Home free

di Gianluca Veltri

“Sono tutti vittime delle circostanze
Di antiche campane che recano
Tutta la paura del mondo, timida e nuda

[…]

Ma i conigli hanno abbandonato le loro tane
Si sono riconsegnati alla terra”

(David Sylvian “Gone To Earth”)

Chiedo scusa se parlo di Maria, cantava Giorgio Gaber. Era una maniera per schermirsi, quando il suo tarlo tornava a galla, nel momento in cui quella cartina di tornasole ricompariva a reclamare la sua visione della vita. Come i saggi di Roland Barthes, che pretendevano di vedere il mondo attraverso una fava.

Ognuno ha la sua finestra affacciata sul mondo, la sua feritoia sulla vallata, e David Crosby è la mia.

La vita è un romanzo, dice Alain Resnais. Come l’avrebbe raccontata, lui, la vita di Baffo Van Cortland alias David Crosby? Riemerso da varie vite precedenti come in un serial che però era la sua esistenza, avviluppato sulla scala a spirale del proprio inferno personale. L’ho riascoltato in un disco registrato dal vivo nel 1986 a una radio americana. Si intitola, quel disco privo di grazia, “Silent Harmony”, ed è stato pubblicato solo nel 2017. Il 1986, l’anno a cui risale, è il nadir di David Crosby: sono trascorsi quasi dieci anni dal disco della barca con Stills e Nash: ogni cosa si è rabbuiata, si è spento il sole californiano, tutto è passato e futuro niente. Deriva, droga, carcere. Ascoltare “Silent Harmony” non è bello: quella glossa – “armonia silente” – contenuta nella celestiale “Guennevere” rimanda a tempi – il 1968 – in cui Crosby era al centro del suo mondo, ispirato come un poeta pieno di luce e ascoltato come un profeta o un guru, avvolto in un mantello di sapienza e carisma. Cos’era diventato, dopo? Un attaccabrighe di periferia; un tossico collerico che stava distruggendo la sua mente e il suo fisico. Un uomo infelice, pieno di rammarico e risentimento. Nel live del 1986, Croz è sovraeccitato, presenta in modo logorroico le sue canzoni, splendide ma suonate in modo approssimativo, con un tocco greve sulle corde. Non è più al centro del suo mondo; o forse è al centro di un altro mondo – brutto, buio, sbagliato, pieno di rabbia e rimpianti.

Dopo il suo ritorno sulle scene con “Oh Yes I Can” nel 1989, diciotto anni dopo “If I Could Only Remember My Name”, a Crosby capitavano un sacco di cose interessanti, tra le quali, più di tutte, riscoprire il figlio perduto James Raymond, destinato a diventare alter ego artistico inseparabile. Poi faceva incontri, con artisti già acclamati che volevano collaborare con lui, e con giovani talenti che lo consideravano il loro mentore.

E siamo ai giorni nostri.

È il 2014, e Crosby ha pubblicato a suo nome soltanto tre album:

“If I Could Only Remember My Name” (1971);

” Oh Yes I Can” (1989);

“Thousand Roads” (1993).

A partire da quell’anno – ha 73 anni – il songwriter californiano pubblica quattro album in un lustro scarso, fino al 2018. Più precisamente:

“Croz” (2014);

“Lighthouse” (2016);

“Sky Trails” (2017);

“Here If You Listen” (2018).

Considerando che “Croz” esce a oltre venti anni dal precedente album, è stupefacente registrare la freschezza senile e la felicissima prolificità di un musicista proverbialmente parco: tre dischi in quarantatre anni, quattro nei successivi cinque. Una parabola unica; una doppia anomalia. Ma adesso arriviamo all’incredibile: perché questi quattro album di un artista ultra75enne già leggendario sono tutti e quattro di una bellezza ispirata, stupefacente, abbagliante. È come se Crosby si fosse conservato tanta grazia a bella posta. Come avesse serbato dentro di sé e messo al sicuro una silente armonia, un universo intatto, un pozzo di perle, nascondendole ad arte nei giorni bui, per poi esporle in serie.

Di solito nelle ultime uscite discografiche dei grandi vecchi, dei mostri sacri, ci accontentiamo di qualche zampata, di un lampo antico in mezzo alla mediocrità inevitabile del presente: il passato parla per loro, non pretendiamo di più, ci basta avere un lavoro nuovo che testimonia la loro vitalità, la loro esistenza. Con David Crosby non funziona così, è tutto radicalmente diverso: la sua carriera ellittica si è popolata di capolavori con i Byrds (cinquant’anni fa!), con Stills, Nash e Young; con i tre primi album usciti a tanta distanza l’uno dall’altro. Long Time Gone. Mentre pensavamo a lui come a un vecchio bonario che aveva recuperato almeno la salute e la voglia di vivere, lui sforna quattro capolavori. È un artista che ha un mondo dentro di sé, ha il mondo dentro di sé, e non smette di raccontarcelo. Un’anima traboccante che non cessa di meravigliarci.

Il terzo capitolo di questo poker (“Sky Trails”) si chiude con uno dei suoi pezzi più meravigliosi. Si intitola “Home Free”, una glossa che può significare molte cose: “sicuro di farcela”, o anche “fuori pericolo, in salvo”. Crosby canta delle notti di pioggia e della splendida felicità di avere un tetto sopra la testa; della necessità di non smettere mai di ripetersi “come sono fortunato”. Si sente “come un neonato avvolto in una coperta che non ha niente da temere”; come “un albero che sa sempre dove cadranno le sue foglie”.

“Home Free” è il canto di un uomo che sa cosa significa non avere casa da nessuna parte; che è stato randagio e reietto, senza pace. Un uomo che per anni si è sentito ben diverso da un neonato avvolto in una coperta. È un brano, questo, che contiene la parola home, casa. In musica, quando si torna all’accordo principale del brano (l’accordo di tonica), si dice che l’armonia “torna a casa”, diventa tranquillizzante, ossia riporta tutto a posto, si pacifica, rassicura l’ascoltatore. L’accordo di tonica di “Home Free”, quello che dovrebbe “riportare tutto a casa”, contiene intervalli armonici estremamente dissonanti (è un accordo di sesta nona), che lasciano aperte sospensioni larghe e inquietudini profonde. Anche mentre canta la meraviglia di sentirsi a casa, di percepire se stesso aggrappato alla sua terra, Crosby non rinuncia all’ambivalenza delle sue note oblique. Non è mai rotondo, sarebbe troppo facile: è la sua cifra, è la sua grandezza.

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4 Commenti

  1. Se fosse rotondo sarebbe perfetto. Se fosse perfetto sarebbe noioso. Se fosse noioso non sarebbe lui.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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