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La macchina del vento

di Edoardo Zambelli

Wu Ming 1, La macchina del vento, Einaudi, 2019, 344 pagine

Wu Ming 1, qui in un suo progetto solista, riprende e prosegue il discorso che assieme al resto del collettivo aveva già intrapreso (almeno in parte) con L’armata dei sonnambuli e che ha trovato poi pieno compimento con il recente Proletkult. Un tipo di romanzo, cioè, che pur non rinunciando al suo carattere “storico”, vive della contaminazione con altri generi, in questo caso particolare con la fantascienza e la letteratura fantastica.

La vicenda raccontata ne La macchina del vento occupa un arco di tempo che va dal 1939 al 1943, ed è ambientata a Ventotene, l’isola che fu confino di molti degli oppositori al regime fascista. Qui, in una narrazione continuamente scandita dall’appello ai confinati – una specie di ritornello -, i fatti e i personaggi storici, sempre frutto di una rigorosa documentazione, convivono quindi con invenzioni che oltrepassano la realtà storica, e che vanno – come già detto – a fondersi con tematiche e processi narrativi che appartengono ad altri generi letterari.

Coi discorsi di Colorni non si va da nessuna parte. C’è una lingua del giorno e una lingua della notte. Pontercoboli vi ha parlato nella lingua della notte, che Colorni sta cercando di tradurre nella lingua del giorno. Il viaggio nel tempo di cui parla Pontercoboli è un’esperienza dionisiaca, mentre Colorni è apollineo da fare schifo. Ma consolatevi, sono sicuro che Pontercoboli stesso compie un errore simile: anche durante il giorno continua a parlare nella lingua notturna, che è fatta di visioni, credendo di usare la lingua diurna, quella della ragione.”

La citazione sopra, tratta dalla seconda delle tre parti di cui il libro si compone – esclusi antefatto ed epilogo -, è significativa dell’anima profonda dell’opera di Wu Ming 1. Infatti, l’intero romanzo vive proprio di questa contrapposizione fra una lingua del giorno e una della notte, fra realtà e illusione. Tutto si svolge nel segno di una doppia allucinazione: quella di Giacomo e quella di Erminio, che del romanzo è anche narratore. Il primo è un fisico, ha fatto parte del gruppo di Enrico Fermi, e sostiene di aver creato – influenzato dal romanzo di H.G.Welles – una macchina del tempo. Macchina del tempo che, tra le altre cose, è la causa della scomparsa di Ettore Majorana, che ha voluto sperimentare l’invenzione in prima persona e si è perso chissà dove nel tempo.

Il secondo, invece, “rilegge” il fascismo alla luce di una tesi di laurea mai terminata sui miti greci nei mari d’Italia. Diverse parti del racconto hanno per protagonisti proprio gli dei, divisi tra fascisti e antifascisti, che seguono e in qualche modo cercano di intervenire negli accadimenti dell’isola. Difficile dire se tali segmenti narrativi siano fatti che accadono davvero o siano solo immaginazioni del narratore, ma poco importa, il fascino del libro sta anche nel non sbilanciarsi mai a spiegare ciò che succede – suggerisce, questo sì, ma senza mai dire. In questo senso, l’autore si fa da parte, lasciando tutto il divertimento al lettore.

È dall’incontro/scontro fra questi due personaggi – Giacomo ed Erminio – che la storia prende forma. Le teorie di Giacomo scuotono una quotidianità fatta di camminate e discorsi fatti sottovoce nelle camerate, di soprusi subiti dagli ufficiali del regime, e dai mille stratagemmi che i confinati inventano per aggirare le severe regole del confino.

– Fa l’ora sbagliata…- osservò Giacomo. Il quadrante segnava le cinque.
Noialtri sorridemmo, alcuni fecero spallucce passando oltre.
– Torna sempre a farla, – spiegò qualcuno. – Non importa quante volte lo riparino.
– Ci si sono incaponiti più artigiani, ma niente, – aggiunse un altro. – Perché continui a rompersi è un mistero.
Giacomo fissò il quadrante e si chiese: è in ritardo di due ore o in anticipo di dieci? Fa ancora le cinque o già le diciassette? Oppure le diciassette di ieri?

Simbolo centrale del racconto è l’orologio civico, un orologio capriccioso, che segna sempre l’ora sbagliata, avanti o indietro è impossibile dirlo. In realtà (ma parlare di realtà in questo caso è un azzardo), Giacomo è convinto che non sia l’orologio a essere in errore, ma che sia piuttosto la percezione del tempo sull’isola a essere un errore. O meglio, per dirla con altre parole, Giacomo è convinto che l’intera isola sia un’anomalia temporale di cui l’orologio è semplicemente il sintomo più evidente.

Ecco, forse è questa la vera macchina del tempo: l’isola. L’isola con quel crocevia di tribù politiche che cercano di pensare l’Italia dei tempi a venire. Sono loro, con tutti i progetti, i sogni e i disegni di un futuro migliore, ad essere in qualche modo avanti rispetto a un’Italia ancora confusa perché troppo occupata dal tempo oscuro del regime.

La macchina del vento è un libro appassionante, leggero quando si abbandona a parentesi comiche, e terribilmente serio nella sua riflessione storica – riflessione che, ovviamente, rimane su tutto il vero motore dell’opera. In un’esecuzione perfetta, riesce a essere insieme racconto politico e racconto d’avventura, racconto fantastico e racconto di fantascienza. Sostenuto da un piacere del narrare che non viene mai meno, mette in campo la storia di tutto ciò che sono state le speranze della Resistenza, e ragionando sul tempo come elemento narrativo diventa per noi che leggiamo oggi un importante monito su quanto importante sia il suo scorrere. E soprattutto: il ricordare. Sono tempi, questi, in cui c’è bisogno di libri così.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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