Le assaggiatrici

di Francesco Staffa

Le assaggiatrici, dieci giovani donne che ogni giorno entrano nella tana del lupo per assicurare che il grande dittatore non muoia avvelenato. Dieci cavie che attraverso il loro corpo garantiscono la salvaguardia del corpo del lupo e con esso quello del corpo sociale che lui rappresenta e ha creato. Dieci donne che ingerendo cibo permettono la vita.

È tutto qui? Ovviamente no! Questo è solo uno dei livelli del romanzo di Rosella Postorino, ispirato alla vicenda di Margot Wölk, ultima sopravvissuta delle assaggiatrici di Hitler. L’autrice l’ha scoperta leggendo un trafiletto e quando è riuscita a trovare il suo indirizzo, intenzionata a incontrarla, ha avuto la triste notizia che nel frattempo la novantaseienne era deceduta. E probabilmente, non me ne voglia la povera Wölk, proprio questa è stata la fortuna del romanzo poiché Rosella ha potuto creare una narrazione di pura fantasia che le ha permesso di andare oltre la vicenda umana e scandagliare temi ben più profondi a partire da quello del corpo. Un corpo declinato in diverse sfumature: quello femminile, prima di tutto. Sono donne le assaggiatrici, sia perché gli uomini sono distanti, a combattere al fronte, ma soprattutto perché è il loro corpo che naturalmente garantisce il futuro, la vita appunto. E così, come crescono in grembo un figlio, allo stesso modo assaggiano il cibo che sarà destinato al Führer. Sono tedesche e “i Tedeschi amano i bambini”. Sono indispensabili, sono corpi che appartengono al Reich, sono contenitori, secondo la più beffarda e crudele visione paternalista. Sono corpi che non si ribellano, ma che per sopravvivenza obbediscono, rendendosi allo stesso tempo vittime e colpevoli, collusi a un regime che nel romanzo appare ferocemente folle nelle ossessioni del suo ideatore: come quella di ripopolare la foresta di ranocchi per permettere al lupo di poter dormire placidamente cullato dal loro gracidare. Ed è questa un’altra attestazione di forza della narrazione di Postorino: ridurre il regime non tanto alla sua disumanità (evocata nelle pagine dello sterminio), quanto alla sua umana demenza declinata nelle manie di Hitler che del resto non era un alieno. La guerra è lontana, se ne sentono solo gli echi; l’ambientazione è quella rurale e apparentemente pacifica che accende con sapienza le vibranti note della melodia ripetitiva di Heimatiana memoria. Scorrendo le pagine tornano, infatti, alla mente le immagini di quell’angolo di mondo che è la “piccola patria” di Reitz dove gli artigli della Storia lentamente affondano. E allo stesso modo affondano nel romanzo dove troviamo ancora un altro corpo, quello solidale che si viene a creare in situazioni di coercizione. Le dieci assaggiatrici si dividono in gruppi: da una parte le esaltate che indossano il dirndl, l’abito tipico austriaco, in onore del capo di stato, e sono quelle che ricevono premi per via del numero di figli di pura razza ariana che sono riuscite ad allevare; dall’altro c’è chi preferirebbe non salire ogni mattina sul pulmino, le donne che casualmente si ritrovano lì a sopravvivere. Però qualcosa le accomuna: la mancanza di scelta. Del resto non è contemplato che una donna si rifiuti di adempiere al volere di Hitler (e per estensione al volere dell’uomo?). È in questo secondo gruppo che figura Rosa, la narratrice che per assonanza possiamo confondere con l’autrice Rosella.

Rosa Sauer, la berlinese, la straniera, la donna che deve compiere un rito di passaggio per poter essere accettata dal gruppo. Un rito che sancirà il suo atto di ribellione: rubare il latte dal “corpo Reich” per darlo al “corpo gruppo” di cui vuole far parte. Un atto che non andrà a buon fine perché, scoperta, Rosa sceglierà (e forse questa sarà la sua unica scelta) di gettare quel nutrimento prezioso per i figli delle altre. “Nessuno doveva berlo. Volevo […] negarlo a qualunque bambino non fosse mio, senza provare rimorso”. E Rosa figli non ne aveva perché il marito Gregor “diceva che mettere al mondo una persona significava condannarla alla morte”.

E allora scendiamo ancora di livello e abbandoniamo la solidarietà che vedrà alcune di queste donne adoperarsi per il benessere delle altre e ci troviamo di fronte al corpo di Rosa che agisce spesso in disarmonia dalla mente. I suoi desideri infatti la spingerebbero alla negazione, al rifiuto, alla ribellione, ma si comporta sempre obbedendo: alla fame, alla sopravvivenza, al regime, al volere del gruppo, dell’amica baronessa e di Ziegler, il capo delle SS che la sorvegliano. Vorrebbe essere altrove, inseguendo il suo amore Gregor, ma quando apprende che è ormai disperso, segue i dettami della carne che la spingono tra le braccia dell’aguzzino. Ed è il corpo desiderato e preso da quell’uomo che più della mente le darà la percezione di esserci. Rosa smetterà di sopravvivere e inizierà a vivere solo quando le mani di Ziegler la toccheranno.

Ma sarà proprio l’unione di quei corpi a instillare la colpa. Rosa si sente colpevole perché il suo corpo si nutre del cibo di Hitler e delle carezze di Ziegler, accettando inconsapevolmente che è comunque il Regime a darle vita.

E quando il regime crolla? Apparirà l’ultimo corpo del romanzo quello sterile di Rosa che, pur avendolo desiderato, non avrà figli. Come se essere sopravvissuta alla caduta del Reich la macchiasse di una colpa ancora più grave delle altre e per questo come una gallina Rosa “si è mangiata suo figlio” perché può succedere che “per sbaglio le galline rompono un uovo e d’istinto lo assaggiano. Siccome è gustoso, lo mandano giù”. Ritroviamo Rosa con le mani sulla pancia, la scaldano. Resta ferma, seduta. Aspetta un po’, poi si alza.

Forse alla fine si è ribellata con la mente e con il corpo. Non ha avuto figli anche se “I tedeschi amavano i bambini. Le galline mangiavano i propri figli”. Ma lei non è “mai stata una buona tedesca” e a volte le “facevano orrore le galline, gli esseri viventi”.

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