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Aspettando Pasolini a Ouarzazate

 

di Jamila Mascat

A duecento chilometri a sud-est di Marrakech – duecento lunghi chilometri che attraversano le montagne dell’Atlante centrale d’inverno ricoperte di neve – si trova Ouarzazate, capoluogo dell’omonima provincia, la cui denominazione in lingua berbera/amazigh significa “senza rumore”.

Non lontano dalla kasbah Taourirt di Ouarzazate (XVII secolo), sorge la cittadella fortificata (ksar) di Aït Ben Haddou (XII secolo). Rosse e friabili, come la terra di cui sono fatte, la kasbah e lo ksar si sgretolano sotto il sole e si frantumano sotto la pioggia.

Lo ksar di Aït Ben Haddou visto dalla città nuova

Una manutenzione dedita e costante, però, le tiene in vita, perché dalla sopravvivenza di questi due fragili complessi architettonici dipende l’industria cinematografica della regione, Mecca del cinema marocchino fin dagli anni Cinquanta. Qui sono stati filmati kolossal come Lawrence d’Arabia (1962) e Il Gladiatore (2000) di Ridley Scott, Kundun (1997) di Scorsese e  L’uomo che sapeva troppo (1956) di Hitchcock, L’uomo che volle farsi re (1975) di John Huston e Gesù di Nazareth (1977) di Zeffirelli.

Gli Atlas Studios costruiti nel 1983

E qui, alla porte del deserto tra Ouarzazate, Zagora e Aït Ben Haddou, nel 1966 Pasolini gira Edipo re (1967), a sua detta il più cinematografico e il più autobiografico dei suoi film.

“Il film è una proiezione in parte autobiografica. Ho girato il prologo in Lombardia, per evocare la mia infanzia in Friuli, dove mio padre è stato ufficiale, e l’epilogo, o piuttosto il ritorno di Edipo poeta, a Bologna, dove ho cominciato a scrivere poesie” (P. P. Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Edizioni Cinemazero, 1979, pp. 57).

“Quando lo realizzai avevo in mente due obbiettivi: primo, presentare una sorta di autobiografia, completamente metaforica e quindi mitizzata; il secondo, affrontare sia il problema della psicanalisi sia quello del mito. Ma, anziché proiettare il mito sulla psicanalisi proiettai la psicanalisi sul mito” (in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti, Mondadori, 1999, p. 1362).

E ancora: “Volevo ricreare il mito sotto forma di sogno; volevo che tutta la parte centrale (che forma quasi l’intero film) fosse una specie di sogno, e questo spiega la scelta dei costumi e degli ambienti, e il ritmo generale seguito. Volevo che fosse una sorta di sogno estetizzante”  (P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit, p. 1363).

Alla ricerca di un’ambientazione mitica, atemporale e al tempo stesso arcaica  – “la storia di Edipo è un fatto metastorico e, in questo caso, metastorico corrisponde a preistorico” (Pasolini e l’autobiografia, intervista di M. Rusconi, Sipario, 258, Roma, 1967, p. 26) – Pasolini incontra Ouarzazate.

Edipo Re, Pier Paolo Pasolini, 1967

In un’intervista con Alberto Arbasino racconta: “Le riprese di Edipo si sono svolte nelle profondità del Marocco, un paese dall’architettura millenaria e deliziosa, senza lampioni e quindi senza tutto il fastidio di girare Il Vangelo secondo Matteo in Italia. Certi rosa e verdi stupendi; berberi quasi bianchi, però “alieni”, remoti, come doveva essere il mito di Edipo per i Greci: non contemporaneo, fantastico..” P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società,  cit., pp. 1572-1573).

Il mito di Edipo trasposto nel sogno necessita di uno sfondo onirico e alieno che strappi la tragedia di Sofocle alle sue radici classiche; un luogo immobile e fuori dal tempo, la pura proiezione di un desiderio:

“Il Marocco è una grande distesa di paesaggi mediterraneo-africani, abitato, lungo una striscia abitabile, da dodici milioni di persone, di cui una parte (la grande maggioranza) è formata da contadini: che lavorano stupendamente la loro campagna (specialmente nella regione di Fez, i campi sono coltivati con grazia e pazienza di orefici; su un altro registro, ma praticamente in modo molto simile a quello di certe civiltà contadine che ci sono famigliari, quella toscana, quella veneta); tale è la perfezione del lavoro contadino, che si ha l’impressione di un mondo concluso che non ha bisogno né di andare avanti né di tornare indietro: ma di star fermo com’è. Anzi, quasi lo si desidera, tanta è la sua bellezza visuale” (Vie nuove, n. 16, 22 aprile 1965).

Alla “bellezza visuale” di questo mondo conchiuso e congelato s’accompagna la “profonda semplicità” dei berberi/barbari:

“La media dell’intelligenza tra i marocchini è bassa, devo dirlo: e anche questo li accomuna a molti altri popoli in via di sviluppo. Non certo per ineluttabili ragioni razziali: ma per una secolare mancanza di esercizio di ogni funzione critica. C’è una profonda semplicità (che si ottenebra solo nelle ben circoscritte zone della malavita) che rende i marocchini deliziosi ma un po’ privi d’interesse. È in questa mancanza di intelligenza o razionalità che vanno ricercate da una parte la mancanza di ogni stabile carica rivoluzionaria, dall’altra le improvvise, patetiche e atroci violenze di piazza” (Vie nuove, n. 16, 22 aprile 1965).

Si manifesta così, con Pasolini e oltre Pasolini, il rovescio della proiezione mitica, la mistificazione. Ouarzazate, la kasbah e lo ksar, le colline di sabbia, i mattoni di fango, le montagne dell’Atlante, la terra rossa, terra nullius che si presta a tutto, che si fa Tibet o Antica Roma, Arabia di Lawrence o Gerusalemme. A Ouarzazate si reclutano talibani e centurioni, legionari e crociati, cristiani e pagani, ebrei e musulmani, beduini sul cammello e cavalieri a cavallo. Le produzioni statunitensi prediligono gli occhi chiari e le barbe lunghe, che molti non radono per questo, e il colorito olivastro ma non troppo, buono per tutte le stagioni. I ragazzini ad Aït Ben Haddou aspettano l’arrivo dei set come una benedizione. E a Ourzazate c’è chi aspetta ancora il ritorno di Pasolini.

Fi intidar Pasolini (Waiting for Pasolini), Daoud Aoulad-Syad, 2007

 

“Giuro sul Corano che io amo gli arabi quasi come mia madre. Sono in trattative per comprare una casa in Marocco e andarmene là. Nessuno dei miei amici comunisti lo farebbe, per un vecchio, ormai tradizionale e mai ammesso odio contro i sottoproletariati e le popolazioni povere. Inoltre, forse tutti i letterati italiani possono essere accusati di scarso interesse intellettuale per il Terzo Mondo: non io” (Nuovi Argomenti, n. 6, aprile-giugno, 1967).

 

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4 Commenti

  1. Che film straordinario, Edipo re. Grazie del viaggio, Jamila
    ps.: segnalo che il primo video non è visibile

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jamila mascat
jamila mascat
Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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