Per amor di parabola. Appunti su Marcello Barlocco
di Andrea Balietti
Altezza
Un uomo si ritrova in uno spiazzo a picco sul mare, prende un sasso e lo lancia giù dal dirupo. L’immagine della parabola tracciata dal volo gli appare così seducente da persistere nella sua mente come un’ossessione, trasformando quel suo gesto in un bisogno, in una fame che sarà saziata soltanto gettando il padre e, infine, se stesso.
La spontanea appetenza che si impossessa del protagonista di questa storia, e che troppo facilmente definiremmo sadica, sembra battere con estrema esattezza e rigore il ritmo crescente di questo breve racconto dal titolo “L’amante di parabole”, ma si direbbe essere altresì la forza che agita la narrazione stessa, il motore che fomenta la vorace scrittura di Marcello Barlocco.
Proprio come nella vicenda della parabola, anche in altri racconti di questo autore qualcosa viene ucciso, ferito o, quantomeno, perduto: potrà trattarsi di un occhio o di un piede, di un cucuruomo o di un urugallo, di denaro, della vita o della sanità mentale, ma assisteremo pur sempre a un sacrificio.
Negli antichi riti pagani esseri e beni venivano immolati per attivare riconnessioni con la dimensione del sacro; negli scritti di Barlocco, da considerarsi anch’essi veri e propri riti, si sacrifica per amor di una parabola, intesa come mero e limpido luogo geometrico. Ebbene: non c’è alcuna differenza. In entrambi i casi ciò che viene a determinarsi è una “dimensione altra di separazione, dimensione dell’eterogeneo che si sottrae a quella dell’ordinario, al mondo del calcolo e dell’equivalenza, a quel mondo dell’omogeneo che il soggetto ordina per la propria conservazione e per il proprio utile.” (M.Mauss)
È inoltre inevitabile notare come l’accezione di episodio biblico della parola “parabola” salta in mente non appena constatiamo la presenza di un padre, un figlio e un’altura in cui il primo attenta alla vita dell’altro; sia ben chiaro però che qui non è Abramo a uccidere Isacco ma viceversa, e non perché un dio lo ha chiesto, bensì per puro piacere. Così, una volta ammirato il povero padre trasformarsi in “meravigliosa parabola diafana, canuta, zoppa, vibrante di terrore”, ci troviamo davanti alla più poetica delle chiusure che il protagonista (Barlocco) poteva regalarci: “Subito dopo al colmo dell’eccitazione mi lanciai anch’io, felice ed insieme maledetta parabola di me stesso, andai a schiacciarmi nel tubo di una fogna a pelo sotto il mare”. È nello schianto che l’orgasmo culmina per svelarci che la sete di morte altro non era che esigenza estrema di vita e che, “in questa rivelazione, il volgersi ostinato della brama della vita verso la morte (così come essa si dà in ogni forma di gioco e di sogno) non appare più come un bisogno di annientamento, ma come una pura brama di essere io, poiché la morte, ovvero il vuoto, non è che il terreno sul quale si innalza infinitamente – nel suo stesso venir meno – un dominio dell’io che è da rappresentarsi come una vertigine” (G.Bataille). La stessa vertigine che ci assale nel corso del racconto e ci accompagna per tutto il libro, senza mai riconsegnarci, però, allo spazio fertile e indefinito del mare aperto, sempre condannandoci, piuttosto, al definitivo, abortifero incastro di una fogna in superficie.
Superficie
“Il consenso assoluto a cui è costretto il sognatore gli impedisce di riconoscere il sogno come sogno se non nell’istante in cui si desta. Mentre sogna, lo considera necessariamente realtà. Questa situazione definisce, così mi sembra, l’essenza del problema. La coscienza ingenua non se lo pone, perché crede del tutto naturale e legittimo considerare i sogni dal punto di vista della veglia” (R.Caillois)
Roger Caillois, nel suo “L’incertezza dei sogni”, sosteneva che in letteratura il solo in grado di rappresentare un sogno da una prospettiva interna al sogno fosse Franz Kafka: è in questa capacità che trovo l’unico punto di incontro con Barlocco.
Non definiremmo mai i racconti dei due propriamente onirici, sognanti o fantastici, perché nonostante tutte le anomalie e i prodigi messi in scena, attingono pienamente dagli umori del reale -che in nulla differisce da un sogno quando si sogna-. La narrazione assume i toni banali di ciò che può aver luogo nel quotidiano, e racconti come “L’amante di parabole” iniziano con la sconcertante semplicità di “Un giorno mi trovai…”. In Barlocco tutto avviene in superficie, nella lucida dimensione del visibile, sotto una luce tagliente che tutto spiega e nulla nasconde. Folli pensieri, creature ibride, bio-mutazioni e “fatti inquietanti” sono le sue invenzioni letterarie fatte di carne vera, composte in laboratorio con la perizia di un chimico ed ordinatamente esibite in questa “mostra delle atrocità”, come fece Canterel nel “Locus Solus” di Raymond Roussell (o viceversa).
Come in cima a quella rupe, fatale punto di partenza di ogni parabola, nelle descrizioni di Barlocco “tutto è luminoso […]. Ma niente ci parla del giorno: non vi è né ora né ombra […]. Si ha l’impressione che tutto sia detto, ma che al fondo di questo linguaggio qualcosa taccia. I volti, i movimenti, i gesti, fino ai pensieri, alle abitudini segrete, alle inclinazioni del cuore, sono dati come segni muti su un fondo notturno” (M.Foucault).
Profondità
Dalla profonda notte di angoscia che riposa invisibile sotto l’accecante, sporco manto di chiarezza della scrittura, qualcosa emerge costantemente per ferirci in modo multiplo e instancabile.
Risparmiandomi la dolce pena di riaprire quel flagello chiamato “Maldoror” ed evitando di elencare tutte le sottili crudeltà presentate nei racconti di Barlocco, vi dico che solo che in quest’ultimo e in Lautreamont ho trovato tanta inaudita violenza, tanta abnorme ironia, tanta rivolta verso la natura. Sulla base di ciò posso affermare che, nonostante tutta la distanza che indubbiamente separa i due su più fronti, riconosco in Isidore Ducasse l’anima più affine allo scrittore in questione. Una forza sinistra brilla tenace nelle pagine di Marcello Barlocco, come sostanza e segno di una mente inquieta e di una penna mostruosa; ma non è la sola: lo spiazzo in cui nascerà l’amore per le parabole ci viene descritto come “un posto meraviglioso cosparso di strani fiori rossi e azzurri”. Allo stesso modo anche gli altri racconti si misurano con questa componente di fulgore che, senza alcuno scrupolo, voglio definire lisergica.
Tenendo conto di tutti i caratteri più tipici dell’arte e della letteratura psichedelica di sempre, non si farà troppa difficoltà a rintracciare in certe immagini che vengo ad elencare le esperienze allucinogene vissute da Barlocco durante le sue esplorazioni nel mondo psicotropo: un mare di scintille tremolanti, l’iniezione di liquidi, il fiorire di garofani rossi, il piangere di piacere nell’assumere la minestra, la somiglianza tra una gola insaponata e insanguinata e la panna condita con sciroppo di lampone, l’amico tramutato in un essere sostanzialmente elettrico e quello apparso con la testa da cane, la luce emessa dai vermi in punto di morte e il pesce con la coda viola, due teste e quattro occhietti infiammati… tutti frutti di uno stesso grappolo isotopico. Come dei condimenti di cui non può fare a meno, lo scrittore li inserisce anche dove non dovrebbero stare, come addobbi, luci colorate che balenano dentro ma, di tanto in tanto, escono a tingere lo spazio narrativo -anche il più nero- con lo splendore di un’eruzione stellare.
Le opere che stiamo analizzando sono un sintetico composto di incubo, sangue e ferite, ma proprio per questo pregne di vita, palpitanti entro un tessuto a un tempo letterario e organico, in cui riconosciamo nitidamente la pelle, il respiro, l’esistenza dell’autore. Pagina dopo pagina troviamo gli indizi per ricomporre il quadro di una vita giocata tra laboratori farmaceutici, nave, manicomio, traffici criminali, nomadismo suburbano e mondo bohème. Negli stessi anni in cui venivano scritti I “Racconti del babbuino” (oggi ripubblicati parzialmente nel libro “Un negro voleva Iole” insieme a straordinari aforismi inediti), un gruppo di scrittori americani componeva i primi meccanismi di quell’ordigno senza precedenti che sarebbe poi esploso con il nome di Beat. Prescindendo dallo stile letterario e da certe distanze che, generalmente, intercorrono inevitabili tra autori americani ed europei, mi ritrovo a fiutare, fra mappe biografiche e comuni dedizioni, una certa somiglianza tra Marcello Barlocco e William Burroughs, lo scrittore con cui Massimo Ferretti (altro caro all’indomabile casa editrice Giometti & Antonello di Macerata) apriva “Il Gazzarra”, romanzo dissennato a sua volta vicinissimo ad almeno un paio di racconti tra questi fin qui trattati.
Fine
Questa breve conclusione consiste nello scampare all’apertura di un altro capitolo che, peraltro, non saprei come intitolare. Lontano dall’idea di aver recensito un libro o aver acclamato un grande scrittore appena riscoperto, preferisco sentirmi colpevolmente coinvolto nell’innesco di un’analisi: l’analisi di come una scrittura possa farsi “felice ed insieme maledetta parabola” di se stessa.
Citazioni in ordine:
“Saggio sul sacrificio”, M.Mauss
“Sacrifici”, G.Bataille
“L’incertezza dei sogni”, R.Caillois
“Raymond Roussell”, M.Foucault