Do you remember Sanremo?
Il fantastico queer di Achille Lauro: uno sguardo sul pubblico
di
Olga Campofreda
La sera della finale di Sanremo ho riunito un mucchio di amici con la scusa del mio compleanno e ho sistemato il mio laptop ben visibile davanti al divano e alle sedie. La verità è che adoro da matti guardare il festival da quando sono a Londra, con persone che non conoscono la cultura italiana o che la conoscono dall’esterno, con più o meno stereotipi, ma sempre con uno sguardo nuovo, che solletica la mia italianità più scontata. Senza neanche troppe discussioni siamo stati tutti d’accordo, alla fine, sul fatto che ad Achille Lauro andasse conferito il premio come miglior performer: quello che avrebbe meglio rappresentato l’Italia all’Eurovision, spettacolare come Renato Zero o David Bowie, provocatore come Madonna, istrionico come Lady Gaga o Beyoncé, perfino. Certamente non un’avanguardia mondiale, ci siamo detti, ma quantomeno Lauro ha aperto la finestra della sua stanza e ha respirato un po’ i tempi che corrono. Sì, ma dove?
È stato solo dopo qualche giorno dalla chiusura del festival che mi sono resa conto che esiste ancora un posto dove un artista come Lauro – nonostate tutti i precedenti – possa essere non capito, violentemente criticato e deriso. Quel posto purtroppo è l’Italia.
Sull’elemento dello spettacolare in Lauro già si è detto molto e piuttosto bene nell’articolo di Daniele Cassandro su Internazionale, che ha parlato di un artista abile a non lasciarsi usare dalla televisione, usando lo schermo per mostrare “lo spettro delle possibilità”, della fluidità di genere, della queerness. La bellezza di questa performance, aiutata certamente dai costumi di scena di un genio della moda quale Alessandro Michele, ha tuttavia fatto sì che la nostra attenzione, catturata dal palco, non badasse più di tanto alle reazioni di chi, con noi, stava a guardare.
Sanremo non è stato tanto rappresentativo dell’Italia di oggi negli artisti che ha presentato alla kermesse, quanto nel pubblico che quella kermesse ha commentato sui social e nei bar. Quelli che “Lauro ha anticipato il carnevale”, quelli che “capisco la performance, ma la vita privata tienila per te”, quelli che “è il festival della musica e non dovrebbe esserci altro”. Inizialmente pensavo fosse una questione generazionale, e sarebbe stato forse ancora (benché poco) giustificabile. Mi ero perfino stupita di come, proprio la generazione dei sessantenni, già esposta al linguaggio di Bowie, del glam rock, di Madonna, etc, avesse ancora tale candore da riuscire a scandalizzarsi per i quattro minuti sul palco dell’Ariston. Tuttavia non si tratta della solita messinscena dei boomer contro millennials o gen z. Mi sono trovata a discutere sull’argomento via facebook anche con miei coetanei che ugualmente attaccavano l’ex trapper come artista e relativa simbologia della performance.
Il discorso su Lauro mi ha aperto gli occhi su quanto il gesto di questo artista abbia avuto senso nell’Italia di oggi. L’Italia dell’eteronormatività che attacca quando si sente attaccata dall’altro da sé, ovvero quando altri modi di stare al mondo in quanto individuo si rendono palesi e semplicemente dicono “io esisto”. L’Italia che viene costretta a farsi delle domande su questioni che si erano date per scontate, quali le strutture piccoloborghesi nelle quali le nostre vite sono inserite e dalle quali sono regolate (trovati un lavoro, sposati, fai una famiglia, fai figli anche se non te li puoi permettere che tanto Dio ci pensa, dunque vai in chiesa). Vedo una similarità incredibile tra le dinamiche innescate dal queer e la definizione di fantastico data da Todorov in letteratura. Il fantastico, dice il narratologo, dura poco più di un’esitazione: quando non riesci a spiegarti un fenomeno ma poi arrivi a collegarlo a leggi razionali (strano) o a forze soprannaturali (meraviglioso). Il queer suscita scandalo perché dura molto più che un’esitazione; genera frustrazione in chi lo guarda, non lo capisce e si sente oltraggiato dalla sfacciataggine di queste identità che non aspirano affatto ad essere incluse, accettate o giustificate. La cultura eteronormativa non sa e non può spiegarsi il concetto di binarismo di genere con il proprio linguaggio familiare e strutturato, con il proprio senso finalistico votato al culto del bambino. La frustrazione genera rigetto, rifiuto. Incomunicabilità ben rappresentata dai fischi: il rumore di chi dissente ma non sa argomentare.
Più che per la sua performance Lauro va ricordato per le reazioni che ha suscitato nel pubblico italiano, per averci mostrato che c’è ancora molto lavoro da fare culturalmente e umanamente, nel mondo dello spettacolo e fuori. È in questo contesto allora che la sua performance a Sanremo si trasforma in un’affermazione politica, in un gesto impegnato: “Me ne frego” significa anche che cercare l’integrazione è l’ultimo degli obiettivi, perché integrato significa sempre di più omologato e suscitare scandalo pubblicamente e con gioia, proprio come nei migliori Pride, potrà forse servire a far cadere qualcuno dalla poltrona mostrandogli quanto grande e differente appaia la stanza dal pavimento.