Quando la letteratura vampirizza i padri

di Antonella Falco

Il 1816 passò alla storia come “l’anno senza estate”. Infatti gravi anomalie del clima – provocate da un insieme di concause quali imponenti eruzioni vulcaniche che immisero nell’atmosfera, di fatto raffreddandola, ingenti quantità di cenere, fenomeni astronomici come il “minimo di Dalton” (un periodo di bassa attività solare) e la “piccola era glaciale” che dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo produsse un brusco abbassamento della temperatura media terrestre – determinarono in Europa del Nord, ma anche in Canada e Stati Uniti d’America, grandi tempeste di neve, piogge torrenziali e inondazioni che si protrassero fino ai mesi estivi, distruggendo i raccolti e determinando carestie e incremento dei prezzi.

La situazione si rivelò essere particolarmente critica in Svizzera. Proprio qui, in una villa sulle sponde del lago di Ginevra, si trovò a soggiornare il poeta inglese George Gordon Byron, che vi giunse nel maggio del 1816 dopo aver definitivamente lasciato l’Inghilterra a causa dei molti debiti ereditati da un prozio e dagli scandali relativi al suo divorzio da Anne Isabella Milbanke e al rapporto incestuoso con la sorellastra Augusta, dalla quale nel 1814 aveva anche avuto una figlia, Medora.

Byron soggiornò nel villaggio di Cologny, prendendo dimora a Villa Diodati, insieme al suo medico personale John William Polidori; in una villa non molto distante, a Montalègre, soggiornarono Percy Bysshe Shelley e la sua futura moglie Mary Godwin Wollstonecraft, insieme alla sorellastra di lei, Claire Clairmont, con cui Byron aveva avuto una relazione a Londra e che riprese a frequentare in Svizzera.

Il piccolo cenacolo di intellettuali era solito trascorrere molto tempo insieme e fu proprio durante uno di questi protratti soggiorni nella villa di Byron – a causa della pioggia incessante rimasero chiusi in casa per tre giorni – che il gruppo si diede alla lettura di storie fantastiche, fra le quali figurano quelle contenute in una antologia nota col titolo di Fantasmagoriana. Era questa una raccolta di storie di fantasmi tedesca tradotta in lingua francese da Jean-Baptiste Benoît Eriès e pubblicata nel 1812.

Com’è noto queste letture ispirarono la composizione di due classici, capostipiti del genere gotico: Frankenstein, o il moderno Prometeo di Mary Shelley e Il vampiro di John William Polidori. Frankenstein venne pubblicato per la prima volta nel 1818; quest’anno, dunque, ne ricorre il duecentesimo anniversario. Nel corso di questi due secoli l’influenza che l’opera della Shelley ha esercitato in ambito letterario e cinematografico e sull’immaginario collettivo in generale è stata di notevole portata. Per la prima volta ci si trovò di fronte ad un mostro dotato di facoltà speculative: in questo essere abominevole l’orrido si fondeva al sublime. Ancora oggi il mito di Frankenstein non cessa di interrogarci, spingendoci a riflettere sui limiti della conoscenza e sull’eticità di taluni progressi scientifici e non smette di ispirare artisti e scrittori. Uno degli ultimi proseliti è un racconto di Michele Mari intitolato Villa Diodati e contenuto in Fantasmagoria, raccolta di racconti pubblicata nel 2012.

Il racconto è incentrato su una immaginaria conversazione tra John William Polidori e Mary Wollstonecraft, svoltasi “la sera dopo la conclusione del certame” e racconta la genesi delle opere dei due autori da un’angolazione a dir poco insolita: Polidori e la futura signora Shelley avrebbero immaginato ben poco, traendo invece ispirazione dalla realtà a loro più vicina, ossia la vera natura di lord Byron e di Percy Bysshe Shelley. Il primo sarebbe stato l’insospettabile dissanguatore di innocenti fanciulle, il secondo un essere tenuto insieme da punti di sutura e bulloni.

Un’affermazione che Mari mette in bocca a Polidori risulta particolarmente interessante: “d’altronde tutti i veri artisti succhiano la vita degli altri, da questo punto di vista il mio personaggio è una metafora del processo creativo”; lo stesso concetto, più volte teorizzato dall’autore milanese, trova una chiara formulazione anche in un testo critico contenuto ne I demoni e la pasta sfoglia. Si tratta del capitolo intitolato Letteratura come vampirismo: tra colui che narra e il contesto circostante esisterebbe una relazione “di tipo vampiresco”, lo scrittore ‘sugge’ dalla realtà le storie che racconta, trasfigurandole. Secondo Mari “esistono diversi gradi di vampirismo letterario, dal più semplice, consistente nell’appropriazione di bocconi mondani ma non nella loro digestione, fino al più mediato, paragonabile per forza trasfigurativa ai processi della cristallizzazione e della distillazione”, d’altronde diversa può essere “la natura della cosa succhiata”. Si può, ad esempio, attingere alla tradizione letteraria (operazione spesso compiuta da Mari nelle sue opere) e divenire pertanto “vampiro dei propri padri, cioè succhiatore di un sangue già mille volte succhiato”, oppure scegliere di affondare il proprio rostro nell’oscuro e denso magma delle consolidate idiosincrasie, dei terrori ancestrali, delle ataviche fobie del lettore, “chiamato in questo modo ad assaporare il proprio stesso sangue”. Altre volte il narratore attinge invece “al lutulento botro delle proprie angosce e ossessioni. […] è proprio lì dentro che lo scrittore sa di poter trovare in qualsiasi momento il sangue che gli è necessario a impastare la farina del mondo; voyeur e vampiro di se stesso, solo risucchiando quel plasma egli diventerà quel re Mida che tutto assimilando contagia”. I lettori più affezionati di Mari sanno bene che quest’ultima è una pratica cara all’autore che con cesello d’artista è più volte riuscito a trasfigurare il proprio vissuto in racconti e romanzi di mirabile pregio narrativo e stilistico.

Villa Diodati (che vuole essere un omaggio sui generis al capolavoro della Shelley, ma non è la prima volta che Mari, in una sua opera, fa riferimento al famoso romanzo gotico, era già accaduto infatti in Di bestia in bestia in cui l’episodio del rapimento e dell’uccisione di Teresa e Carlotta ricalca quello analogo del piccolo William in Frankenstein) è chiaramente uno di quei casi in cui l’autore si fa “vampiro dei propri padri”, ispirandosi alla tradizione letteraria che più ama e tessendo attorno alle storie ufficiali, attestate storicamente, una costellazione di apocrifi (è d’altra parte questo il principio cardine su cui poggia l’impianto di quasi tutti i racconti contenuti in Fantasmagonia): versioni prive di statuto a cui solo l’immenso potere della trasfigurazione fantastica conferisce una surreale verosimiglianza. Ai margini della storia letteraria perpetuata dai canoni esiste una landa inesplorata di (im)possibili percorsi alternativi in cui la libertà dell’autore vige sovrana. Lo scrittore, unico demiurgo di una realtà altra plasmata impastando dettagli tramandati a frammenti d’invenzione, può abbandonarsi all’ebbrezza di sfalsare i piani spazio-temporali, può raggiungere gli estremi confini del possibile e facilmente travalicarli, scorrazzare per gli sconfinati campi del sogno e le orride asperità dell’incubo, consapevole di essere l’artefice assoluto di un universo le cui geometrie sono il risultato di una “molteplicità di calcoli che si sanno esatti e che conducono a proporzioni che si sanno sbagliate”, come ebbe a scrivere Marguerite Yourcenar a proposito delle Carceri d’invenzione di Giovan Battista Piranesi, altro stupefacente creatore di mondi paralleli, che nel magnifico gioco di labirinti e inganni prospettici delle Carceri seppe coniugare la solidità dei parametri matematici alla surreale levità degli scenari onirici.

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3 Commenti

  1. Sì. Allargare la macchia dell’indagine, sconfinare per estendere i confini dell’asfittica patria galera. Buon passo letterario, Antonella Falco. Concetto ineccepibile. Ma quando si è assaggiato il sangue… si poteva sconfinare di più in altri universi (lambiti all’inizio per esempio), e senza perdersi: è questa la sfida, no? Va bene, in ogni caso c’è della germinazione in Danimarca…

  2. Grazie Antonella Falco per le preziose informazioni e per la forma semplice, non supponente, disatticamente organizzata che hai scelto.

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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