Armand Robin, il poeta che sfidò la propaganda

di Leonardo Recanatini Satriano

C’è qualcosa di ferocemente romanzesco nella biografia di Armand Robin, nella parabola che lo condusse dagli Champs Élysées della Bretagna rurale di inizio secolo, atavica e analfabeta, attraverso l’incubo espressionista dei kolchoz russi, sino al palcoscenico della Repubblica di Vichy. La vita contadina, le perversioni dello stalinismo, l’odore ammuffito della Francia di Petain, gli ammiccamenti alla Résistance e al fronte anarchico: nella vita di Robin sono visibili in controluce tutte le stigmati del Novecento europeo, tutte le sfaccettature tragicamente necessarie di quell’enorme rito di passaggio che ha traghettato il continente dalla Belle Époque all’età dell’algoritmo. Una biografia, dunque, scandita da tempi e luoghi precisi, insostituibili, in cui Robin era coscientemente immerso, e che permeano fino in fondo la materia porosa dei suoi testi, recentemente pubblicati dalla Giometti&Antonello di Macerata nel volume L’indesiderabile. La falsa parola e altri scritti.

Tutte le sfumature della vita di Robin vengono rispecchiate dai suoi lavori, a cominciare dalle due principali attività che l’autore svolse nel corso della sua vita, un duplice centro di gravità intorno al quale ruota tutta la sua opera: l’attività di traduttore e quella di radioascoltatore dei bollettini di guerra esteri, ufficialmente per il Ministero degli Interni del governo collaborazionista ma, da antifascista dichiarato (celebri le sue lettere al vetriolo inviate alla Gestapo), anche per gli oppositori del regime in clandestinità.

Una parte cospicua dei suoi scritti è dedicata ad una critica letteraria sui generis, in cui la trattazione di autori specifici maschera una riflessione universale sul significato del linguaggio, della traduzione, della poesia, facendosi essa stessa letteratura: Joyce, “outlaw of Time and Space” che “per amore d’un introvabile assoluto, finì per considerare relativo ogni assoluto già conquistato”; Mallarmè, che sognava del Libro Unico “senza lettori tranne forse qualche dio bianco come il marmo o il margine del foglio” e che incarnò “il momento in cui la civiltà occidentale avrebbe potuto diventare una sorta di civiltà cinese”; e poi Pasternak, Valery, Majakovskji, fulgide stelle del firmamento letterario in cui Robin volle dissolversi.

“Fuggendo l’inferno, andando di era in era, lottando contro me stesso ad ogni passo, mi feci ogni grande poeta di ogni Paese in ogni lingua. Raggiunsi un Eden anteriore alla torre di Babele; laggiù tutti parlavano un’oltre-lingua; vomere allegro la mia anima inciampava di ceppo in ceppo per tutta la lunghezza della parola incorrotta.” In Robin, la traduzione sembra perdere ogni connotazione di passività e di subordinazione rispetto all’opera originale, per tramutarsi in un atto iper-creativo, in una sorta di sciamanesimo poetico, in una fuga forsennata dalle parole e soprattuto dall’Io; l’unica via che conduce alla salvezza consiste nell’esiliarsi da sé stessi sino a smarrirsi nel pleroma della Langue: “Senza parola, io sono ogni parola; senza lingua, sono ogni lingua. Ondate di voci incessanti ora possono affiorare in me […] Mi distendo in una spiaggia docilissima e immensa dove dei vasti esseri collettivi, nervosi e tumultuosi, approdano in un gemito elementare. Da tutti i linguaggi confusi insieme sento comporsi una sorta di non-linguaggio indicibilmente rumoroso; è il non-linguaggio che ascolto nei suoi sforzi supremi mentre tenta di atterrare.”

Complementare ai testi di carattere letterario, troviamo una peculiare saggistica di stampo politico-sociologico, esemplificata dallo scritto che dà il titolo alla raccolta. La falsa parola può essere descritto come un trattato sulla propaganda, frutto del sopracitato mestiere dell’autore: dall’ascolto notturno delle radio di tutto il mondo nelle lingue più disparate scaturisce una particolare teoria dei mezzi di comunicazione di massa, delle loro tecniche e del loro linguaggio specifico. Concentrandosi in particolare sulle trasmissioni delle radio staliniane, Robin individua nella propaganda il principale nemico della coscienza individuale: spietata, martellante, incessantemente all’opera, essa ha come unico obiettivo quello di svuotare gli uomini dal pensiero e di lasciarli in uno stato di “morte in vita”.

Ora, è possibile, anzi probabile, che tali questioni al giorno d’oggi suonino acclarate; ciò che tuttavia rende La fausse parole un testo unico nel suo genere è lo stile con cui la tematica della “critica della comunicazione” viene affrontata, lontanissimo da qualsivoglia approccio scientifico o sobriamente accademico alla materia. Attraverso una prosa convulsiva e febbricitante, lo scontro tra Pensiero e Propaganda assume una portata cosmologica, si fa eterno, si muta in una battaglia tra potenze fantasmatiche combattuta nell’Etere della coscienza: “Nel corso del mio tête-à-tête con le radio del mondo, mi capita di provare la sensazione, come per via medianica, di un contatto con i temibili esseri psichici che assediano il pianeta, ossessionano l’umanità, cercano interi popoli di menti da soggiogare, divorare, saharizzare. In tali momenti, l’insieme della propaganda riversata simultaneamente su ogni Paese, di giorno e di notte senza mai un momento di interruzione, mi sembra che si trasformi in uno stormo di uccelli rapaci impazienti di piombare sopra milioni e milioni di cervelli. Al di là delle parole, percepisco le grida dei carnivori della mente in cerca del pasto”.

Le parole della propaganda si svincolano dal loro ruolo originario, quale che sia, sfuggono dal controllo di chi le ha evocate, divengono entità tanto mortifere quanto incorporee: “Gli esseri che sostanziano la propaganda vivono come arcangeli duri e insostituibili, impietosi nei riguardi degli stregoni scientifici che li hanno originati; in breve tempo essi riducono i pavlovizzatori a dei riflessi condizionati […] La parola staliniana non ha più bisogno di Stalin, e si beffa di lui.” Quella contro il “Verbo assassino” è una lotta biblica e lovecraftiana, dove la principale minaccia proviene da quegli “assassini delle anime [che] sognano di instaurare sull’intero secolo la dittatura della psicofagia”. Gli unici in grado di opporsi a tutto ciò non saranno né gli intellettuali, né i borghesi, ma gli “uomini molto semplici”, “irriducibilmente consustanziali alle loro parole”, individui vagamente messianici dotati di “una purezza di qualità metafisica”, che “si rifugiano nella propria, più pura interiorità.”: dall’opera degli “spiritualisti negativi del Politburo” sorge, inaspettato, un “insostituibile aiuto per la formazione di una spiritualità positiva”.

È innegabile che Robin abbia svolto gran parte delle sue attività in solitudine, che si trattasse di trascrivere i bollettini di guerra britannici o di tradurre Omar Khayyám; eppure, quella in cui egli si rinchiuse fu una torre d’avorio estremamente affollata, strabordante di voci e immagini, popolata da poeti, dittatori e contadini, un non-luogo dove egli combattè la sua battaglia solitaria e decisiva contro gli “sparvieri del pensiero”. Robin impiegò ogni istante della sua vita alla ricerca della suprema forma di liberazione dal linguaggio colonizzatore, approdando ad una scrittura che è mistica laica; intuì le meccaniche del suo tempo – “Mi appare chiaro il vero carattere della guerra di questo secolo: guerra nel cervello, guerra contro il cervello” – e fu profetico nel tratteggiare il secolo che andava formandosi come battaglia tra il “qualitativo” e il “quantitativo”, embrioni di ciò che oggi chiameremmo dimensione umana e big data: “Se vuole riposarsi, un mondo simile ha bisogno di vari secoli d’assoluta vacanza, ha bisogno di vacare per un millennio nell’assoluto. Spinti da quest’estrema rovina, invano degli scienziati preparano vicino a noi regni dai quali, a partire da un’esistenza desensibilizzata, algebrizzata, mutata in relazioni numeriche, sorgeranno svaghi di secondo grado”. Correva l’anno 1953.

 

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[Articolo apparso con il titolo “Chi è Armand Robin, il poeta-giornalista che odiava la propaganda” su  “Il dubbio” del 7 settembre 2018]

 

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