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Mariano Bàino – Prova d’inchiostro e altri sonetti – mini-antologia con nota (in-)esplicativa

Da Prova d’inchiostro e altri sonetti

di Mariano Bàino

1.

mundus (homeless man)

chiuso il tuo chiuso dentro un cassonetto
conchiglia inconchigliata col suo mollo
fra la calda immondizia, in un brodetto
sapido di primordi, finché il collo

ancora umano troppo umano non
lo scannano spirali in giro lento
di un vecchio camion nella notte con
tritarifiuti d’ordinanza -il vento,

folate fredde in mezzo allo sfasciume,
fa volteggiare un po’ di cartastraccia
fra le baracche sul greto del fiume.

Il vento a due spazzini il cuore agghiaccia
con l’urlo che dà in fondo all’infernale
compattatrice -un urlo d’animale.

* * *

senza titolo

per la mia mente è davvero incredibile
che tutto venga dopo quel falotico
mondo del mercato. ma non starò

qui nel modello a smidollare gli alibi
di chi voleva raddrizzare i torti
-alibi nostri, certo, che nell’urto

dell’accaduto -quasi la pezzuola
sulla piaga di uno morto male –
hanno scolato subito. ma pare
che nel silenzio ancora il ringhio sale

della cagna-poesia. al capitale
-qualcuno ha detto- può restare in gola
l’osso senza carne della parola
(avesse l’osso forma di pistola…)

* * *

sonetto del mattopardo

tranquillo te ne stai come un pupazzo
di segatura che scuote la testa
ogni tanto, quel tanto che rispazzoli
i sonagli che in cima fanno cresta.

quel berrettino a punta ha un suono pazzo
-se il suono senti bene è un po’ una festa
del morto o vita che tintinna a cazzica
-ti dice di un destino cartapesta,

che incarni una finzione di te stesso,
un sogno d’altri ch’è un quadro sconnesso
di fiori, tutti finti, che strapazzi

solo per imitare una protesta
sensifera, di linfe, un breve sprazzo
nulleo, del nulla della luce pesta

* * *

scacchiera/zugzwang

otto colonne e righe se tu prendi
le linee da sinistra -se conduce
la destra il verso a specchio -se sei luce
spettrale che attraversa -se comprendi

fra algebre il sistema che palude
è a sbiechi alfieri avversi – se sorprendi
tu l’altra mente e mentre sali scendi
a lama di rasoio – se traluce

la trama sua fra i tagli, le caselle
-se si accartoccia il fronte, si deforma
il nero bianco quadro come pelle

squarciata, se lì entri, un po’ a tentoni
rovisti e sei toccato dalla forma
a sbalzo dell’assurdo -se abbandoni

* * *

sonetto dell’area cinquantuno o dreamland

ardono oggetti di una luce ambrata
-luce, tra le montagne del nevada,
ellittica, che pulsa, è alla spianata
della statale, fila in autostrada

verso ovest -svanisce, diventata
due globi verdi e piccoli nell’aria
o aerei neri segreti o stellata
traccia d’antimateria che dirada

nel bianco del deserto: cominciata
con dischi somiglianti al mezzo dollaro
l’azione aliena, va a zigzag. sì, gli ufo

per le frangiate palpebre, una bolla
dove la carne sogna -sogni il gufo
la stella che è felice mentre crolla.

* * *

2.

disamato amante

quella lingua che come un martelletto
clicca la lingua in forme stabilite
dai codici d’amore sembra in lite
con la maschiezza, maschera in lucchetto.

dal tuo baciare io mi disconnetto
e guato nei tuoi occhi d’antracite
un vuoto che chi sa se è mite o immite.
eppure ti desidero, lo ammetto,

e forse è dopo un po’ che ti interessa
darti ad un estro, farti nel rapporto
dark lady, dama d’acme, diavolessa…

ma temo, sai, di rimanerne assorto,
quiete vedo vorrei tifonessa
-gli scogli tuoi saranno mai il mio porto?-

* * *

osceno/sentimental

ehi, senti? mento! è da poeta, in fondo,
però riuscissi a dirlo questo groppo
-un solo atomo, a muoverlo, e il troppo
sciocco delirio dove per te affondo

sarebbe estremo limite di lingua,
salvezza, a me, che osceno come il papa
di de sade, che sodomizza un tacchino

sto qui ad amarti, mentre si dissangua
il cuore prosciugato dal tuo napalm,
svuotato per riempirsi di un pochino

di te, di un’ora sola del mio oppio
sfumato dalla storia, via dal mondo
-sessi incrociati sulla sedia a dondolo
bastavano, bastava quel galoppo.

* * *

3.

prova d’inchiostro

(per gelsomino d’ambrosio, in memoria)

nella tensostruttura di un sonetto
chi sa sei tuoi racconti disegnati
avrebbero a soffrire, limitati
da spire rime cavi e un architetto

pentito già da prima -non sia mai
che immagini sfiottate dal tuo petto
sia io a dissipare. allora spero
vuota la prova. ancora non sciupati

per vie d’inchiostro i silenzi, le ore
della tua lady d’indaco, gli spersi
veli nei venti con l’aspide flessile

e il corvo re… vedrebbe ogni lettore
come in lisci cucchiai dentro i miei versi,
di un grande sole il pallido riflesso.

* * *

piede di madonna

non sempre trovi gli occhi allineati
il collo a volte va sulla clavicola
largo e per fasci muscoli s’irradiano

in modi che ci sembrano arteggiati
con un pennello alla brava, così
a scrollo, disunita abissità

dal rimanente incarnato -ti scorrono
a tratti caravaggio, in sprezzatura,
parti anatomiche, per la pittura
di luce transversa, di chiaroscuri

dal disegno che abbozzo ti procuri
con bianca biacca e fosco fondo -caro
di più il chiarore in zuffa e nell’asprura
con ombre e ogni genere di scuri.

fra le stranezze plurime
dei corpi soffro solo quello strano
collo del piede di maria, mostrato

ai viandanti, fra strada
e soglia -un poco sa di crudeltà
(te la ridi della deformità?)

* * *

__________________________________________________________________

Nota (in-)esplicativa

di Daniele Ventre

Nell’architettura seriale di periferia che si viene ormai imponendo in un’ampia area della poesia italiana, ridotta a vasta e uniforme pianura di nebbie occasionalmente adorna di caseggiati cubiformi, o a cumulazione catalogica di superficie, dominata da un combinato (mal-)disposto di epigonalismo e accademia, abbiamo avuto il piacere di imbatterci in un tesoro inaspettato, uscito per i tipi di Nino Aragno editore nella collana i domani, l’aureo Prova d’inchiostro e altri sonetti, di Mariano Bàino, la cui voce poetica si configura ancora una volta come una ventata d’aria fresca. Mariano Bàino è un autore che ci è intimamente congeniale per più di una ragione: anzitutto, l’estrema ricchezza formale ed espressiva che connota la sua produzione, sia poetica, sia narrativa; in secondo luogo, la profondità conoscitiva e la forte assertività e positività ontologica ed esistenziale (e resistenziale, considerato l’environnement e le sue nicchie an-ecologiche) di cui ogni sua opera è portatrice: una profondità e una positività tanto più veementi e coese, quanto più colpisce l’orecchio e l’intelligenza del lettore la patina di sommessa e signorile ironia che di Mariano Bàino è la cifra stilistica più evidente.

La silloge, articolata in quattro sezioni, si configura come una neo-rossiniana piccola messa solenne, o meglio, come una piccola grande opera-mondo, un mondo che si manifesta da principio come sostanza deiettiva, residuo disorganico, rifiuto, nella contemplazione dell’esistente degradato che è al centro del sonetto incipitario, mundus (homeless man). La stessa forma del sonetto, in quest’incipit, è torturata e tormentata nella sua struttura ordinaria, e marcata con combinazioni rimiche anomale (“con”, “non”, ordinariamente proclitiche, da clausola grafica di verso atonale), che minano l’apparente solidità dell’armatura wyattiano-shakespeariana dello schema metrico, trasformando il metro stesso in allegoria di un tessuto di realtà nelle cui leggi si incasellano sbavature e storture. Un esempio simile di allegoria tramata nel ritmo e nella scansione strofica è nel componimento senza titolo, la cui disposizione inversa, terzine che precedono le quartine, è più caratteristica della poesia d’oltralpe -si pensi ai decasyllabes di Résignation, lirica incipitaria dei Poèmes Saturniens di Verlaine. In questo sonetto appare evidente il parallelismo fra la struttura formale invertita e la denuncia dell’inversione segno-significato del mercato, deprivatore di senso. Nello stesso contesto, tuttavia, rinveniamo l’allusione marxianeggiante al rovesciamento dialettico fra la preponderanza del mercato e il “ringhio … della cagna-poesia”, ambiguamente connotata come cagna da guardia e nel contempo cagna da lupanare, grazie a cui “al capitale… può restare in gola/l’osso senza carne della parola”, rovesciamento dialettico che rende ancora più straniante la specularità formale. Ma un ulteriore passaggio da sottolineare, in questo sonetto rovesciato, è che in effetti dal punto di vista dell’originaria visione marxiana siamo di fronte a un duplice slittamento di prospettiva, con l’immagine del residuato sovrastrutturale (la poesia) che si oppone dialetticamente al mondo oggettivo dei rapporti di forza dell’economia, e vi si oppone in termini di posizione sovversivo-rivoluzionaria (l’osso della parola è efficace solo se ha “forma di pistola”). Questo che è il quarto dei sonetti della prima sezione si rivela dunque una sorta di proemio metapoetico di secondo grado, in cui tutto, dal ri-arrangiamento delle sillabe al messaggio, palesa a chiare lettere una visione paradossale della poesia: pur ingabbiata com’è in una dimensione marginale e liminare, essa funziona come grimaldello atto allo scardinamento dell’esistente, come suo speculum deformante e rovesciato, a patto però che non ceda alla seduzione dell’informe, ma persegua fino in fondo, sempre nel paradosso e nell’autocontraddizione apparenti, la necessità di soddisfare positivamente alla fame di forme che, come da lezione blochiana e da principio (disperato) di speranza, mina da sempre la materia. Risulta ora quasi banale sottolineare come, prendendo l’aire da questo paradosso-coerente del dare forma all’informe con disperata speranza, i singoli sonetti procedono sezione dopo sezione come fulgurazioni creative sorprendenti, in cui nuovi slittamenti prospettici sono sempre in agguato. Così a valle di una sequenza di singoli snapshots, dall’indecifrabilità/indecidibilità che connota il terzo uomo alla pensosa staticità hopperiana dei nighthawks, dalle sinestesie del tartufo bianco alle dissonanze di sonetto degli storni e del debito, alla grazia allucinante e totalitaria del plastico d’ape, campeggia l’ambigua figura al centro del sonetto del mattopardo, eco remota di un Pinocchio che era già emblema di uno dei momenti più giustamente noti della produzione letteraria di Bàino, ma al tempo stesso decostruita persona loquens, voce tintinnante di rime per l’occhio e rime ipermetre cumulate e tumulate in sonetto continuo, che con il suo “breve sprazzo/nulleo, del nulla della luce pesta” riecheggia alla lontana il sereniano “nulla nessuno in nessun luogo mai”. Dalla perfezione formale assoluta di scacchiera/zugzwang, in cui la limpidezza geometrica del classico schema petrarchesco di quartine a rime incrociate e terzine a rime incatenate si fa immagine uditiva delle mosse forzate dell’esistenza, alla riscrittura kavafiana di arrivano i barbari, che per converso celebra, nella distopia del collasso finale di civiltà, il trionfo della parola eccedente la forma chiusa, per terminare con l’atmosfera aliena del sonetto dell’area 51/dreamland, con i suoi ominosi dischi volanti, ein moderner Mythus di junghiana memoria, proiettato in un’area di sogno e in un tempo del sogno futuro, la prima sezione di Prova d’inchiostro racchiude il mondo in una sorta di giocosa cronaca disseminata dell’apocalissi.

La seconda sezione della raccolta torna, in parte, alla tematica amorosa che è tema di molta parte della tradizionale produzione in sonetti, e ciò che ancora una volta colpisce è il continuo gioco di trompe-l’oeil e trompe-l’oreille di cui la voce poetica della persona loquens si anima. Così, per esempio, in disamato-amante fronte e volta si controbilanciano, come un simbolo di Yin e Yang, fra “maschiezza-maschera” e “dark lady dama d’acme diavolessa”, in la single felicita l’ironia tipica di Bàino si riveste di toni neo-gozzaniani, mentre in osceno/sentimental il gioco di risegmentazioni, sia strofiche (quartine e terzine si incrociano) sia verbali, si fa portavoce di un ulteriore messaggio meta-poetico (“ehi, senti? mento! è da poeta, in fondo”). In questa sezione di ludico-verbali ἐρωτικὰ παθήματα, si stacca per il suo tono più pensoso, e per le sue forme estreme e debordanti, un nuovo senza titolo il sesto e penultimo, in cui l’oggetto libidico, ma anche l’eros in sé, si palesano fusi insieme in un “amato dèmone”, altalenante e ingombrante assenza-presenza.

Più metafisica la terza sezione, venata di uno sfaccettato amor idearum intellectualis, e spesso, in concreto, delle umbrae idearum che l’arte, figurativa o musica, rappresenta: si tratta di un tema che interessa in modo diretto o indiretto la maggior parte dei sonetti centrali ε ha una lunga tradizione in occidente, a partire dall’arte ecsfratica delle Immagini di Filostrato, per arrivare a Walser. Qui si rinviene per esempio il sonetto tribute Prova d’inchiostro, che dà il titulum all’intera silloge, e in cui si opera il redde rationem di rinchiudere la narrazione/ragione/ragionamento del mondo (nello specifico, del mondo racchiuso nei racconti disegnati dello scomparso Gelsomino d’Ambrosio) “nella tensostruttura di un sonetto”, tensostruttura che raggiunge qui le massime tensioni sperimentalistiche: basti pensare al sonetto bicaudato con fronte e volta invertite piede di madonna.

Chiude infine l’opera l’ipersonetto di settenari Carnevale Minore, omaggio implicito “all’archimandrita Zanzotto” (come da notazione di Andrea Cortellessa), in cui il tono crepuscolare, quasi dimesso, da mottetti e bozzetti, meriterebbe una lunga e articolata trattazione a sé e chiude con un allegro in sordina una trama poetica unica del suo genere. Nell’ipersonetto finale, sottoinsieme che costituisce in sé un’unica struttura poematica, il moto-cross verbale a cui il lettore di Bàino deve tenere dietro, prende anse più meditative, e culmina, in “ti nascondi e si vede” con quello che sembra configurarsi come un autoritratto a distanza, un congedo dalla pelle/ordito di pixel con cui il lettore e il poeta si sono finora interfacciati/confusi.

 

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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