Radio days: Gigi Masin

Loops and Clouds

di Mirco Salvadori

 

L’entrata dell’edificio si avvicina. Misuro i passi mentre i sensi rimangono avvolti nella lenta vibrazione del subwoofer colpevole di espandere oltremodo i droni danzanti nelle cuffie. Il semplice tragitto lungo un viale in dolce salita si trasforma in passaggio estatico. Il display del mio dispositivo indica che l’attenzione è satura. Deeper Inside recita, premunendosi di informarmi che ora siamo all’ottava stazione d’ascolto: Arriving Here And Now. Informazioni indicizzate, forse. L’infinito viaggio assieme a Florian Becker sembra sia giunto a termine. Il sound artist tedesco mi conduce fin sulla soglia, abituando i miei sensi a vagare lungo invisibili strutture architettoniche create nello spazio indefinito, quasi presagisse ciò che i miei occhi vedranno.

Mi trovo in una Cattedrale che emana fragranza primordiale di legno e suono. È uno spazio nel quale si espone la spontaneità dell’arte musicale immersa nella complessità di una creazione architettonica che incita alla perdita dei punti cardinali a favore del viaggio indefinito. Mi ritrovo innanzi ad un oceano di suono custodito all’interno dello Studio Venezia, nel Padiglione Francia della Biennale 2017. L’inconfondibile timbro del silenzio è la prima delle molteplici percezioni che si avvertono entrando nel padiglione. Al pari di Alice scivolo lungo un tunnel che non ha una forma apparente, avanzo passo dopo passo attraversando le sale di uno dei molteplici Merzbau, il quinto forse, l’opera artistica totale, colei che riesce a riunire e far dialogare, nella sua apparente e visionaria architettura, i linguaggi dell’arte. Se l’eroina del racconto di Carrol intravvedeva appesi al muro scaffali di libri e quadri e carte geografiche, qui il tripudio della visione è dato dal numero elevato di strumenti musicali posizionati a coprir pareti e palchi, esposti come opere multimediali, preziosi oggetti dalle fattezze (s)conosciute, sapienti interpreti da sempre in grado di stupire.

“L’architettura può essere un limite per l’arte, la musica può essere un altro limite ma all’interno di questi limiti qualcosa può esistere, qualcosa di diverso dalla semplice arte visiva. Non si tratta di aggiungere campi diversi ma di moltiplicarli: il suono fornisce una particolare dimensione che non può essere raggiunta solo con la componente visuale”. Così Xavier Veilhan mentre descrive il suo progetto, un padiglione espositivo che vede la curatela del Leone d’oro 2011 Christian Marclay assieme al direttore del Musée d’Art Moderne et Contemporain di Ginevra, Lionel Bovier. Il nomade visitatore che inconsapevole varca l’entrata dell’esposizione, si ritrova in un apparente non-luogo chiamato Studio Venezia, forse un hommage da parte dell’artista francese ad una sua opera del 1993 che si chiamava, per l’appunto, Le Studio. Senz’altro una dichiarazione d’intenti su quanto s’intende fare e creare, immersi in questa virtuale foresta di legno piegato alla volontà del suono e della sua ottimale diffusione acustica.

Lo sguardo ancora indugia, raccoglie informazioni mentre l’anima abituata a nutrirsi di purezza estranea a qualsiasi nozionismo, chiede vibrazioni, vuole nutrirsi di suono. A fatica insisto nei panni del visitatore giunto fin qui spinto dall’estrema curiosità legata alla passione musicale. Con stupore scopro che l’esposizione ospita un vero e proprio studio di registrazione ad altissimo livello e decine sono i nomi degli artisti transitati e che transiteranno nello Studio: Mark Sanders & Elliott Sharp, Darla & Brian Eno, Alessandro Bosetti, Alva Noto, Thurston Moore, Lee Scratch Perry, Nicola Ratti, Sèbastien Tellier, Steve Beresford & Zeena Parkins, Von Tesla, giusto per citarne solo alcuni. Espressioni musicali le più diverse che potranno esser seguite in diretta streaming sul satellite virtuale in rotazione nel world wide web, lo studio-venezia.com.

La fame morde, paziente ha atteso io vagassi terrestre tra i terrestri raccogliendo ulteriori informazioni ma ora urla e si contorce, graffia le corde delle chitarre appese alle pareti, il nero splendore del pianoforte a coda, il vecchio Fender Rhodes e il clavicembalo, con lo sguardo azzanna Moog e sintetizzatori, strumenti a fiato e percussioni, sconosciuti emanatori di onde sonore e gigantesche balalaike capaci di preservare dal freddo anche il più possente dei suonatori. Ma un suono ora giunge, è il nero Yamaha che sorveglia lucido l’entrata dello Studio Venezia.

La tonalità inizia a giungere fluida mentre penso ad una frase letta qualche giorno addietro. A pronunciarla Angus Carlyle, ricercatore e studioso del paesaggio sonoro con una cattedra alla University of the Arts di Londra: “Passeggiate sonore performative con o senza palloncini che scoppiano, una voce che canta o una voce ambientale. L’ascolto dialogo spronato dagli imperativi degli intenti o dal desiderio di triangolare le modalità sonore per conoscere un luogo. La sollecitudine affettiva verso ciò che accade le finestre e i muri, verso le facciate delle architetture, la sensibilità acuita verso i flussi magnetici, verso le vibrazioni interne della materia, verso i cambiamenti nel calore, nell’umidità e nel vento, verso il frastuono della cicala o il respiro del bisonte, verso ciò che è pericoloso (comunque visivamente innocuo) ed il precario (qualsiasi sia il linguaggio che parli)”.

Ecco, penso seduto dentro quella foresta di legno piegato al volere del suono, ecco l’esempio che cercavo per spiegare al meglio quelle parole. Attorno a me il nomade via vai dei visitatori, il suono scaturito dai loro passi, quello dei loro pensieri. Tutto intorno il calore degli spettatori attenti e l’alternarsi dello scatto degli otturatori dei mille devices costantemente agganciati alla Grande Madre Rete che tutto ingloba. Il respiro di un’architettura apparentemente immobile che riceve e restituisce vibrazioni. Il flusso continuo di dati che scorrono lungo i cavi per esser filtrati e trasformati in materia udibile anche dopo il silenzio definitivo della fonte originaria. Siamo tutti parte di un’opera artistica che emette in continuazione suono così come la musica prodotta dai due ospiti oggi in residenza, il veneziano Gigi Masin e lo scozzese Jonny Nash.

Ho conosciuto Gigi nel corso di un programma radiofonico che conducevo negli anni ’80, era un visionario musicista che bruciava di passione e regalava il suo disco a chi lo richiedeva, un vinile autoprodotto intitolato “Wind” ora ricercato dai collezionisti di mezzo mondo. Dopo oltre trent’anni quella passione messa a dura prova dall’ottusità di una realtà musicale italiana priva di contenuti veri e troppo concentrata ad autoincensarsi, è esplosa a livello mondiale portandolo a suonare nella formazione dei Gaussian Curve con Marco Sterck e Jonny Nash che ora ritrovo piegato sulla sei corde elettrica mentre dialoga con il pianoforte usando un linguaggio ad alto potenziale virale che ben conosco. Le barriere vengono abbattute, qualsiasi discorso, sia esso basico o cattedratico, perde valore innanzi all’assoluta potenza immersiva della situazione, slegata da ogni contatto se non quello dell’ascolto.

Entro nel ciclo continuo del loop, degli accordi che si abbattono a ridosso del suo segnale salvifico e volutamente mi perdo. Mi ritrovo all’aperto mentre una silenziosa vettura elettrica conduce gli ultimi visitatori verso l’uscita; il cielo sopra Venezia quest’anno è il palcoscenico di un passaggio di nuvole mai osservate prima, formazioni dal disegno sorprendentemente astratto che continuamente si ripresentano allo sguardo nella loro corsa verso il mare, quasi fossero note imprigionate nel nastro magnetico più azzurro mai concepito.

“Il componimento del 1963, il Solfeggio (…) è scritto seguendo solo sette suoni invece di dodici. Come vede, l’idea era molto semplice e non ero assolutamente sicuro che avrebbe funzionato fin quando non l’ho ascoltato e si, se viene eseguito nel modo giusto funziona benissimo, ma, mi creda, non saprei che altro aggiungere” (da una conversazione di Enzo Restagno con Arvo Part)

 

LINK AL VIDEO: https://www.facebook.com/mirco.salvadori/posts/10155914491768322

 

 

 

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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