suoi martiri, tra cui Bobby Sand e gli altri militanti dell’Ira, morti come lui dopo un lungo sciopero della fame nel carcere di Long Kesh, affiancati puntualmente dai volti di Mandela, Che Guevara, Leyla Khaled e altri eroi delle resistenza internazionale.

A dispetto degli affreschi, i muri della città non hanno una funzione prettamente decorativa né puramente propagandistica, ed è per questo che nonostante il piano di smantellamento a dieci anni proposto nel 2013 dall’esecutivo di Belfast, il processo di demolizione è in stallo, e i residenti dai due lati delle barricate poco favorevoli ad accelerarlo.

I RIOTS DELL’APRILE 2021, scoppiati a Lanark Way, nella zona protestante unionista di Shankill Road, a pochi mesi dall’entrata in vigore del Protocollo sull’Irlanda del Nord, hanno risvegliato per una settimana lo spettro dei troubles. La Brexit e le sue conseguenze – tra cui proprio il Protocollo che ha ripristinato un confine doganale tra l’Ulster e il resto del Regno Unito sul Mare d’Irlanda, lasciando invece libero il transito via terra tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda – hanno contribuito ad accrescere il senso di accerchiamento delle comunità protestanti. A questo si aggiungono i numeri sfavorevoli agli unionisti: il censimento del 2021 che per la prima volta ha visto la popolazione cattolica superare il numero dei protestanti (45,7% contro 43.5%), le elezioni parlamentari del 2022 in Irlanda del Nord in cui lo Sinn Féin, lo storico partito repubblicano, è diventato partito di maggioranza relegando per la prima volta il Democratic Unionist Party (Dup) al secondo posto, e più recentemente le elezioni municipali della capitale nel maggio 2023, vinte di nuovo dallo Sinn Féin.

Tuttavia, una lettura puramente settaria delle divisioni comunitarie non saprebbe spiegare perché nei quartieri benestanti e verdeggianti a sud della città, come Stranmillis, o nella zona residenziale intorno alla Queen’s University, o ancora nel Titanic Quarter, a nord-est, che ospita gli immensi e antichi cantieri navali di Harland & Wolff, simbolo dell’attività portuale di Belfast dal 1861, i muri non abbiano ragione di esistere. E lo stesso vale per il centro storico, un cantiere in fermento in cui si restaurano gli edifici industriali vittoriani dell’ex quartiere tessile, il Linen Quarter, fiore all’occhiello della rivoluzione industriale britannica.

A NORD E A OVEST della città di fermento invece ce n’è poco. Non mancano i pub, gremiti e festosi nei weekend e sempre rigorosamente faziosi, come il Rex Bar unionista e il Rock Bar repubblicano la cui esistenza risale a prima dell’erezione dei muri, né le associazioni locali che animano la vita delle comunità, coltivano le tradizioni e, alcune, operano per favorire la riconciliazione.

COSTEGGIANDO da una parte e dall’altra Cupar Way, il tratto di muro lungo circa un chilometro e alto quasi quattordici metri che separa il quartiere protestante di Shankill dal quartiere cattolico di Falls, ad ovest di Belfast, colpisce che a dispetto dei simboli religiosi e politici diversi dai due lati, le somiglianze sono tante. Se non ci fosse quel pezzo di muro, ci sarebbe un unico grande quartiere popolare, come fu in passato, segnato oggi dalla disoccupazione e dalla depressione economica, e ferito dalla memoria ancora viva di un conflitto armato la cui pacificazione ha lasciato i due campi insoddisfatti. E invece quel muro c’è e probabilmente rimarrà in piedi ancora per un bel po’, come le tante altre trincee immobili che puntellano la città, facendo eco all’immobilismo dell’esecutivo e del parlamento di Stormont, sospesi dal 2022 in seguito al boicottaggio istituzionale del Dup in protesta contro il Protocollo sull’Irlanda del Nord. Da una parte e dall’altra non c’è desiderio né fretta di liberarsi dei muri che, in assenza di vincitori e vinti, preservano per gli ex combattenti dei due schieramenti a cui è stato chiesto di deporre le armi, e per le più giovani generazioni figlie del conflitto, la memoria delle battaglie, il ricordo dei caduti e il senso delle lotte.

* Questo articolo è apparso su il manifesto del 14 settembre.

Print Friendly, PDF & Email

articoli correlati

Dalle fiamme (a volte) nascono libri: Contenuto Rimosso. Il fuoco nel Quadrato

di Alice Ongaro Sartori
Contenuto Rimosso di Chiara Trivelli è caso-studio fondamentale nello sviluppo dell’arte pubblica e partecipata in Italia (e non solo)

Oh my bike! Ruote, caucciù e colonie

Come per incanto le ruote delle biciclette dischiudono il sipario degli imperi coloniali.

Per una critica delle evidenze: il femminismo materialista di Christine Delphy

di Marcella Farioli È stato tradotto di recente da Deborah Ardilli il volume di Christine Delphy, L'ennemi principal. 1. Économie...

Un corpo che si chiama desiderio. Wittig ritradotta

di Jamila Mascat
VandA ha recentemente ripubblicato Il corpo lesbico di Monique Wittig nella traduzione di Deborah Ardilli, che ne ha anche curato l'introduzione. Qui di seguito l'incipit dell'introduzione e del libro.

Aspettando Pasolini a Ouarzazate

di Jamila Mascat
A duecento chilometri a sud-est di Marrakech - duecento lunghi chilometri che attraversano le montagne dell’Atlante centrale d’inverno ricoperte di neve – si trova Ouarzazate, capoluogo dell’omonima...

Il disagio della decolonizzazione. Intervista a Wayne Modest

di Jamila Mascat
Giamaicano d’origine, olandese d’adozione, Wayne Modest è docente di Critical Heritage Studies alla Vrije Universiteit di Amsterdam e direttore del Nationaal Museum der Wereldculturen, un complesso che...
jamila mascat
jamila mascat
Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: