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Cometa

di Gabriele Merlini

  1. Non lavorare.
  2. Non aspettare.
  3. Non invecchiare.

Questi «i tre comandamenti dell’ebrezza» in cui ci imbattiamo a circa un decimo della lettura: fidandomi abbastanza dell’autore, li prendo per buoni.
Però l’ebrezza sembra che sia uno stadio più o meno passeggero ed è complicato esimersi dall’avere una professione, evitare ogni forma di attesa o assicurarsi l’eterna giovinezza. Allora meglio affrontare il naturale corso delle cose utilizzando altre modalità tra quelle proposte al lettore dai personaggi di Cometa, seconda prova narrativa di Gregorio Magini per NEO edizioni: ironia, disincanto, una strana forma di passione e slancio verso faccende più o meno assurde. Talvolta sobri, mediamente imprigionati nelle proprie ossessioni, riflessivi.
Gli anni dell’infanzia e l’adolescenza, la prima età adulta, il liceo, l’università, le relazioni sentimentali, le scelte occupazionali e le passioni di una variegata, caotica umanità a diramarsi nel corso di tre decadi di storia. Esperienze riconducibili sotto vari aspetti a colui che le ha messe su carta quindi poco usuali ma, c’è da augurarselo, buone per dirci qualcosa di sensato sul periodo che stiamo vivendo. (Ai tempi ci saremo aggrappati al termine Bildungsroman e forse ancora calza però, annusando la repulsione dei protagonisti di Cometa per le schematizzazioni, la pignoleria e il sarcasmo che dimostrano, meglio mettere da parte le classificazioni e andare nello specifico evitando scivoloni dei quali poi pentirsi è un attimo.)

La prima parte di Cometa si intitola Pseudologia fantastica e già questo aiuta a definire un paio di faccende degne di nota ossia l’infanzia, per chiunque desideri riviverla a distanza di anni, inevitabilmente si ripresenta sospesa, un materiale fumoso ma dettagliato, una mitologia inquietante di fatti verificabili, reali e fittizi. Un memoriale, la Pseudologia fantastica, in cui si mescolano i primi ricordi sessuali di un neonato – accaduti o meno, poco importa – alle peripezie che ogni bambino vive durante le elementari. Il rapporto con il compagno ritardato, i momenti ludici, gli spogliarelli nei bagni oppure in classe – «normalmente avremo passato il tempo a scambiarci le figurine parlando di Top Gun, e giocando a mosca cieca o al Mago Mangiafrutta. Invece…» – con dinamiche familiari complesse, filtrate dagli occhi inesperti ma non semplicistici di un preadolescente destinato nel breve a cambiare radicalmente pelle («avevo sempre odiato quelli che si vestivano come Rimbaud, tuttavia mi dissi: se c’è qualcosa che non va, non puoi cercare la soluzione nelle cose che ti piacciono, perché sono le cose che già fai. L’unico modo per superare se stessi è fare qualcosa che ci fa schifo.»)
L’entrata in scena della coscienza civica, il liceo e la facoltà – «la politica dal basso, a cavallo del millennio, era divertente» annuncia un membro del FAP o Frenocomio Autogestione Perenne – poi la laurea. L’abbandono del nido, l’epopea dei viaggi e le salutari musate in giro per il continente. «Mi restava solo una certezza: il futuro era nell’Europa. Annunciai al nonno che partivo per il Gran Tour della fica. Mi diede un bacio in fronte e mi alzò la paghetta da ottocento a mille e duecento euro al mese.»

Anelli di crescita, la parte successiva del testo, è insieme uno sviluppo della Pseudologia fantastica e una svolta, specie per il peso crescente di tematiche personali e al tempo stesso universali: computer, MS-DOS, programmazione, Lotus 1 2 3 – «perché si chiamano dischetti se sono quadrati?» –, videogiochi (non male l’esergo da Monkey Island: «premi CTRL + W per vincere», efficace metafora del presente.) Attorno ai protagonisti il mondo dei progressivi miglioramenti tecnologici che dal Commodore 64 ci hanno condotto alla rete, ai social e le app, entità immateriali vive e pulsanti utilizzabili come grimaldello per forzare nella storia il limite tra reale e fantastico e, persino nei brani in cui Star Trek, Wing Commander, Space Quest III potrebbero apparire semplici fondali ludici, eccellenti strumenti per delineare il pollaio dei trenta-quarantenni cui ancora abitiamo, un virtuoso mix tra nostalgia del passato e proiezioni nel futuro.
Frasi che spingerebbero qualsiasi lettore a fermarsi pensieroso cercando un dizionario adeguato – «scrisse uno scraper in grado di quantificare l’impatto attrattivo/repulsivo generato da un commento su Slashdot, mappando i grappoli di thread su un toy model gravitazionale semiclassico» – ma che in Cometa funzionano per una caratteristica ammirevole sebbene rara nella gran parte delle lettere nostrane: la certezza di quanto prendersi troppo sul serio sia uno sport assurdo e, al netto delle disquisizioni, ancora l’ironia rimanga cosa buona se usata con cervello.
(«La regola che mi sono dato è non cercare mai di fare ridere» mi spiega Magini, a occhio stiracchiando le gambe sotto il microscopico tavolino. «Cioè sfrutto il mio umorismo involontario.» Ovviamente non gli credo. «Me l’hanno detto gli altri che Cometa fa anche ridere, io non me ne ero accorto quando scrivevo.» Piccola pausa. Temo sia evidente il disappunto. «Diciamo che quando mi hanno fatto notare che era un libro buffo ho iniziato a valorizzare gli aspetti buffi, ma senza capire a mia volta perché erano buffi.»)

Ironia e ricerca, plot solido e flusso di coscienza, Cometa sceglie di misurarsi con più registri e ne esce meritoriamente integro; un romanzo ancorato al reale ma non solo – il virtuale, come ogni ossessione, può inglobare e cambiare prospettive salvo poi risputarti a terra con violenza – diretto e ricercato (i capitoli rimanenti si chiamano Epidharmide, Storia di un corpo umano e Entropussy.) Un lavoro nel quale la rilettura dei modelli letterari – il memoir che sfocia nell’immaginifico, le digressioni, le contaminazioni new-weird e il grottesco humour delle bizzarro fiction anglosassoni – non è puro esercizio di stile ma punto di partenza per sperimentare forme di narrazione che, almeno da queste parti, davvero suonano nuove e, in periodi di prove letterarie sbandierate ovunque come rivoluzionarie, senza dubbio preziose.

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