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Quinto di Smirne – Posthomerica, Incipit libro I.

trad. isometra di Daniele Ventre

Dopo che sotto il Pelide cadde Ettore simile a un dio
e lo corrose la pira e terra coprì le sue ossa,
se ne restavano sopra la rocca di Priamo, i Troiani,
trepidi al valido ardore d’Eàcide d’animo audace;
come di mezzo alle selve le vacche non vogliono uscire
ad affrontare un feroce leone, anzi sono atterrite
e se ne stanno acquattate in massa tra i fitti cespugli;
essi così nella rocca temevano il truce guerriero,
nel ricordare di quanti già prima recise le teste,
quando per le correntie dell’Ideo Scamandro infuriava,
e quanti ancora abbatté fuggitivi sotto il gran muro,
come prevalse su Ettore e intorno alla rocca lo trasse,
e tutti gli altri che ancora stroncò per il mare mai stanco,
sin dal principio, da quando portava ai Troiani rovina.
Nel ricordarsi di loro, restavano dentro la rocca:
e nel frattempo d’intorno un amaro lutto aleggiava,
quasi che Troia nel fuoco piangevole già divampasse.
Ecco che Pentesilea sin dal corso del Termodonte
vasto di guadi arrivò, vestendo bellezza di dee:
doppia ragione, di guerra piangevole c’era in lei brama,
ed evitava del tutto un’odiosa e ignobile taccia,
che con accuse nessuno fra il popolo la bersagliasse
per la sorella di sangue, per cui il pentimento in lei crebbe,
per quell’Ippolita che trucidò con lancia crudele,
ma non di sua volontà, tendendo il suo colpo a una cerva:
per tali cause raggiunse la terra di Troia gloriosa.
Anche oltre a ciò meditava il suo animo valoroso
d’essere infine mondata da lugubri macchie d’eccidio
e racquietare così con offerte le fiere Erinni
che la seguirono occulte, in collera per la sorella,
sin dall’inizio: da sempre intorno alle tracce dei rei
vagolano, né è possibile al reo evitare le dee.
Anche con lei altre dodici andavano, tutte stupende,
tutte covavano brama di guerra e terribile ardore.
Erano sue servitrici, per quanto superbe di gloria:
ma sopra tutte spiccò di gran lunga Pentesilea.
Come nel cielo spazioso fra gli astri la splendida luna
quando rifulge e si mostra perciò luminosa fra tutte,
dopo che l’etere è rotto da nuvole grevi di tuoni,
solo che dorma aspra forza di vènti dal soffio impetuoso:
sì, così quella fra tutte brillò, mentre andavano in fretta.
Clonia era lì, Polemusa con lei e Derínoe non meno,
quindi anche Evandre nonché Antandre, e splendente Bremusa
e così Ippòtoe e al suo fianco Armòtoe occhi-cerulei,
quindi anche Alcíbia, nonché Antíbrote e Derimachea,
e Termodossa con loro, gloriandosi assai della lancia:
tante seguivano lei, l’animosa Pentesilea.
Quale s’avanza calando da sopra l’Olimpo mai stanco,
fiera com’è per i suoi fulgenti cavalli, l’Aurora,
l’Ore seguendola, belle di trecce, e fra tutte costoro,
anche se prive di pecche, rifulge il suo splendido lume:
tale alla rocca troiana era giunta Pentesilea,
prima com’era fra tutte le Amazzoni. Corsero intorno,
per ogni dove, i Troiani, con grande stupore, a vederla,
lei figlia d’Ares mai stanco, fanciulla dagli alti schinieri,
lei somigliante ai beati, poiché tutt’intorno al suo volto
doppia beltà, formidabile e splendida, si diffondeva
con un soave sorriso, amabili sotto le ciglia
le rifulgevano gli occhi, eguali a bagliori di sole,
ma le arrossò pudicizia le guance, e su entrambe le guance
le discendeva, vestita di forza, una grazia divina.
Erano liete le genti, benché da principio angosciate;
come allorché i contadini hanno visto dalla montagna
Iride che si solleva sul mare dai vasti cammini,
quando la pioggia divina si attendono, mentre le vigne
sono oramai disseccate e bramano pioggia da Zeus,
tardi il gran cielo si viene oscurando ed essi al vedere
segno felice del vento e dell’acqua che s’avvicina
giubilano –da principio piangevano sulle campagne:
sì, così i figli troiani, vedendosi giungere in patria
Pentesilea valorosa, con impeto tesa alla guerra,
n’ebbero gioia: ove scenda in animo d’uomo speranza
per alcun bene, addolcisce la pur lamentosa sciagura.
Solo per lei anche il cuore di Priamo, che molto gemeva,
anche fra grandi afflizioni ebbe infine lieve conforto.
Simile un uomo se molto per gli occhi malati soffriva
nel desiderio di scorgere il sacro lucore o morire,
per mano d’un guaritore impeccabile o anche di un dio
che gli dischiudono gli occhi, rivede il brillio mattutino,
certo non più come prima, e comunque ha un po’ di conforto
dopo la grande sciagura, e ancora ha gravame di pena
truce annidatosi sotto le palpebre: tale sembrava
Pentesilea valorosa al figlio di Laomedonte:
questi gioì, pur di poco, e ancora era molto angosciato
per i suoi figli caduti. In casa guidò la regina,
e le accordò grande onore, benevolo, come a una figlia
che da una landa lontana al ventesimo anno ritorni,
le apparecchiò d’ogni cibo una cena, quale i gloriosi
principi sogliono darne, se mai, sopraffatta un’armata,
offrano in festa un banchetto, gloriandosi della vittoria.
Doni stupendi le offrì, magnifici, molti promise
che ne darebbe, se offrisse difesa agli afflitti Troiani.
Ella promise un’impresa che mai spererebbe un mortale,
di sopraffare anche Achille, straziare l’armata d’Argivi,
vasta com’era, e dall’alto appiccare il fuoco alle navi:
stolta, né certo sapeva di Achille di valida lancia,
quanto spiccasse supremo in mezzo alla lotta omicida.
Ma non appena la udì, la nobile figlia d’Eezione,
sì, lei, Andromaca, allora pensò dentro l’animo suo:
“Misera te, perché parli così, la superbia nel cuore?
Per contrastare il Pelide impavido no, tu non hai
forza, egli in breve su te vibrerà l’eccidio e la strage.
Quale follia, sciagurata, hai in cuore? Ah, senz’altro ti sono
prossimi il cerchio di Morte e la volontà del Destino.
Ettore fu di gran lunga più forte di te con la lancia:
pure, anche saldo qual era, morì, troppo afflisse i Troiani
tutti, che nella città guardavano a lui come a un dio;
nobile gloria a me dava e ai parenti eguali agli dèi,
quando era vivo. Una tomba m’avesse ingoiata sotterra,
prima che fosse caduto anche lui di lancia alla gola!
Ora assistei con dolore a un inconsolabile lutto,
quando d’intorno alla rocca lo trassero svelti cavalli
del doloroso Pelide, che d’uomo legittimo rese
vedova me, quest’atroce angoscia è con me tutti i giorni”.
Disse così nel suo cuore l’Eeziona di bella caviglia
nel ricordare lo sposo, poiché gran dolore s’accresce
nelle consorti pudiche, ove mai lo sposo perisca.
Ma nel frattempo, volgendosi in orbite rapide, il Sole
scese nel corso profondo d’Oceano: il giorno finiva.

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2 Commenti

  1. “…il giorno finiva.”E in questo sventurato paese si dice che con la cultura non si mangia.

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daniele ventre
Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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