La poesia ha forse un occhio di troppo

di Adriano Ercolani

 

 

A chiunque sia nato dopo il 15 maggio 1871 l’accostamento dei concetti “poesia” e “veggenza” non può non evocare la celebre lettera scritta in quel fatidico giorno dal sedicenne Arthur Rimbaud all’amico Paul Demeny; per l’appunto, la celeberrima “Lettera del Veggente” in cui la mente incendiaria del giovane poeta, destinato a divenire icona universale del maudit, sancisce un comandamento inciso nelle coscienze di molti autori a venire: “«Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all’ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste!».

Eppure c’è molto altro da dire a riguardo, prima e dopo delle memorabili parole del poeta ribelle per antonomasia.

Stefano Riccesi, nel suo Veggenza – le radici spirituali della creatività (Edizioni Porto Seguro) lo fa, e lo fa molto bene, cercando, trovando e offrendoci in tutto il suo splendore il Filo d’Oro di una conoscenza occulta, che va da l’Orfismo a Yeats, da Giamblico a Jung, da Pitagora a Hillman, attraverso giganti della spiritualità come Rumi e William Blake, messaggeri illuminati come Giordano Bruno e Jacob Böhme; un percorso di rivelazioni, condotto sulle orme sapienti di Elémire Zolla (che considerava Rimbaud “la parodia di una sapiente”) e Henry Corbin (e la sua fondamentale nozione di mundus imaginalis) fino a risalire alle sorgenti vediche.

Non è facile riassumere e divulgare correttamente due millenni e mezzo, almeno, di tradizione esoterica, senza inciampare in trappole consuete: un borioso pontificare, una vaghezza urticante direttamente proporzionale, un richiamo continuo quanto generico a una nebulosa Tradizione (concetto nobile ma spesso preda di pericolose deformazioni ideologizzanti).

Riccesi compie un’opera notevole: comporre un discorso coerente e progressivamente rivelatorio attraverso un mosaico armonioso di spunti illuminanti, realizzando un testo dalla eccezionale scorrevolezza, considerata la profondità non comune dei temi affrontati.

Ma, chiariamoci, il testo non è solo un Bignami godibile dell’esoterismo classico; l’autore, certo, non è il primo a esplorare e collegare con intelligenza diverse tradizioni, dal Sufismo al Neoplatonismo, dalla Gnosi alla Qabbalah: i riferimenti a Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e Giordano Bruno sono espliciti.

Ciò che è originale, o meglio fresco, vivo, appassionante è l’approccio a questi abissali ambiti di riflessione.

Nessuna pedanteria a soffocare la meraviglia, nessuna presunzione a uccidere lo stupore: l’evocazione del maestro del dubbio Jorge Luis Borges è garanzia dell’assenza di ogni esaltazione fanatica.

Dal mito di Diana alla potenza archetipica dei simboli nei Tarocchi fino al Libro Rosso di Jung, il fiume carsico della conoscenza esoterica prorompe in superficie nelle fonti maestose dei grandi iniziati, tra cui amiamo menzionare William Blake, definito nel libro “l’incarnazione perfetta dell’archetipo del veggente”. Sarà Yeats a rendere giustizia al poeta mistico, e alla poesia mistica in sé.

Il più grande pregio del libro è condurre il lettore, procedendo per paradossi illuminanti, al riconoscere come Tutto sia una costante teofania, una ininterrotta manifestazione di Verità e Bellezza da contemplare.

Ecco un brano significativo, che distingue tra immaginazione come fantasia (nel senso negativo conferito da Gurdjieff, ad esempio) e visione: “Corbin introduce la distinzione tra immaginario e immaginale: il primo è il luogo dell’invenzione che segue i capricci dell’ego, il secondo è il piano delle creazioni teofaniche, dell’intuizione dei princìpi, quello in cui i visionari di ogni luogo ed epoca collocano l’esperienza delle forze che tutto guidano. Un simbolo vivo, dotato di carica magica, di numinosità, ci cattura e si lascia riconoscere in profondità quando accettiamo di seguire una visione dove essa vuole condurci e non dove noi dovremmo andare. L’immaginario, o fantasia, è in sintesi autoreferenziale. La visione è invece un riflesso dei misteri dell’essere nella percezione soggettiva”. In tutto ciò la poesia è la forma di conoscenza, prima che artistica, intimamente connessa alla veggenza, “un sentiero di ritorno alla divinità”, citando una frase di Riccesi riferita a Blake, che è però perfetta descrizione dell’itineriarium dantesco ne La Divina Commedia; rifacendosi agli studi di Tonelli Sulle tracce della sapienza, che mostrano le evidenti “origini greche della poesia occidentale e mediterranea, che sorge come azione rituale, mescolandosi con la musica e la danza, e si intreccia col mito”, l’autore giunge a conclusioni importanti: “La veggenza, la himma, è vita che nell’unità del cuore divino e umano si compie. Per questo la magia e la poesia sono intrinsecamente risanatrici della nostra sensazione di separazione dall’infinito: esse ci insegnano che il piano personale trova la sua strada quanto torna ad accogliere e onorare quello transpersonale. Ma anche che c’è un bisogno di ispirazione che non tollera ordini precostituiti e va oltre ogni modello con il quale vorremmo forzare la vita”.

E il pensiero va commosso, à rebours, a Dino Campana, all’ultimo Nietzsche, al sublime Hölderlin e al suo commento sul Re Edipo, cieco, che “forse ha un occhio in più”.

 

2 Commenti

  1. Giusto qualche considerazione. Con le sue intuizioni e visioni-ora esaltando ora esecrando – Rimbaud è evidentemente giunto oltre, bruciando le tappe nel giro di quei faditici quattro anni,lasciandoci tra la concitazione di una fuga e ľaltra un concentrato di poetica e di poesia. “La visione è stata acchiappata in tutte le salse” insomma, per superare con determinazione il proprio Io Poetico, fino all’abbandono definitivo della stessa poesia che non aveva più alcuno scopo di esistere nella sua pur breve e tormentata vita.h

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Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. È poeta, scrittore, regista, performer e redattore di «Nazione indiana». Ha co-diretto la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci(Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli), La specie storta (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano), L’Ufficio delle tenebre e il saggio Fossili di rivolta. Immaginazione e rinascita (Tlon Edizioni). Ha curato il progetto Ogni creatura è un popolo (NERO Editions)e per Argolibri, l’inchiesta letteraria La radice dell’inchiostro. La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. Con le sue opere ha partecipato a festival e spazi come Biennale Venezia College, Mostra internazionale del nuovo cinema, Rencontres internationales paris/berlin, Centrale Fies. È il vincitore di FONDO 2024 (Santarcangelo Festival), uno dei direttori artistici della festa “I fumi della fornace” e dei curatori del progetto “Edizioni volatili”. È laureato al Trinity College di Dublino e dottorando allo Iuav di Venezia.
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