Che ne sai tu

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di Mirfet Piccolo

Era in un paese di settecento quarantatré abitanti e un circolo anziani aperto solo d’estate. Il sole non c’era ancora ma stava facendo giorno.

– Sei ancora qui – disse Carla.

In cucina, la TV accesa senza audio frastagliava il buio. Carla guardò lo schermo, osservò la bocca della giornalista comporre parole, il suo viso magro e teso; accanto, un riquadro mostrava la foto tessera di una donna.

– Ha ucciso sua figlia e l’ha sotterrata in giardino, le disse lui.

Carla continuò a fissare lo schermo, e quando lui le disse A stasera fai una buona giornata, Carla non rispose. Poi i passi di lui furono oltre la porta e sul giardino, arrivarono al cancelletto e poi furono oltre, dissolti uno dopo l’altro nella brina lucida e sottile.

Carla si sedette sul divano della sua bella casa di provincia. Una casa con un giardino curato, una taverna di vini e una mansarda ammobiliata dove, aveva creduto insieme a lui, gli amici non sarebbero mai mancati. Nella sua bella casa di provincia, Carla spense la TV e non accese la luce: il buio, quando era sola, non le faceva paura.

Poi Carla sentì il richiamo della figlia e così, come ogni mattina, ancor prima che Carla raggiungesse l’interruttore, le luci della casa si accesero come fari e le spesse mura divennero limpide, permeabili a chiunque, e da qualunque angolazione, volesse guardare. Carla aveva capito come fare.

Mentre percorreva il corridoio che l’avrebbe portata nella camera della figlia, mentre la prendeva in braccio e poi tornava in cucina, Carla sentì di avere qualcosa che quella donna del riquadro in TV non aveva: Carla, un giorno, alle prime luci dell’alba aveva capito che il modo migliore per non commettere errori era accertarsi di non essere mai sola. Perché erano passati sei mesi (quella notte era successo qualcosa di confuso, qualcosa che fu la piccola testa contro la sponda del lettino per due o forse tre volte) e lei non lo aveva detto a nessuno.

Carla alzò lo sguardo agli angoli del soffitto per accertarsi che la speciale architettura che lei stessa aveva creato, quella non-solitudine che era la salvezza sua e di sua figlia, fosse sempre al suo posto: una telecamera là e là, un’altra sotto il lampadario e una sotto la cappa della cucina; e poi tutte le persone che sostavano attorno alle mura trasparenti della sua casa, i loro occhi bianchi in corpi sfuggenti. È così che Carla sarebbe riuscita, anche questa mattina, a fare ogni cosa con la giusta serenità. Preparò la colazione per lei e per la figlia e interagì con le sue parole imperfette, guardò i suoi grandi occhi attenti che la seguivano e le chiedevano rendiconti e spiegazioni su ogni cosa. Dopo colazione, Carla mise la figlia seduta sul divano con una borsa colma di cubi da costruzione e tornò al tavolo a sparecchiare. La bambina rovistò famelica nella borsa, prese due cubi e iniziò a batterli ripetutamente uno contro l’altro; Carla la guardò ancora e sorrise: era da tempo ormai che aveva smesso di chiedersi quando sarebbe arrivato il giorno in cui la figlia avrebbe costruito qualcosa.

– Ti piacciono i cubi, vero? Brava. Suona, fai la musica.

Dalle mura trasparenti della casa, tutti potevano vedere la scena di una bambina felice con i suoi giochi e di sua una madre, una giovane donna, che riponeva in dispensa una comune scatola di biscotti. Era una scena che aveva tutto per concludersi con la vestizione paziente della piccola in previsione della passeggiata quotidiana. E infatti così fu, una scena mite e senza perdite.

– Vero che vuoi bene alla tua mamma? Vero?

Il parco giochi era spoglio di bambini, era un campo di foglie bagnate dall’inverno e di rami secchi spezzati dal vento. Due palazzine basse lo cingevano; case silenziose abitate da un proletariato chiamato a giornata. Una volta Carla aveva visto un bambino su uno di quei balconi: Carla gli aveva fatto ciao con la mano e il bambino si era spaventato e aveva chiamato sua madre perché lo riportasse in casa.

– Magari oggi arriva qualcuno – disse Carla.

Dal passeggino la bambina si allungò per toccare l’altalena.

– Vuoi che ti dondoli?

La bambina fissava l’altalena con ostinazione, con il busto teso verso l’oggetto dei suoi desideri. Non voleva altro.

– Aspetta, è bagnata.

Carla cercò dei fazzoletti di carta nella borsa. Era un borsa grande, comprata apposta nelle settimane precedenti al parto, quando lei e lui ridevano ubriachi di attesa. Il pannolino di cambio, un pantalone in più, la crema, le salviettine, la merenda, una bottiglietta d’acqua. E niente fazzoletti.

La bambina si stava agitando: voleva ciò che aveva chiesto e lo voleva subito. Altrimenti perché portarla lì?

– Ti ho detto aspetta.

Tra i rami secchi Carla avvertì le telecamere che erano la sua certezza, la sua salvezza dal fallimento.

– Devo asciugare l’altalena altrimenti ti bagni – spiegò – e se ti bagni poi non posso cambiarti al freddo.

La bambina storse la bocca in una smorfia che Carla conosceva bene, era il preludio al pianto isterico. Carla si sfilò in fretta la sciarpa e ne fece un fagotto: asciugò l’altalena con la consapevolezza di avercela fatta anche questa volta: stava facendo del suo meglio, alla luce del sole e sotto gli occhi di tutti, e il suo meglio sarebbe stato sufficiente. Infatti fu solo una questione di pochi attimi ed ecco che la bambina, in braccio alla madre, aveva capito che stava per ottenere ciò che aveva chiesto. Carla infilò le piccole gambe nel seggiolino, le coprì bene le orecchie con il cappello, le strinse la sciarpa.

– Così non prendi freddo, giusto?

Avanti e indietro, Carla era una madre capace di presagire i passi da fare e le conseguenze da gestire; avanti e indietro, e la bambina era felice.

– Ti piace così, vero?

La bambina sorrise al dondolio e al volto di sua madre, al sole alto anche se l’aria fredda la faceva lacrimare.

– Ti piace, eh?

Carla sentì il rumore di una tapparella: forse la stavano alzando, un altro poco; o forse la stavano abbassando, ma non del tutto.

Dalla borsa Carla prese il pacco di biscotti e ne diede uno alla bambina che se lo portò subito alla bocca. Nel pacco ne erano rimasti solo due, ma sarebbero bastati. Cresciuta in un piccolo appartamento di periferia colmo di parenti e amici dei parenti, con pane bagnato di pomodoro fresco e un costante odore di caffè appena fatto, Carla era stata una bambina senza bisogno di cibo. La canzonavano che era magra come un’acciuga e che doveva mangiare un po’ se voleva trovare un fidanzato ma a Carla la parola fidanzato non interessava, lei voleva solo saltare alla corda e diventare grande per fare l’astronauta.

Carla guardò la figlia ingoiare l’ultimo pezzo di biscotto, osservò la piccola bocca piena che già ne chiedeva un altro e provò una punta di disgusto. Eppure Carla prese un secondo biscotto dal pacco e lo diede alla figlia.

– Tieni. Guarda che dopo questo ne è rimasto solo uno, hai capito? Solo uno.

La bambina afferrò il suo trofeo.

Avanti e indietro, la madre che spinge via e la figlia che torna sempre; avanti e indietro, il cigolio dell’altalena era un canto liso in uno spazio vuoto.

Il ciottolato della piazza era sconnesso e la spinta del passeggino una fatica. Però qualcuno era passato di lì e aveva allestito un presepe: le sagome erano di cartone, dipinte con colori che forse un tempo erano stati vivaci. C’era del fieno dentro un recinto storto, c’era un albero di Natale fatto di tappi di plastica. Un cartello diceva: creato dai bambini della scuola elementare. Lui, un giorno, le aveva raccontato che quel cartello era stato scritto dieci, forse quindi anni prima. Anche l’albero di Natale non era nuovo; lui lo sapeva perché una volta ne aveva marchiato uno con un pennarello indelebile e lo aveva ritrovato l’anno successivo.

– Ti piace, vero?

La bambina fissò, puntò con il dito.

– Quello è un presepe. Il bambino lo chiamano Gesù ma è solo una storia, una cosa che si racconta. E questo è l’albero di Natale. Un giorno che papà torna presto lo facciamo anche noi a casa, che ne dici?

Attraverso le crepe del ciottolato deserto e tra il fieno nel recinto storto, attraverso gli occhi di cartone e da ogni tappo di plastica, oltre le tende chiuse di un paese senza voci, Carla sentiva che la sua architettura era sempre presente, che la sua non-solitudine era una solida certezza. Carla trovò il tappo marchiato, erano tre punti di domanda sbiaditi.

Carla aveva freddo ma andò a sedersi sulla panchina; con il piede spinse avanti e indietro il passeggino per simulare un movimento verso qualcosa o qualcuno. Era la cosa giusta da fare, almeno per un po’.

Poi la bambina iniziò ad agitarsi, ad emettere lamenti e a tirare il suo stesso corpo in maniera spastica.

– Hai freddo, vero? Adesso andiamo. Noi andiamo altrimenti ti ammali. Va bene?

Il campanile batté il primo di dodici tocchi. La bambina iniziò a piangere e loro erano solo a metà strada.

– Calmati, siamo quasi arrivate.

La bambina pianse più forte.

– Smettila.

Una vecchia con un cappello in feltro e scarpe a punta passò loro vicino, guardò la bambina e poi guardò Carla e disse, Povera piccola si sente che ha fame.

Con la bambina in braccio, Carla accese la luce della dispensa.

Con la mano libera spostò scatole di tonno e pacchi di pasta, pannolini e barattoli e detersivi.

– Vedi, lo vedi che siamo dove c’è la pappa che la mamma ti deve cucinare? Non piangere. Lo vedi?

La bambina non vedeva né sentiva, le sue urla coprivano ogni forma e colore, annullavano ogni altro suono al di fuori di quello che nasceva dai suoi polmoni e dalla sua gola tesa, dalla sua bocca spalancata.

– Adesso cerchiamo la pastina. Tu riesci a vederla? Aiuti la mamma a trovare la pastina, eh? Vero che adesso aiuti la tua mamma?

Le luci si spensero troppo presto e Carla tornò all’interruttore a riaccendere il mondo. La bambina era rossa in viso, le sue mani stringevano i capelli di Carla, la tiravano.

– È colpa di papà, dice che aggiusta le luci e poi non lo fa. Lo dici tu a papà, eh? Vedrai che adesso la troviamo la tua pastina, quella con le stelline. Ha dentro pure le vitamine, vero? Vero che ti piace, eh?

Le luci si spensero di nuovo e la bambina pianse più forte.

Carla riaccese le luci per scacciare quel buio.

– Facciamo così, ti metto un attimo a terra così la mamma cerca meglio, va bene? Solo un attimo, così faccio in fretta.

Gli occhi di Carla cercarono il pacco di pasta con le stelline che le dicesse che stava facendo la cosa giusta, che la rassicurasse che quel momento stava per finire. Non lo trovò. E quando le luci si spensero nuovamente Carla sentì un sudore acido mangiarle il viso e corroderle gli occhi, entrare nella sua testa e farle male. Fu allora che le telecamere cessarono di esistere e gli occhi bianchi scomparvero, che le mura della sua casa tornarono ad essere spesse e impermeabili. E la bambina piangeva e i colpi in testa facevano male. In quel buio, Carla sollevò a sé la bambina e la strinse forte, quella figlia ingorda e strillante che non parlava e che non ne voleva sapere di aspettare, di portare pazienza. La strinse, petto contro petto, le braccia chiuse in una morsa; erano loro due, nella dispensa di quella casa perfetta in un paese di provincia, loro due e nessun altro, e Carla avrebbe voluto che quel corpicino tra le sue braccia si annullasse nel suo, e che la smettesse, una volta per tutte, una volta per sempre, di generare tutto quell’indicibile dolore. La strinse forte, sempre più forte. Bambina ingorda, figlia mia.

– Che ne sai tu – urlò Carla –, che ne sai tu di come sto io?

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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