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Ridere

di Antonio Sparzani

rifugio sul Monte Rosa
Conosceva storie di lingue, a pezzi e bocconi, qua e là nel mondo. Aveva letto che presso gli Inuit la perifrasi ridere con te significava far l’amore con te e gli era sembrato molto bello, perché i migliori amori che gli erano capitati nella vita erano stati densi di buonumore e il ridere spesso gli piaceva, altro che il riso abbonda ecc. dello stupido adagio latino, lui non lo credeva vero per niente.
Un giorno erano, lui e Gabriella, in un rifugio di montagna a dormire insieme in un grande camerone stipato di cuccette come spesso nei rifugi, con altri amici, tra i quali c’era un altro pretendente, o un passato amore, di Gabriella. Il numero di cuccette era inferiore di uno al numero di persone, così lui trovò naturale distendersi vicino a lei, che tendeva a chiudersi nel suo bozzolo, nella sua cuccetta. Quando fu spenta la luce fu altrettanto naturale continuare a parlarsi sottovoce, anche un po’ abbracciati, così che lui trovò modo di dire la sua informazione eschimese, con tono casuale. Gabriella sorrise e lui interpretò al meglio: una grande risposta, pensò, di chi vuole mettere in pratica, mostrarti come si può sorridere bene, anche in un rifugio quando si è tutti imbacuccati. Sorridere, appunto, non ridere, ma a lui questo non importava. Gabriella aveva un sorriso bellissimo, con una sfumatura di stupore e di imbarazzo che lo rendevano anche più gradito allo sguardo, era una delle cose che lo avevano fatto innamorare di lei, avrebbe sempre voluto averla intorno, ascoltarla parlare e guardarla ridere.
In un rifugio di montagna con quelle temperature non ci si può allargare molto, e soprattutto è difficoltoso spogliarsi, tanto più lui che era sempre stato freddoloso, e poi con una dozzina di altri a distanza ravvicinata, figuriamoci, certo faranno solo finta di dormire; ma qualcosa accadde quasi subito, qualcosa di tanto più emozionante quanto più inedito era stato nei loro passati rapporti; Gabriella lo baciò teneramente e lo accarezzò con quelle sue mani piccole da pianista infilate sotto la giacca a vento fino a cercargli la spina dorsale, massaggiandogli vertebra per vertebra come a dirgli ― così interpretava facilmente lui ― che voleva conoscerlo in ogni suo dettaglio. Ed era questo per lui il massimo del delirio amoroso, che una donna fosse veramente interessata a conoscerlo e a conoscerlo bene e con calma. La notte fu lunga di sorrisi e bisbigli strascicati, nei quali si raccontarono di nuovo cose passate, dei primi tempi della loro frequentazione, cominciata nelle riunione politiche degli anni settanta, si raccontarono cose vere e anche cose non vere che sarebbero potute succedere, come se fossero successe, e ti ricordi quella volta che, sì però tu che non avevi capito, figurati le donne capiscono anni luce prima di voi maschietti cosa credi, però tu non ti volevi scollare da quel Mario, cosa c’entra tu lo sapevi benissimo che lui comunque c’era, va bene meno male che poi ti ho fatto vedere che vado in canoa meglio di lui e avanti così mescolando fantasia e realtà, o ricreandosi un passato nuovo, che forse sarebbe piaciuto ad entrambi, così come ad entrambi sarebbero piaciute altre varianti di quel pezzo di vita trascorsa vicini, o un po’ vicini e un po’ no, tra la politica e gli amori che sempre si intrufolavano nelle riunioni e si mescolavano alle ideologie e alle manifestazioni. E così arrivarono a rievocare, o forse a ricreare, quella volta che erano usciti da una grande manifestazione, studenti operai uniti nella lotta ― i docenti, come loro due, non erano considerati ma non importava ― con tutti gli slogan giusti e i compagni col megafono che guidavano dosando sapientemente le grida, per infrattarsi in un baretto di Porta Venezia e finalmente dare un po’ di spazio a quella passione che li aveva invasi da poco, una passione da baci infuocati e piena di un desiderio irrefrenabile. E fu questo ricordo, o questa ricostruzione, a quel punto non lo sapevano bene e proprio non importava, che scatenò, anche nella notte sui fianchi del Monte Rosa, un desiderio così forte che senza più freni ognuno si sforzò di dare all’altro il massimo piacere possibile; quando il desiderio è a quel livello le mani sanno da sole cosa fare. Era l’alba appena accennata quando si calmarono e riuscirono a prendere qualche mezzora di sonno. Al risveglio si sorrisero.

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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